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«Ad terrorem aliorum et utilitatem publicam»: i tribunali inquisitoriali e la distruzione punitiva delle case degli eretici

«Ad terrorem aliorum et utilitatem publicam»: inquisitorial courts and the punitive destruction of heretics' houses

Marco Albertoni
Università “G. d’Annunzio” di Chieti, Italia

Sociedades precapitalistas

Universidad Nacional de La Plata, Argentina

ISSN-e: 2250-5121

Periodicity: Frecuencia continua

vol. 14, e087, 2024

publicaciones@fahce.unlp.edu.ar

Received: 13 August 2024

Accepted: 25 November 2024



DOI: https://doi.org/

Sommario: Questo saggio prende in esame la distruzione delle abitazioni quale metodo impiegato dai tribunali inquisitoriali, prima nel Medioevo, poi durante l’età moderna, per punire gli eretici più pericolosi dopo la loro condanna al rogo. Dopo aver rintracciato le basi giuridiche nel diritto romano (Lex Quisquis, Lex Iulia Maiestatis), questa ricerca individua le fonti normative e giurisprudenziali medievali e moderne: in particolare alcuni dettami conciliari (Tolosa, Béziers), e le prescrizioni presenti nella manualistica e nella trattatistica inquisitoriale e antiereticale. Descritta la cornice teorica, il saggio passa a esaminare i casi concreti, prendendo in analisi nel dettaglio alcuni episodi di abbattimenti punitivi messi in atto dai tribunali inquisitoriali spagnoli (Siviglia, Valladolid, Madrid), portoghesi (Coimbra - Lisbona) e romani (Faenza - Imola, Venezia, San Sisto). Nell’insieme, dall’analisi emerge lo stretto legame che c’era tra questa pratica e quella della confisca dei beni dell’eretico, come pure appare evidente il tentativo da parte degli inquisitori di rendere eterne le condanne, escludendo ogni possibilità di riabilitazione della memoria dei condannati.

Parole: Inquisizione romana, Inquisizione spagnola, Inquisizione portoghese, eretici, distruzione punitiva delle case.

Abstract: This paper looks at the destruction of houses as a method employed by inquisitorial courts, first in the Middle Ages, then during the modern age, to punish the most dangerous heretics after their conviction at the stake. After tracing the legal foundations in Roman law (Lex Quisquis, Lex Iulia Maiestatis), medieval and modern normative and jurisprudential sources are highlighted: in particular some conciliar dictates (Toulouse, Béziers), and the precepts found in inquisitorial and anti-heretical manuals and treatises. Once the theoretical framework has been described, the essay goes on to examine concrete cases, analysing a number of episodes of punitive executions carried out by Spanish (Seville, Valladolid, Madrid), Portuguese (Coimbra - Lisbon) and Roman (Faenza - Imola, Venice, San Sisto) inquisitorial courts. Overall, the analysis reveals a close link between this practice and the confiscation of the heretic's property. At the same time it is also clear that the inquisitors attempted to eternalise their convictions, cutting out any possibility of rehabilitating the public memory of the condemned.

Keywords: Roman Inquisition, Spanish Inquisition, Portuguese Inquisition, heretics, punitive house destruction.

1. Le distruzioni punitive delle abitazioni nel contesto storico europeo: una premessa

Le drammatiche vicende di guerra che in tempi più o meno recenti hanno investito città come Gaza, Mariupol, e prima ancora Aleppo, hanno portato nel dibattito pubblico un lemma inquietante e dal significato ambiguo, ripetuto da vari media e testate giornalistiche. Si tratta della parola domicidio, che con una semplice crasi unisce il nome latino domus al verbo caedo per indicare dunque la distruzione delle abitazioni civili (Napoletano, 2023). Va chiarito subito che il lemma si riferisce a una distruzione non accidentale, ma deliberatamente voluta, in particolare come metodo punitivo contro soggetti ostili (Bréville, 2024). Come già sottolineato nel podcast “Amare Parole” dalla linguista Vera Gheno, uno dei più importanti dizionari della lingua italiana registra infatti che la parola domicidio è un neologismo che indica «La distruzione deliberata e sistematica di case, palazzi e infrastrutture civili in un insediamento abitato, in una città o in una zona circoscritta. In senso ristretto e attenuato, è la negazione del diritto all’abitazione» (Treccani, 2024). Si tratta dunque di abbattimenti come metodo punitivo (Douglas Portous, Smith, 2001). Ma se questa parola è un’invenzione relativamente recente, il metodo di abbattere case per punire gruppi o singole persone è un tipo di punizione la cui storia, almeno in area mediterranea, non solo si perde nella notte dei tempi, ma ha alle spalle delle attestazioni giuridiche inequivocabili. Ciononostante, individuare una genealogia di lungo periodo delle demolizioni punitive delle abitazioni sarebbe oltremodo azzardato, soprattutto se si includessero i teatri di guerra. Escludendo, dunque, una così controversa questione, e concentrandoci esclusivamente sugli abbattimenti come conseguenza di azioni considerate gravi crimini di ribellione all’autorità, sappiamo che già in città come Atene, Sparta, Corinto e Siracusa, questa pratica – che portava il nome di Kataskaphê e veniva inflitta per alto tradimento – risale almeno al VI secolo avanti Cristo (Connor, 1985).

Come vedremo, le prime chiare attestazioni normative risalgono invece al diritto romano. Queste faranno da indispensabile base per occuparci di un aspetto che non è mai stato prima indagato: l’abbattimento delle abitazioni da parte dei tribunali inquisitoriali per punire la propaganda ereticale. Messe a fuoco le basi normative, partiremo dalle notizie inerenti al periodo medievale, per poi procedere, seguendo un ordine cronologico, con l’Inquisizione spagnola, quella portoghese e infine l’Inquisizione romana. Va considerato, del resto, che sul versante dei tribunali criminali non ecclesiastici l’abbattimento punitivo delle abitazioni risulta essere un fenomeno attestato tanto nella trattatistica quanto nella pratica (Albertoni, 2023; Albertoni, 2021b; Friedrichs, 2020; De Win, 2016). Ciononostante, ad oggi mancano ricerche sul versante della giustizia ecclesiastica. Esclusa la possibilità di colmare adeguatamente questa lacuna in poche pagine, ci occuperemo però di offrire alcune tracce, informazioni utili, e ricostruire storie di abbattimenti punitivi da parte dei tribunali della coscienza. Non prima, però, di aver provato a offrire un inquadramento teorico normativo attorno alle demolizioni punitive, al quale farà seguito uno sguardo sul modo in cui i manuali inquisitoriali trattavano questa materia.

2. Inquadramento teorico normativo degli abbattimenti punitivi tra medioevo ed età moderna

I primi chiari riferimenti scritti all’abbattimento punitivo degli edifici per i traditori, che fecero da base per la successiva normativa applicata dagli inquisitori, risalgono all’antica Lex Quisquis, emanata dagli imperatori Onorio e Arcadio nel 397 e in seguito inclusa nel Corpus Iuris Civilis e poi nel Decretum Gratiani. Connessa al crimine di lesa maestà (Lex Iulia Maiestatis nella Roma antica), nei secoli successivi e fino a tutta l’età moderna la Lex Quisquis prevedeva la confisca dei beni dei “ribelli”, il cui tradimento era da intendersi ovviamente in senso ampio, applicabile indistintamente alla sfera politica o religiosa, non essendoci una linea di demarcazione netta tra i campi.

