Sommario: Questo lavoro analizza come la proibizione assoluta della pena di morte, che si è venuta progressivamente consolidando come norma di Diritto Internazionale consuetudinario, possa applicarsi ai gravi crimini internazionali. A tal fine analizzeremo il dibattito sulla proibizione assoluta di tale pena e la possibilità che nasca una norma di ius cogens che ne preveda l’abolizione. Esamineremo le pene comminabili secondo quanto stabilito nel trattato istitutivo della Corte, ed in particolare l’art. 80. Concluderemo che l’esclusione della pena capitale dallo Statuto di Roma si collocherebbe in una più ampia tendenza abolizionista venutasi a consolidare a livello internazionale; ciò nonostante, da un’analisi congiunta della prassi degli Stati e delle disposizioni del trattato, la scelta delle sanzioni da comminare rimarrebbe, tuttavia, prerogativa degli Stati, minando la reale possibilità di consolidare una nuova norma imperativa di Diritto Internazionale.
Parole: Corte Penale Internazionale,Crimini internazionali,Ius cogens,Pena di morte,Principio di complementarità,Pene.
Resumen: Este trabajo analiza cómo la prohibición absoluta de la pena de muerte, que se viene consolidando progresivamente como norma de Derecho Internacional consuetudinario, puede aplicarse a los graves crímenes internacionales. Para ello, analizaremos el debate sobre la prohibición absoluta de tal pena, surgido durante la negociación del Estatuto de Roma, y la posible consolidación de una norma de ius cogens que prevea su abolición. Examinaremos las penas que pueden imponerse de conformidad con el tratado y en particular la pertinencia del artículo 80. Concluiremos que la exclusión de la pena capital del Estatuto de Roma formaría parte de una tendencia abolicionista que se ha venido consolidando internacionalmente; no obstante, a partir de un análisis combinado de la práctica de los Estados y el tratado, la elección de las penas a imponer seguiría siendo prerrogativa de esos mismos, socavando la posibilidad real de consolidar una nueva norma imperativa de Derecho Internacional.
Palabras clave: Pena de muerte, Corte Penal Internacional, Crímenes internacionales, Ius cogens, Principio de complementariedad, Penas.
Abstract: This paper analyses how the absolute prohibition of the death penalty, which has gradually become established as a rule of customary international law, can apply to serious international crimes. To this end, we will analyse the debate on the absolute prohibition of this punishment and the possibility of the emergence of a jus cogens norm providing for its abolition. We shall examine the punishable penalties as set out in the Court's founding treaty, in particular Article 80. We will conclude that the exclusion of capital punishment from the Rome Statute would be part of a broader abolitionist trend that has consolidated internationally; nevertheless, from a combined analysis of the practice of states and the provisions of the treaty, the choice of the penalties to be imposed would remain the prerogative of states, undermining the real possibility of consolidating a new imperative norm of International Law.
Keywords: International Criminal Court, International crimes, Ius cogens, Death penalty, Principle of complementarity, Punishments.
Artículos de Investigación
Acerca del valor preventivo de la prohibición absoluta de la pena de muerte para los crímenes internacionales graves en virtud del Estatuto de Roma de la Corte Penal Internacional
On the deterrent value of the absolute prohibition of the death penalty for serious international crimes under the Rome Statute of the International Criminal Court
Sul valore deterrente della proibizione assoluta della pena di morte per gravi crimini internazionali nel marco dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale
Recepción: 16 febrero 2024
Aprobación: 15 abril 2024
Para citar este artículo:
Maietti, Flaminia y Villarreal, Julio Francisco. “Acerca del valor preventivo de la prohibición absoluta de la pena de muerte para los crímenes internacionales graves en virtud del Estatuto de Roma de la Corte Penal Internacional”. Prudentia Iuris, 98 (2024):
Il tema della pena di morte sembrò essere marginale fino al 1998 nelle riunioni, prima, dell’Ad hoc Committee on the Establishment of an International Criminal Court (di seguito Ad hoc Committee) e, poi, negli incontri del PreparatoryCommittee (di seguito PrepCom), che aveva il mandato di predisporre il progetto preliminare dello Statuto della Corte Penale Internazionale (di seguito CPI). Durante la fase finale della Conferenza diplomatica tenutasi a Roma nel giugno-luglio del 1998, che portò all’adozione dello Statuto di Roma istitutivo della CPI, si sviluppò un acceso dibattito al riguardo. Da quanto possiamo rilevare dai resoconti delle riunioni e le revisioni fatte al testo inizialmente presentato dalla Commissione ONU per il Diritto Internazionale, poi da quello dell’Ad hoc Committee e finalmente dal progetto preliminare del PrepCom, il dibattito venutosi a creare fu più culturale che strettamente giuridico. Di fatto, gli Stati partecipanti si batterono per rivendicare le loro radici culturali, le quali permeano i loro codici legali anche per quanto concerne il tema della comminazione delle pene per condotte delittuose specifiche.