Al punto 9.8.5, la Quisquis stabiliva dunque che, come conseguenza delle azioni maligne del padre, i figli del colpevole di lesa maestà fossero macchiati di infamia perpetua, e che per questa ragione non potessero possedere nulla, né ricevere alcunché in eredità. Un principio che, anche se dibattuto e in tempi successivi contestato, venne poi assorbito e perpetuato dai glossatori (medievali prima, e moderni poi) che si occuparono in modo diretto o riflesso di crimen laesae maiestatis (Ghisalberti, 1955, pp. 171-177). Le posizioni dei giuristi sul motivo concreto per il quale era giusto colpire i figli per le colpe dei padri erano diverse e talvolta in contrasto. Di fondo c’era però la concezione dell’infamia come una qualitas odiosa che si sarebbe inevitabilmente trasmessa quasi come dato genetico. L’infame, dunque, non avrebbe potuto generare altro che una prole altrettanto infame. Un tema, questo, che peraltro lasciava aperti interrogativi rilevanti: il figlio nato molto tempo prima che il padre commettesse il crimine poteva averne ereditato la perfidia? Ma al di là di ciò, alla base dell’idea di colpire anche i discendenti c’era il chiaro intento di evitare possibili ritorsioni e vendette contro le autorità, motivo per il quale spesso si ordinava il bando perpetuo dei figli maschi, quasi mai quello delle figlie. Giunti all’età moderna si formularono però anche tesi in aperta opposizione all’idea che il figlio potesse essere erede della iniquitatis patris, posizione sostenuta ad esempio da Girolamo Giganti (Ghisalberti, 1955, p. 176).

Ma, al di là delle concezioni teorico-normative, che erano fortemente condizionate dalla nascita delle università e dal recupero e riadattamento del diritto romano al mondo medievale, e al di là della trasmissibilità della colpa, dal punto di vista culturale, al netto del progressivo affermarsi della cultura cristiana, quale logica faceva sì che la confisca dei beni e la negazione dell’eredità fossero ritenute la giusta pena da infliggere ai traditori? Il nodo sembra essere quello della concezione medievale cristiana dell’avarizia e del controverso rapporto tra la cultura cristiana del tempo e l’economia di mercato (Todeschini, 2007, pp. 105-135; Todeschini, 2002; Todeschini, 1994; Le Goff, 1986; Capitani, 1974), al cui centro il dibattito storiografico ha posto il problema dell’usura (Todeschini, 2012a; Todeschini, 2012b; Vismara, 2009). L’idea di fondo era dunque che i ribelli politico-religiosi fossero mossi alla disobbedienza, vale a dire al tradimento dell’ordine costituito, per la loro sfrenata avidità.

Alcune importanti tracce medievali che indicano quanto il tema dell’abbattimento delle case e della confisca dei beni fossero applicate trasversalmente, indipendentemente dal tipo di tradimento (politico, religioso), vengono dall’Inghilterra di re Enrico II. Come già sottolineato a suo tempo da Henry Charles Lea, nell’Assise di Clarendon del 1166, all’articolo 21, viene fatto esplicito riferimento all’abbattimento dell’edificio nel quale fossero stati ospitati eretici (Henderson, 1903, p. 20), misura poi ripresa da Enrico VI di Svevia nell’editto di Prato del 1194, da Ottone IV nel Mandatum contra haereticos Ferrarienses (1210), come pure da una serie di statuti dei decenni successivi (tra cui Padova, Verona, Vicenza, Treviso, Bologna, Ferrara), ed altri provvedimenti prescrittivi emanati da varie autorità in diversi luoghi d’Europa (Lea, 1887, vol. 1, pp. 481-483; Fischer, 1957). In quello stesso torno di anni, Innocenzo III con la bolla Ad eliminandam (23 settembre 1207) ordinava che «Domus autem in qua hereticus fuerit receptatus funditus destruatur nec quisquam eam reedificare presumat» (Sommerlechner, Rainer, 2007, pp. 221-222; Théry, Gilli, 2010, pp. 564-565).

Parallelamente le persecuzioni anticatare portarono spesso alla distruzione di grosse porzioni di cittadine popolate da “eretici” (si pensi al massacro di Béziers, del 1209), ma ciò avveniva perlopiù nell’ottica della guerra crociata, al di fuori dei tribunali (Bourin, 2010; Brenon, 2010).

Nel 1232 l’imperatore Federico II ampliò i ben noti provvedimenti della sua politica antiereticale, inaugurata dai primi anni del decennio precedente in poi, in particolare proprio contro i catari. Si tratta di una normativa che prevedeva anche la confisca dei beni degli eretici e dei loro fiancheggiatori, aggiungendo che le abitazioni di costoro dovessero essere distrutte, e così quelle dei loro «receptatores, defensores» e «fautores». La contrapposizione tra schieramenti e i continui capovolgimenti di fronte tra papali e imperiali nei comuni del settentrione italiano, fa sì che sebbene disponiamo di alcune sporadiche notizie di abitazioni atterrate per punire gli avversari, resta una forte ambiguità circa le motivazioni degli abbattimenti e gli organi che li ordinarono. Senza contare che, a differenza di quanto vedremo in seguito con i tribunali inquisitoriali moderni, non necessariamente c’era un processo e una sentenza giudiziaria a ordinare l’abbattimento.

Un caso interessante è quello della Brescia del 1224-25, ad esempio, nella quale alcune famiglie aristocratiche (Ugoni, Gambara, Lavellolongo, Mosi, Maleghette) vennero accusate di eresia dall’autorità comunale e, su ordine diretto di papa Onorio III, vennero distrutte le loro torri. Durante il processo, uno degli accusati si difese sostenendo che l’accusa di eresia era del tutto infondata, perché l’opposizione era puramente politica (Milani, 2003, pp. 79, 329-332).

In ambito ecclesiastico va poi ricordato il Concilio di Tolosa del 1229, il quale stabilì che

Domus autem, in qua repertus fuerit aliquis haereticus, vel haeretica, sine ulla spe reaedificandi funditus destruatur: nisi Dominus domus eos ibidem procuraverit reperiri. Et si Dominus illius domus, alias domus habuerit contiguas illi domui, omnes illae domus similiter destruantur, et bona, quae fuerint inventa in domo illa, et in domibus illis adhaerentibus, publicentur, et fiant auferentium, nisi auferentes fuerint in officio constituti (E. H. Landon, 1909, vol. 2, p. 171).

Qualche tempo dopo, nel 1246, sarebbe stato il Concilio di Béziers a confermare la regola (E. H. Landon, 1909, vol. 1, p. 95), la quale venne in ultimo assorbita e riproposta nella famosa Ad extirpanda, del 15 maggio 1252, bolla promulgata da papa Innocenzo IV che rilanciava i provvedimenti del concilio tolosano, spesso riproponendoli alla lettera. Al punto XXVI veniva ad esempio sottolineato nuovamente qualcosa di simile:

Domus autem, in qua repertus fuerit aliquis hereticus vel heretica, sine ulla spe reedificandi funditus destruatur, nisi dominus domus eos ibidem procuraverit reperire. Et si dominus illius domus alias domos habuerit contiguas illi domui, omnes ille domus similiter destruantur, et bona que fuerint inventa in domo illa et in domibus illis adherentibus publicentur et fiant auferentium (Théry, Gilli, 2010, p. 580).

Pertanto, la casa dell’eretico doveva essere distrutta senza possibilità che venisse poi ricostruita; se il proprietario avesse avuto altre case contigue, queste sarebbero state a loro volta demolite, e i beni trovati al loro interno sarebbero stati sequestrati e incamerati dal fisco.

Parallelamente, lo stesso pontefice aveva inviato una lettera in cui incaricava il priore provinciale e i frati inquisitori dell’ordine dei Predicatori in Lombardia, della marca Trevigiana e della Romagna di indurre le città, i castelli e qualunque altro luogo delle aree appena citate di applicare gli statuti pontifici e gli altri provvedimenti (ecclesiastici e secolari) come anche le costituzioni di Federico II, ordinando un ferreo rispetto della bolla papale, e comprendendo ovviamente le regole riguardanti la distruzione della casa degli eretici (Bronzino, 1980, pp. 33-34).

In questa prospettiva una punizione come quella dell’abbattimento della casa, tipica del delitto di lesa maestà di primo grado (il più grave) veniva applicata anche all’eresia. Qualche tempo prima, con la bolla Vergentis in senium del 25 marzo 1199, emanata da papa Innocenzo III, il delitto di eresia era stato pienamente equiparato al crimen laesae maiestatis, formalizzando sul piano teorico quanto di fatto avveniva già su quello pratico (Meschini, 2002-2003; Chiffoleau, 2007; Hegeneder, 2000; Maceratini, 1994; Chiffoleau, 1993; Sbriccoli 1974; Ruffino, 1973; Ghisalberti, 1955).

Per fare qualche significativo esempio circa quanto avvenne nei decenni successivi, sappiamo che in una nota raffica di sentenze inquisitoriali orvietane avvenute dopo la sconfitta di Manfredi di Svevia a Benevento (1266) e di Corradino a Tagliacozzo (1268), i padri francescani avevano processato diversi esponenti di potenti famiglie ghibelline filoimperiali come i Tosti e i Ricci, i quali vennero messi al bando da Orvieto o spesso anche da tutta la «Romana provincia». Cristoforo Tosti, ad esempio, già inquisito una prima volta negli anni precedenti, ma ora nuovamente incriminato per aver continuato a difendere gli eretici, venne definito «nefandus» e, basandosi certamente sull’impianto teorico che abbiamo esaminato, gli inquisitori avevano riconosciuto che la «nefariam disciplinam» la aveva ereditata dai suoi avi, motivo per il quale la sua casa «cum turri» doveva essere abbattuta (Corsi, 2004, p. 82; D’Alatri, 1996, p. 88).

Successivamente, ancora in territorio italiano, il 9 luglio 1297 papa Bonifacio VIII con la Nuper Iacobum, diede ordine universis inquisitoribus di procedere contro i cardinali Giacomo e Pietro Colonna. Di soli due giorni più tardi è invece la bolla Oblata nobis, provvedimento con il quale il papa accordò a Sibilla e Nasilla – figlie di Paolo Palmerio di Spoleto – di riedificare la loro casa, che era stata fatta distruggere dall’inquisitore Angelo da Todi a causa delle colpe del padre (Benedetti, 2010).

Trascorso ancora qualche mese e giunti al 3 marzo 1298, sempre papa Caetani con la bolla Sacrosanctae Romanae Ecclesiae fece pubblicare il Liber Sextus del Corpus Iuris Canonici, che condensava un imponente sforzo disciplinare teso a raccogliere e amalgamare la normativa antiereticale già emanata dai predecessori (tra cui Gregorio IX, Alessandro IV, Urbano IV e Clemente IV). Una specifica attenzione veniva riservata al problema centrale dei beni degli eretici e della loro confisca (Benedetti, 2010), tema sul quale alcuni storici si sono concentrati nell’ultimo ventennio (Lavenia, 2012; Lavenia, 2010; Lavenia 2004; Lavenia, 2003; Lavenia, 2000; Maifreda, 2014; Maifreda, 2010).

La regola sarebbe stata poi ampiamente ribadita nei secoli a seguire, nonostante fosse mutato il contesto storico così come i volti dell’eresia. La troviamo citata nella variegata trattatistica che, da più angolature e in forme diverse, affronta la questione delle punizioni da infliggere agli eretici, nonché in numerosi manuali ad uso degli inquisitori. Fonti teorico-pratiche che ci interessa sondare in alcuni esempi rappresentativi, per poi vedere, al di là della teoria, in quali casi concreti, tra quelli di cui si ha notizia, gli abbattimenti punitivi vennero effettivamente compiuti.

Partendo da uno dei più conosciuti, vediamo che il famoso Directorium Inquisitorum di Eymerich (del 1376) raccomandava che l’eretico pertinace e intento a fare proseliti, una volta condannato e bruciato (sia che ciò fosse avvenuto in vita oppure dopo la morte) avrebbe avuto la casa distrutta e livellato il suolo affinché non ne rimanessero le vestigia. Il significato attribuito da Eymerich è che da sempre era proprio nella loro dimora che gli eretici si riunivano e tenevano conciliaboli contro la fede. In questa logica, tuttavia, la sentenza di demolizione poteva valere tanto per l’abitazione come per quei luoghi che, pur non essendo case, erano state il covo di riunione degli eretici. Ad ogni modo, una volta compiuto, l’abbattimento avrebbe comportato il divieto di ricostruire in futuro qualsivoglia edificio nello stesso luogo. Parallelamente il fisco avrebbe potuto disporre di tutte le pietre, i resti e le fondamenta: «omnes lapides, rudera et commenta inde amota ad fiscum nostrum pertinere» (Eymerich, Peña 2000, pp. 222-223). Si tratta di un principio che ribadisce dunque quanto già visto, e che mette ancora in diretta relazione la confisca dei beni e la demolizione punitiva, e che pertanto si ritrova di fatto inalterato nella manualistica inquisitoriale successiva. Per fare un altro esempio, Zanchino Ugolini nel noto De haereticis (opera falsamente attribuita a Giovanni Caldarini), concepito nel 1330 e circolato prima manoscritto e poi stampato per iniziativa di Pio V a Roma nel 1568 (anche se qui ci serviremo dell’edizione di tre anni successiva), dedica due capitoli (il trentanovesimo e il quarantesimo) al tema della distruzione o della confisca delle case nelle quali si fossero radunati eretici per la loro propaganda (Ugolini, 1571, pp. 44-45). Pur con vari distinguo e specifiche, in modo chiaro, nella sua opera Ugolini esplicitamente stabilisce che «Domus in quae hereticalia commissa sunt est destruenda sine spe reaedificationis» (cap. 39, punto 2). Ma che la distruzione sarebbe dovuta avvenire solo nei casi di propaganda ereticale avvenuta dentro l’abitazione, perché altrimenti le case degli eretici sarebbero dovute finire nelle disponibilità del fisco. Quanto al divieto perpetuo di riedificare il terreno, solo le autorità ecclesiastiche avrebbero potuto porvi fine (cap. 40, punto 8).

Sempre nel periodo di Pio V, un altro manuale inquisitoriale affronta il tema della distruzione della casa degli eretici. Si tratta dell’Opus quod iudiciale inquisitorum dicitur (Locati, 1568) stilato nel 1568 (con varie ristampe) da Umberto Locati (Ragagli, 2010; Ragagli, 2005), inquisitore esperto, reduce da una lunga pratica che si era svolta nel decennio precedente tra Pavia e Piacenza, nonché uomo legato a doppio filo a papa Ghislieri. Anche in quest’opera vengono ribaditi gli stessi princìpi e rimandi intrecciati a molte fonti precedenti che confermavano la tradizione (Locati, 1568, pp. 90-91). Metodo e princìpi dai quali si deduce che le regole, almeno sul piano teorico, rimanevano sostanzialmente immutate rispetto ai tempi medievali. Le abitazioni di uomini e donne che avevano propagandato l’eresia al loro interno dovevano essere distrutte. Allo stesso modo rimanevano le eccezioni. Ad esempio, era escluso da questo tipo di punizione la casa di un proprietario che avesse denunciato il raduno ereticale lui per primo, consentendo agli inquisitori di scoprire il covo, così come veniva esplicitamente stabilito già nella bolla Ad Extirpanda (Théry, Gilli, 2010). Una serie di conferme, insomma. Motivo per il quale una rassegna completa dei manuali inquisitoriali in tema di distruzioni delle abitazioni non aggiungerebbe nulla a quanto già detto, dal momento che le regole tendono a ripetersi e ad essere copiate più o meno sistematicamente.

Lo stesso discorso sembra valere più in generale per la trattatistica in tema di eresia e relative condanne. Prendendone a modello giusto un paio tra le più rappresentative e conosciute opere, che peraltro citano la copiosa normativa precedente, possiamo vedere che nel 1616 Prospero Farinacci, nel suo Tractatus de haeresi (qui ci serviremo dell’edizione del 1621), ricordava come principio generale che «domus in qua haeretici conveniunt faciuntque conventiculas et congregationes, praedicant et alia similia, destruitur nullo unquam tempore reaedificanda» Farinacci, 1621, p. 237), assunto dal quale, come di frequente avveniva in certi tipi di opere di ampio uso da parte dei giuristi, venivano elencate numerose fattispecie e alcuni distinguo sul modello del formulario a domanda e risposta. Più tardi anche il famosissimo De inconstantia in iure admittenda di Francesco Albizzi riprendeva la tradizione normativa dei secoli precedenti, specificando, in estrema sintesi, che «Non solum autem bona Hæreticorum confiscantur, sed Domus eorum destruuntur» (Albizzi, 1683, p. 131). A questo Albizzi aggiungeva alcune specifiche interessanti. Su tutte, quella che dà il titolo a questo saggio e che ci spiega una delle principali ragioni che spingeva gli inquisitori a ordinare la distruzione degli edifici in cui si era fatta propaganda ereticale: «Et hoc ad terrorem aliorum et utilitatem publicam» (Albizzi, 1683, p. 135). Albizzi specifica anche che sebbene alcuni dottori facessero distinzioni attorno all’opportunità di confiscare o distruggere la casa a seconda di chi ne fosse stato il proprietario (il capo della setta o altri), sarebbe stato necessario non tenere conto di ciò, e fare comunque distruggere l’edificio (Albizzi, 1683, p. 135). In quest’opera, in ultimo, si introduce anche un qualcosa di interessante, l’impiego di “colonne infami”, vale a dire monumenti contro la memoria dei condannati. Al posto della casa abbattuta, si poteva ergere un pilastro alto 4 o 5 piedi con un’iscrizione a caratteri maiuscoli in cui si ricordasse il nome del condannato, il motivo della distruzione dell’edificio, e sotto quale pontefice (e sovrano, a seconda del luogo) ciò fosse avvenuto (Albizzi, 1683, p. 136).

Si tratta di un uso ampiamento diffuso nell’Europa d’età moderna, soprattutto da parte dei tribunali secolari contro i crimini di lesa maestà umana (Albertoni, 2023). Come avremo modo di vedere nelle prossime pagine, benché il fenomeno resti ancora da indagare capillarmente, c’è prova del fatto che i tribunali inquisitoriali d’età moderna, al pari di quelli secolari, elevarono colonne infami al posto delle case abbattute al fine di disonorare in eterno la memoria di eretici considerati particolarmente pericolosi anche da morti.

Piuttosto che rimanere sul piano teorico, dunque, pare allora opportuno provare a indagare alcune delle notizie che restano sui casi concreti di distruzioni punitive delle case degli eretici da parte dei tribunali inquisitoriali d’età moderna: spagnoli, portoghesi e romani.

3. L’Inquisizione spagnola

Partendo dalla più antica, quella spagnola, rintracciamo una serie di casi degni di nota. Il primo sul quale è opportuno soffermarsi è il focolaio ereticale che prese piede a Siviglia sul finire degli anni Cinquanta del Cinquecento. L’abbattimento dell’abitazione, in particolare, avvenne nel 1559 per ordine dell’arcivescovo della città e inquisitore generale (dal 1547 al 1566) Fernando de Valdés, impegnato in quel periodo a portare a termine una raffica di processi voluti per soffocare la cosiddetta “Riforma religiosa sivigliana”. Cosa era accaduto? Nell’estate 1552 aveva pubblicamente dovuto abiurare i suoi errori Juan Gil, vale a dire quel “Dottor Egidio” che è un soggetto più che noto agli studiosi dell’Inquisizione spagnola (Boeglin, 2018; Civale, 2004; Thomas, 2001; Pastore, 2001; Llorente, 1820, pp. 58-86). Personaggio importante innanzitutto perché Gil era al tempo membro del capitolo della cattedrale di Siviglia e, nonostante questo, già in un primo momento aveva dovuto scontare un anno di reclusione forzata in un convento per le sue predicazioni che erano figlie dello spirito di riforma religiosa incarnato dal cardinal Francisco Jimenéz de Cisneros (idee che Gil aveva assorbito all’Università di Alcalá). Dopo di lui, sarebbe stata la volta di altri due alumni dell’università sivigliana e a loro volta membri del capitolo cittadino: Francisco de Vargas e Constantino Ponce de la Fuente. Quest’ultimo, in particolare, era già finito sotto la lente inquisitoriale quando, nel 1553 prima e nel 1557 poi, era stato ordinato il sequestro delle sue opere. L’anno successivo il doctor Constantino (nome col quale era meglio conosciuto) finì dunque nelle carceri inquisitoriali, dentro le quali sarebbe morto nel 1560. Anche grazie a una rete di contatti internazionali che si nutriva di scambi epistolari con i riformati fuggiti in Svizzera, a Siviglia si erano venuti a creare più gruppi, composti in particolare da personalità dei ceti urbani intermedi. Gli inquisitori avrebbero però notato che un ruolo cruciale lo avevano avuto alcune donne. Su tutte due in particolare erano state le più attive: Maria de Cornejo e Isabel de Baena, le quali ospitavano nelle loro case le riunioni segrete luterane. Una volta che la rete sivigliana venne scoperta partirono i processi inquisitoriali per smantellarla. All’interno dei fascicoli processuali troviamo una sommaria descrizione del profilo delle due donne e le loro colpe: ambedue definite “luterane” (Huerga, 1989; Huerga, 1988) pertinaci erano colpevoli di impartire lezioni sulle idee della Riforma all’interno delle loro stesse abitazioni. Per questa ragione, al termine del processo, il 24 settembre 1559 entrambe vennero condannate al rogo. E dato che le loro abitazioni erano diventate covi di propaganda ereticale «se mandan derribar las casas en que vivían aquestas dos doncellas y poner en ellas un mármol con un letrero que declare el delito que en ellas se cometía» (López Muñoz, 2011, vol. 2, p. 164).

Pochi anni dopo i processi sivigliani fu la volta di quelli di Valladolid, città nella quale l’Inquisizione si fece trovare già preparata e pronta a intraprendere un’azione repressiva efficace. Nel 1559 i giudici riuscirono infatti a soffocare sul nascere la propaganda ereticale che avrebbero potuto svolgere i primi che, in città, si erano avvicinati alle dottrine della Riforma: uomini come i fratelli Pedro e Augustín de Cazalla (Castro Sánchez, 2018). Segnali minacciosi erano giunti agli inquisitori già a cavallo tra il 1557 e il 1558, come testimoniano le informazioni che l’inquisitore generale Fernando de Valdés aveva inviato all’imperatore Carlo V. In quell’occasione fu tratto in arresto a Zamora Cristobál de Padilla, personaggio ritenuto pericoloso perché assai vicino alla marchesa di Alcañices (Alfonso Burgos, 1983, p. 66). L’interrogatorio del Padilla consentì poi al Sant’Uffizio di mettersi sulle tracce dei coinvolti e fiutare varie altre piste investigative. Fu in questo modo che vennero coinvolti i fratelli Pedro e Augustín de Cazalla, assieme a Francisco e Beatriz de Vibero. Oltre a loro, una serie di altri personaggi tra cui il genovese Carlo Sesso (ispanizzato in Carlo de Seso), figura di cui la storiografia ha messo più volte in luce, specie negli ultimi decenni, l’assoluta centralità (Albertoni, 2021a, pp. 300-301). Il numero si era ampliato notevolmente, ma Sesso fu tra i pochi dei circa cinquanta coinvolti a provare a fuggire verso la Francia, tentativo che fu però bruscamente interrotto in Navarra. Del resto, l’uomo era ben consapevole che qualcuno avrebbe fatto il suo nome, e che sarebbe presto emerso che era stato proprio lui a dar vita a Logroño alla sua azione di propaganda filoriformata che avrebbe in seguito toccato anche Palencia e Valladolid, coinvolgendo persino il parroco Pedro e suo fratello Augustín de Cazalla. Senza contare che c’erano prove del fatto che nel 1555 alcuni di coloro che sarebbero poi stati inquisiti perché appartenenti alla rete sivigliana erano entrati in contatto con esponenti di spicco del gruppo di Valldolid. I soggetti che avevano fatto da punti di contatto erano stati dunque il già richiamato dottor Egidio (Juan Gil), Pedro de Cazalla e Carlo Sesso (Pastore, 2003, pp. 235-247).

Alla fine di aprile del 1558 l’inquisitore Juan Vázquez fece perciò arrestare Pedro de Cazalla. All’inizio del 1559, papa Paolo IV, che intanto era stato allertato della preoccupante rete che era affiorata in Spagna e dei gravi rischi che il cattolicesimo aveva corso, emanò due brevi in cui autorizzava il Sant’Uffizio spagnolo a intervenire, all’occorrenza, sull’episcopato (siamo all’antefatto del famoso processo all’arcivescovo Bartolomé Carranza) e a usare il massimo zelo verso gli inquisiti.

Avviati i processi, dagli interrogatori venne alla luce che, come a Siviglia, il gruppo di Valladolid era solito riunirsi in casa di una donna. In questo caso Leonor de Vibero, vale a dire la madre dei due fratelli Pedro e Augustín de Cazalla, canonico della cattedrale di Salamanca e in precedenza cappellano reale. Stando alle dichiarazioni di vari inquisiti, tra cui Ana Enríquez, nella casa di Leonor la conventicola si riuniva per leggere ad alta voce e commentare testi di Lutero, Calvino, Juan de Ávila e Luis de Granada. Non solo: come se fosse una chiesa protestante, nell’abitazione si celebrava la “cena” e la comunione sub utraque specie (Moreno, 2018; Luttikhuizen, 2017, pp. 116-129; Tellechea Idígoras, 1983; Llorente, 1820).

Da lì, in breve tempo l’operazione di polizia si ampliò a macchia d’olio, servendosi anche dell’esperienza di vescovi delle diocesi circostanti che erano stati già membri della Suprema e conoscevano le più efficaci strategie per gestire situazioni complesse e pericolose. La conseguenza fu che nella primavera del 1559 si trovavano ormai nelle carceri inquisitoriali di Valladolid più di 50 persone collegate al gruppo, e giunti al 21 maggio, alla presenza del principe Carlos e della zia (Giovanna di Portogallo, reggente di Castiglia per l’assenza di Filippo II) fu celebrato un primo solenne e impressionante auto de fe, particolarmente sentito e partecipato dalla popolazione. Ad aprire il corteo era l’effigie di donna Leonor de Vibero, morta per ragioni a noi ignote e in un momento imprecisato ma prima che potesse essere giustiziata. Da alcune testimonianze relative al corteo sappiamo non solo che l’immagine raffigurava un’anziana che indossava una mitra con sopra disegnate le fiamme dell’inferno, ma anche che l’effigie stessa era seguita dal feretro del vero cadavere di Leonor, che come insegnava la tradizione per le condanne di lesa maestà (umana e divina, tra cui l’eresia, naturalmente) doveva essere arso anche se privo di vita, perché si potessero disperdere le ceneri, affinché nulla restasse delle spoglie. Il feretro era seguito dal figlio Augustín de Cazalla e da vari altri parenti e membri dello stesso nucleo filoriformato, tra cui: Francisco de Vibero, Beatriz de Vibero, Alonso Pérez, Cristóbal de Ocampo, Cristóbal de Padilla, Antonio Herrezuelo, Juan García, Francisco Pérez de Herrera, Catalina Ortega, Catalina Román, Isabel de Estrada e Juan Blázquez. Altri 16 della stessa cerchia furono riconciliati. I documenti testimoniano anche che per l’occasione nella piazza di San Francesco venne allestito un palco, sul cui punto più alto vennero esposti i fratelli Augustín de Cazalla e Francisco de Vibero. Dopo un infervorato sermone antiereticale del famoso frate domenicano Melchor Cano, e dopo che tutti i chierici che dovevano essere lasciati al braccio secolare vennero degradati, i destinati al rogo vennero portati in groppa a degli asini fino a piazza della Puerta del Campo, dove erano state allestite le pire. In ultimo, solo Antonio Herrezuelo – che rifiutò di pentirsi – subì il rogo da vivo. Gli altri vennero prima impiccati.

Appena cinque mesi dopo, l’8 ottobre 1559, il prosieguo delle indagini portò a un secondo eclatante auto de fe, che si svolse alla presenza di re Filippo II in persona, di buona parte della nobiltà castigliana e di una folla oceanica di spettatori (Menéndez Pelayo, 1986). In quell’occasione avrebbero pagato con la morte al rogo altri esponenti di spicco come Carlo di Sesso, Pedro de Cazalla, Eufrosina de Mendoza, Marina de Guevara, Juana Sanchez (che come donna Leonor de Vibero venne arsa in effigie) e molti altri.

Attraverso questi due eclatanti autos de fe, il movimento filoriformato di Valladolid, composto quasi esclusivamente da spagnoli (ad eccezione dell’italiano Sesso) e di alto rango sociale, venne decimato. Ma quel che qui più interessa è la confisca dei beni di donna Leonor de Vibero e l’abbattimento della sua casa, avvenuto in seguito al corteo del 21 maggio 1559. Il suolo dove sorgeva l’abitazione venne cosparso di sale affinché non vi nascesse più nulla, e sullo stesso punto venne eretto un monumento d’infamia (Albertoni, 2023) sul quale era riportata un’iscrizione «que manifiesten su delito y que nadie perpetuamente las rredifique»1.

Figura 1

La colonna infame di Valladolid (1559), anche detto Rótulo de Cazalla. Biblioteca Nacional de España, manoscritto 19325, Historia de la muy noble y muy leal ciudad de Valladolid: con los autores más clasicos que de ella han hecho mención hasta el año de 1760 y en adelante, vol. 1, fol. 235. http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000198443&page=1

Da un ulteriore documento apprendiamo invece un altro dato importante, e cioè che il monumento infamante, dopo essere stato rinnovato nel 1766 (non sappiamo cosa ne avesse richiesto il restauro) rimase al suo posto fino al 1820, quando venne demolito in quella che nel frattempo aveva preso il nome di Calle del Rótulo de Cazalla2.

Ovviamente non è casuale che fu proprio nel 1820 – vale a dire in concomitanza con la terza abolizione del Sant’Uffizio e l’inizio del Triennio liberale – che le autorità presero la decisione di rimuovere il monumento e restituire degna memoria al personaggio e a quel luogo nel quale un tempo c’era la sua casa. A confermarlo è il fatto che il 18 maggio 1820 l’Ayuntamiento Constitucional diede ordine non solo di rimuovere l’infame testimonianza, ma anche di rinominare la via in cui si trovava: dalla disonorevole calle del Rótulo de Cazalla si sarebbe passati alla calle del Doctor Cazalla (Alcántara Basanta, 1914, p. 93; Ortega Y Rubio, 1881, vol. II, p. 285-286), che intendeva celebrare e omaggiare la memoria di un “martire” dell’Inquisizione: un nome che si conserva ancora oggi.

Altre residuali tracce dal mondo ispanico giungono, infine, dalla Madrid del 1632, e più precisamente dalla relazione dell’auto de fe che si tenne 4 luglio alla presenza del re e della famiglia reale3. Quasi tutti i coinvolti facevano parte di una setta di giudaizzanti portoghesi che avevano preso parte a riunioni che si svolgevano nella casa-sinagoga dei coniugi Miguel Rodriguez e Isabella Martínez Alvarez. I due in particolare erano stati accusati di celebrare dei riti nei quali vaniva colpita, seviziata e ingiuriata in vari modi l’effigie di Gesù, per vendicarsi delle persecuzioni che gli ebrei avevano dovuto subire da parte dei cristiani. Il tribunale ordinò pertanto che la casa nella quale tutto questo era avvenuto venisse demolita, e che si ponesse un’iscrizione (a noi sconosciuta) che ricordasse l’accaduto. Qualche tempo dopo si decise che anziché lasciare deserto il terreno sarebbe stato più utile sfruttarlo in segno di rivalsa. Sullo stesso luogo venne perciò edificato un convento di padri cappuccini che prese il nome di Convento della Pazienza, alludendo agli oltraggi che Cristo aveva permesso di commettere contro la sua immagine. La casa in questione venne abbattuta il 6 luglio, due giorni dopo le condanne che in ultimo mandarono al rogo 6 persone più 4 in effigie, mentre altre 42 furono riconciliate (Llorente, 1820, pp. 503-504).

4. L’Inquisizione portoghese: un caso esemplare

Un altro caso importante di abbattimento di abitazione da parte di un tribunale inquisitoriale, in questo caso portoghese, è quello, già piuttosto noto, di Antonio Homem, professore di diritto canonico all’Università di Coimbra e già dottore del capitolo della cattedrale della città.

I fatti che portarono al triste epilogo della vicenda ebbero inizio il 24 novembre 1619, quando Homem fu arrestato dall’Inquisizione di Coimbra, che lo accusava di sodomia e criptogiudaismo. Dopo un mese, data la sua rilevanza, il processo venne trasferito a Lisbona. Per quel che concerne il primo capo di accusa, quello di sodomia, in seguito alla denuncia trentacinque persone testimoniarono che Homem aveva scambiato effusioni e masturbazioni con alcuni giovani che avevano tra i 13 e i 19 anni (sul tema della pedofilia nell’ottica ecclesiastica in prospettiva storica Lavenia, Benigno, 2021; sul Portogallo Mott, 2004). Ma il professore si era difeso ammettendo che lo scambio di effusioni c’era stato, ma non il “crimine nefando”, la sodomia (del quale era competente l’Inquisizione), affermando che, soffrendo di impotenza, era impossibile che fosse riuscito a penetrare un uomo. Si dichiarava totalmente innocente, poi, per quelle che erano le accuse di criptogiudaismo, che lo volevano capo di un’importante “setta” composta anche da altri membri del capitolo della cattedrale di Coimbra (Crispim da Costa, Antonio Dias de Acunha e il matematico André de Avelar). A gettare forti sospetti sull’attendibilità delle accuse erano alcuni dettagli non trascurabili: l’incontro più importante si svolgeva in occasione della Pasqua e in corrispondenza di altre festività ebraiche; tutti dovevano essere vestiti con i migliori abiti, avere il capo scoperto e i piedi scalzi e Homem, in paramenti da sacerdote che ricordavano quelli dell’Antico Testamento, era solito benedire i partecipanti dopo aver tenuto una funzione ed essersi fatto baciare l’orlo del vestito o i piedi. Per conferire ulteriore sacralità al cerimoniale, sembra inoltre che venissero utilizzati numerosi oggetti con funzione liturgica: mitre e tessuti di seta, merletti, tavoli e lampadari particolari, e soprattutto un altare con le immagini di Mosè e di frate Diogo de Assunçao, bruciato vivo dall’Inquisizione nel 1603 e considerato dal gruppo un santo (Andrade, 1999).

A più riprese la storiografia ha sottolineato i fattori che porterebbero a credere che il processo a Homem fu un processo politico, più che religioso; vale a dire che si trattò verosimilmente di una vendetta per vari dissidi interni all’Università di Coimbra, e più in generale a varie altre istituzioni (la cattedrale di Coimbra, i collegi di São Pedro e São Paulo) nelle quali il professore, essendo influente, tra nomine e tiri incrociati, da tempo si scontrava con i suoi rivali (Magalhães, 1997). Ma al di là della veridicità delle accuse, indubbi restano i passaggi che animarono il processo, che andò avanti per oltre quattro anni, come indubbio resta il suo drammatico esito (Teixeira, 1895). Al termine dell’auto de fé che si tenne a Lisbona il 5 marzo 1624, Homem venne consegnato al braccio secolare per essere mandato a morte. La casa di Coimbra in cui avvenivano le presunte riunioni fu demolita, il terreno cosparso di sale (affinché non ricrescesse più nulla) e su di esso eretto un monumento a perenne memoria infamante contro colui che venne apostrofato come praeceptor infelix (Feitler, 2010; Rodrigues, 1979, pp. 23-26, 34; Teixeira, 1895, pp. 260, 302-303). Il pilastro riportava infatti questa iscrizione:

PRÆCEPTOR INFELIX. ESTAS CASAS MANDOU ARRAZAR, E SALGAR O SANCTO OFFICIO PARA NUNCA MAIS SE REEDIFICAREM, POR HAVER NELLAS DE ORDINÁRIO AJUNCTAMENTOS DA NAÇÃO HEBREIA, OS QUAES COM RITOS, E CEREMONIAS JUDAICAS CELEBRAVAM OS JEJUNS SOLEMNES DA LEI DE MOYSÉS, ASSISTINDO NELLES POR SUMMO SACERDOTE O DR. ANTONIO HOMEM LEITÃO MEIO X. N. [CHRISTÃO NOVO], LENTE DE PRIMA DE CÂNONES QUE FOI NESTA UNIVERSIDADE DE COIMBRA, CÓNEGO DOUTORAL NA SÉ DELLA, RELAXADO Á JUSTIÇA SECULAR NO AUTO DA FÉ, QUE SE CELEBROU NA RIBEIRA DA CIDADE DE LISBOA EM 5 DE MAIO DE 1624, SENDO INQUISIDOR GENERAL DESTES REINOS O ILLUSTRISSIMO SENHOR DOM FERNÃO MARTINS MASCARENHAS, E EM MEMORIA DO SOBREDICTO, SE MANDOU LEVANTAR AQUI ESTE PADRÃO (Teixeira, 1895, p. 303).

5. L’Inquisizione romana

All’indomani dell’elezione di Pio V al soglio pontificio (1566) raffiche di processi colpirono con estrema ferocia il nord dello Stato della Chiesa: in particolare la Marca Anconitana (Mariani, G., Taraborelli, D. 2023; Lavenia, 2018; Lavenia, 2011) e la Romagna (Mariani, 2021; Al Kalak, 2020; Albertoni, 2017; Turchini, 1978; Lanzoni, 1925), dove i focolai ereticali sembravano non accennare a diminuire dopo le prime ondate di processi. Sotto questo profilo pare evidente come l’operazione si stesse muovendo in parallelo con quanto avveniva contemporaneamente a Venezia, dove a partire dall’autodenuncia di Pietro Manelfi – avvenuta proprio mentre si trovava in Romagna, a Ravenna, il 17 ottobre 1551 (dopo essere fuggito in modo rocambolesco, tempo prima, dalla cattura nella stessa area, a Bagnacavallo) – prendeva avvio la repressione contro gli anabattisti veneti. E non pare un caso, dunque, che nelle carte del S. Uffizio romano si indichi una non meglio specificata componente degli eretici come Anabatiste faventiae. Del resto, secondo alcune testimonianze, tempo prima si era recato a predicare in Romagna il famigerato ed enigmatico anabattista Tiziano. Una simmetria, quella faentino-veneta, che sembra rispondere a una più ampia strategia repressiva che interessava l’area adriatica. Sicché nel 1566 l’ambasciatore veneto a Roma scriveva che ad Amandola, nella Marca, Pio V aveva «animo di far qualche grande provisione per quella terra» e di fare lo stesso «per un’altra anchora vicina chiamata san Genese, poi che intende che in esse vi sono molti heretici» (Mutinelli, 1855, p. 79). A ciò aggiungeva che, di eretici, «non è città della Chiesa che habbi nome di haverne più di Faenza, la qual [...] si tiene che sia quasi tutta infetta» (Mutinelli, 1855, p. 79).

In particolare, non essendo riusciti i predecessori a estirpare l’eresia, Papa Ghislieri aveva pensato in quel caso a soluzioni drastiche: «ha havuto a dire, che chiaritasi un poco meglio, la vuole al tutto distruger con levar via tutti i habitatori, provedendo poi per lei una nuova colonia» (Mutinelli, 1855, p. 79).

Per quanto Pio V fosse un intransigente, il piano di radere al suolo Faenza, ricostruirla e ripopolarla di coloni dalla fede specchiata non venne attuato. Ma, alla luce di quanto emerge dalla trattazione teorica, c’è da chiedersi se si trattasse di un’esagerazione o se l’idea del pontefice fosse tenuta in seria considerazione. Sia come sia, Faenza non venne rasa al suolo. Nonostante ciò, resta da indagare se comunque vennero mai abbattute case di alcuni degli eretici che, con la loro propaganda, avevano contribuito a diffondere le dottrine della Riforma. Al netto delle gravi e arcinote perdite di faldoni di processi e sentenze del Sant’Uffizio romano (Tedeschi, 2000), che non consentono di tracciare un quadro degli abbattimenti punitivi di abitazioni, sappiamo però che varie persone finirono inquisite. E tra i processi superstiti oggi conservati presso il Trinity College di Dublino ce n’è uno che offre qualche importante indizio. Siamo nel 1567 a Forlì, città vicina a Faenza e a questa legata tramite la via Emilia da traffici commerciali. Gli inquisitori ordinano che la casa di un eretico chiamato Giacomo Locatelli, che aveva organizzato pubbliche letture della Tragedia del libero arbitrio, «sia destrutta et ruinata; et posto lì alcun segno a perpetua memoria di tal fatto, acciò li altri si astengano da tali horrendi et abominevoli delitti»4. Tuttavia, non si trovano altre tracce né dell’abbattimento, né di quel «segno a perpetua memoria di tal fatto» (probabilmente anche in questo caso un monumento infamante).

Una ricerca sistematica sui processi dell’Inquisizione romana nel lungo periodo resta ancora da compiere. Tuttavia, da prime indagini emergono alcuni indizi che confermano che, almeno in alcune aree e in periodi di forte spinta repressiva contro focolai ereticali ritenuti particolarmente pericolosi, gli abbattimenti probabilmente ci furono. È il caso, ad esempio, di una notizia contenuta in una lettera del 13 febbraio 1593 che, per quanto vaga e anonima (non si conoscono né il mittente né il destinatario), si trova nei documenti dell’Archivio del Dicastero per la Dottrina della Fede e si riferisce a un capoluogo della Repubblica di Venezia, di cui si nominano i Rettori. Tra le righe si legge che «è parso ancora conveniente che essendo la detta casa stata fabricata a fine di esercitarvi l’arte di necromantia, come effettualmente è stato eseguito, che per esempio, et ogni altra giusta ragione si debba far ruinare, e buttare in terra, e però Vostra Reverenza non mancarà di proponer tutto ciò in Congregatione, e con Mons. Vescovo, e di farlo eseguire da cotesti Clarissimi Rettori»5.

Altre minime ma concrete tracce giungono poi dai processi contro i valdesi di Calabria, che precedettero di pochi anni i casi romagnoli. A cavallo tra la fine di dicembre 1560 e il febbraio 1561 il frate domenicano Valerio Malvicini (Lavenia, 2012; Lavenia, 2007), uomo di fiducia del Ghislieri (cardinale e non ancora papa), dopo essere stato inviato a San Sisto e Guardia Piemontese dalla metà di novembre per soffocare le conventicole valdesi, scrisse alcune lettere al Ghislieri e ad altri. Da queste apprendiamo che, come gli era stato ordinato, Malvicini stava agendo con pugno di ferro, e per questa ragione aveva fatto demolire alcune case, tra cui quella di uno dei capi dei valdesi a San Sisto, alle quali aveva accompagnato «assai et importanti» confische (Scaramella, 1999, pp. 202 ss.).

Per quanto una mappatura degli abbattimenti delle case degli eretici negli Stati della penisola italiana in antico regime resti ancora da fare, è probabile, si diceva, che il fenomeno fu circoscritto alle fasi più acute delle persecuzioni contro focolai ritenuti particolarmente pericolosi. Ciononostante, risulta interessante notare che, almeno a livello normativo, continuano a trovarsi residui di tracce interessanti ancora nel Settecento. Il clima politico e religioso era ormai profondamente mutato: tra le minacce a tinte fosche per i tribunali inquisitoriali apparivano le logge massoniche. Nel 1739, dunque, il Segretario di Stato pontificio avrebbe emanato un editto che prometteva l’abbattimento delle case in cui si fossero riuniti massoni, i quali sarebbero stati accusati di eresia occulta (Ferrer Benimelli, 2006, pp. 146-147; Trampus, 2010). E se è probabile che, nonostante la presenza accertata di varie logge gli abbattimenti non avvennero, è tuttavia importante sottolineare ancora una volta il resistere, nei secoli, di un tipo di punizione che, sia pur ormai soltanto minacciata, aveva ancora in gran parte lo stesso scopo: «ad terrorem aliorum et utilitatem publicam».

6. Conclusioni

Alla luce di quanto emerso in questo percorso, sembra che la demolizione punitiva di un edificio sia sempre stata, sin dalle prime tracce certe che riguardano i tribunali inquisitoriali, strettamente intrecciata al tema della confisca, che colpiva materialmente i parenti e i discendenti dell’eretico. Del resto, non potrebbe essere altrimenti se si considera che confisca e distruzione per punire i disobbedienti erano compresenti già nel diritto romano. Abbiamo poi notato nelle speculazioni teoriche e nelle attestazioni normative la ricorrente raccomandazione circa l’assoluta utilità e necessità di abbattere gli edifici in cui erano stati compiuti gravi delitti di eresia. Parlare di “case” o “abitazioni” degli eretici non è del tutto appropriato, perché nella pratica appare chiaro che ad essere rasa al suolo non era soltanto e necessariamente la dimora dell’eretico, ma – in aggiunta o in alternativa – l’edificio in cui gli eretici si erano riuniti e avevano compiuto i loro misfatti. Come se l’edificio stesso e il suolo su cui poggiavano le fondamenta fossero stati irrimediabilmente corrotti dalle azioni di cui erano state teatro. E a conferma dell’idea che il terreno fosse inquinato, contaminato dal male, c’è il fatto che – come avveniva ai tempi della Roma antica (e ancor prima della Grecia classica) – il suolo su cui sorgeva l’edificio distrutto doveva essere cosparso di sale affinché non vi ricrescesse più neppure la vegetazione naturale. Sullo stesso veniva poi imposto il divieto assoluto di ricostruire. Ma come fare in modo che questo divieto rimanesse valido nel lungo periodo? Come conservarne il ricordo? Col trascorrere dei secoli, in modo sempre più evidente sembra (tornare a) farsi strada il tema della memoria. Non pare casuale che nella piena modernità gli abbattimenti delle abitazioni fossero accompagnate dall’erezione di una colonna infame che, con la sua iscrizione, ricordasse chi era l’eretico, che in quel luogo sorgeva un tempo l’edificio, che il rogo e la distruzione dello stesso erano state le giuste punizioni, e che era fatto divieto di riedificare il terreno. Il monumento infamante serviva a rendere indelebile la sentenza e l’onta che portava con sé.

Va anche sottolineato che il rogo degli eretici, spesso compiuto anche nei confronti di corpi già privi di vita, serviva a impedire che restasse alcunché del cadavere, al quale veniva negata la sepoltura (Errera, 2010), e che in qualche modo la tomba e i resti potessero divenire luogo di culto. Anche in questo caso sembrerebbe centrale il tema del controllo della memoria. Negare la sepoltura, disperdere le ceneri e abbattere la casa era probabilmente anche il modo per evitare che l’eretico potesse essere adorato come martire.

Con l’abbattimento punitivo siamo di fronte a una forma di damnatio memoriae: sintagma che esprime un concetto alquanto flessibile, e il cui reale scopo è stato spesso dibattuto anche per ciò che era il suo significato originario (Flower, 2006; Varner, 2004; Pesch, 1995; Vittinghoff, 1936). Vari storici dell’età antica tendono oggi a considerare la damnatio memoriae come una categoria da leggere alla stregua di una generica «etichetta moderna valida per designare solo sommariamente la varietà delle misure impiegate a svantaggio della memoria di un individuo» (Bianchi, 2014, p. 33). E va peraltro notato che l’espressione damnatio memoriae appare in questa precisa forma solo in età moderna. Lo si rintraccia la prima volta nel De damnatione memoriae: succinta tesi scritta a Lipsia nel 1689 da Christoph Schreiter; mentre il primo lavoro sistematico e ben strutturato che ne parla sarebbe persino di due secoli più tardo: il De memoriae damnatione quae dicitur, pubblicato sempre nella città sassone nel 1885 (Schwedler, 2010, pp. 6-7).

Ad ogni modo, tra le misure più significative, che rientrano nell’ “etichetta” damnatio memoriae c’era già in età antica l’abbattimento della casa del colpevole di reati proditori. Si tratta del resto di un’epoca nella quale le condanne della memoria erano riservate a imperatori o generali, le cui ville e abitazioni erano volutamente sfarzose e visibili, perché considerate alla stregua di ego-monumenti che ostentassero la fama, e in seguito anche la memoria post-mortem. Ragione per cui, come è stato evidenziato, il loro abbattimento andrebbe interpretato come una forma di damnatio, il cui significato di oblio è da tradurre in infamia del ricordo.

È forse possibile considerare l’ipotesi, dunque, che al di là degli aspetti pratici legati alla confisca (abbiamo visto che si potevano incamerare, oltre ai beni mobili al suo interno, persino le macerie dell’edificio e reimpiegarle), anche nelle epoche successive, mutatis mutandis, l’abbattimento dell’abitazione era un antico retaggio che aveva a che fare con l’infamia del ricordo.

Alcune forme di condanne della memoria riconducibile alla damnatio memoriae, come ha sottolineato Adriano Prosperi, erano utilizzate anche dalla Congregazione dell’Indice (Prosperi, 2001; Tasca, 2021). Il controllo e la trasmissione disciplinata della memoria pubblica, anche quella in negativo dei nemici, erano in fondo la preoccupazione di tutti gli organi di potere del tempo, compresi i tribunali inquisitoriali.

Per indicazioni bibliografiche su molti dei temi qui trattati si rimanda alla sezione bibliografica del sito https://inquire.unibo.it legato a INQUIRE – International Centre for Research on Inquisitions.

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Nota

1 Biblioteca Nacional de España, manoscritto 19325, Historia de la muy noble y muy leal ciudad de Valladolid: con los autores más clasicos que de ella han hecho mención hasta el año de 1760 y en adelante, vol. 1, fol. 235. http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000198443&page=1
2 Biblioteca de Castilla y León (Valladolid) – Colección: Castellanos y Leoneses – Ubicación: Fondo antiguo – Signatura: Normal G-E 1183 – Nº de registro: 193107, fol. 40, https://bibliotecadigital.jcyl.es/es/consulta/registro.do?id=22049
4 Trinity College Library, Dublin, ms. 1224, ff. 145r-146r.
5 Archivio del Dicastero per la Dottrina della Fede, Sanctum Officium, Stanza Storica, Q 3 D, fol. 687r. Devo ringraziare il dott. Jacopo Bertol per avermelo segnalato.
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