La “questione pena di morte” raggiunse proporzioni tali da mettere in discussione il consenso di alcuni Stati all’intero progetto della CPI, che seppur ambizioso, aveva un obiettivo di grande rilevanza, ovvero contrastare la piaga dell’impunità per i più gravi crimini internazionali lesivi degli interessi di tutta la comunità internazionale. Dopo quattro anni di lavori preparatori, lo Statuto di Roma venne adottato il 17 di luglio del 1998 durante la Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite tenutasi a Roma; il trattato esclude la pena di morte dalle pene comminabili dal tribunale che ha giurisdizione sui più gravi crimini internazionali, secondo quanto predisposto dall’art. 5º del suo Statuto[1]: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità ed atto di aggressione. Questa esclusione, in linea con una norma consuetudinaria allora emergente del diritto internazionale relativa ad una proibizione generale della pena capitale, ha aperto il dibattito sulla necessità dell’abolizione di tale pena per quegli Stati che ancora la prevedevano per delitti comuni ben meno gravi rispetto a quelli su cui avrebbe avuto giurisdizione la CPI.
La Parte VII dello Statuto di Roma (artt. 77 - 80) riguarda le pene che la CPI è in diritto di comminare, la loro determinazione e l’autonomia degli Stati nella loro applicazione. Ci concentreremo qui su un'analisi dell’art. 77, intitolato “Pene applicabili”, che rappresenta in sé una disposizione fortemente innovatrice rispetto al diritto codificato in precedenza sul tema. Ciò in considerazione del fatto che generalmente i trattati internazionali in materia di violazioni del Diritto Internazionale prevedono esclusivamente un obbligo per gli Stati parte di sanzionare i responsabili senza menzionare espressamente le modalità sanzionatorie e le pene specifiche da infliggere rispetto alle condotte messe in atto, anche e soprattutto in virtù di quel principio di legalità sancito nell’art. 23 dello Statuto[2]. In questo modo gli Stati devono fare affidamento direttamente al loro apparato giuridico domestico per adempiere tale obbligo internazionale; contrariamente a quanto detto, nello Statuto di Roma apparentemente si richiederebbe agli Stati membri di rinunciare all’esercizio della loro potestà punitiva in virtù del riconoscimento della giurisdizione di un tribunale penale internazionale con giudici propri detentori della facoltà di predisporre le sanzioni identificate nell’articolo in esame.
All’attuale formulazione dell’art. 77 si è pervenuti solo dopo un lungo dibattito, iniziato in seno alla Commissione per il Diritto Internazionale delle Nazioni Unite, poi proseguito nelle riunioni del PrepCom. La difficoltà principale era riconducibile all’ individuazione di un parametro uniforme entro cui ricondurre il tipo e la misura delle sanzioni da predisporre. L’art. 77 stabilisce al comma 1 che la CPI può pronunciare, a carico di una persona considerata colpevole dei reati di cui all’art. 5º, comma 1 dello Statuto, una delle seguenti pene: la reclusione per un periodo determinato non superiore nel massimo a 30 anni; l’ergastolo, se giustificato dall’estrema gravità del crimine e dalla situazione personale del condannato. Il comma 2 dello stesso articolo prevede che, in aggiunta alla reclusione, la Corte possa infliggere una sanzione pecuniaria e/o la confisca dei proventi del reato, “fatti salvi i diritti di terzi che in buona fede siano venuti in possesso di tali risorse”[3]. È degno di nota come per la prima volta in ambito penale internazionale si stiano considerando come pene per crimini di tale gravità delle sanzioni pecuniarie, ma questa questione non rientra nello spettro del presente lavoro. Ad ogni modo, la reclusione è comunque da considerarsi la pena minima principale che il tribunale può applicare vista la gravità dei crimini, mentre le multe pecuniarie sono da considerarsi pene aggiuntive alla reclusione stessa. Non si contempla, inoltre, un termine minimo di detenzione, al contrario di quanto stabilito per il termine massimo, ovvero 30 anni. Capiamo, quindi, che in fase di negoziazione del testo si volesse lasciare maggiore flessibilità di scelta ai giudici che avrebbero potuto decidere rispetto ad un minimo termine di reclusione a loro discrezione, che dovrebbe, in ogni caso, essere su base annuale considerando la gravità dei reati di competenza della CPI. Rispetto alla possibilità di dettare una condanna all’ergastolo, come suddetto, si stabiliscono due criteri cumulativi che devono sussistere per giustificare l’imposizione della stessa: l’estrema gravità del reato e la situazione personale dell’individuo. Da un’analisi dell’art. 77 si evince che la pena di morte resta esclusa da questa lista di sanzioni previste nello Statuto di Roma, in virtù del principio nulla poena sine lege, formulato all’art. 23 del trattato, il quale prevede che “Una persona che è stata condannata dalla Corte può essere punita solo in conformità alle disposizioni del presente Statuto”[4]. Questa lista di sanzioni comminabili dal tribunale è, pertanto, da considerarsi di carattere esaustivo in virtù dell’art. 23 stesso.
Quanto disposto nell’art. 77 è stato ponderato in base al principio dell’uguaglianza della giustizia, considerando che prevede un regime uniforme di pene per gli individui condannati dalla CPI, e pertanto non troviamo un sistema sanzionatorio differenziato. Al contrario di quanto generalmente accade nei codici penali domestici, qui non si specifica l’esistenza di sanzioni differenti e ponderate ad ognuna delle categorie di crimini previsti nell’art. 5º, comma 1, ovvero genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità ed atto di aggressione, delitto che, come noto, fu definito e tipificato in un secondo momento; così come non si contemplano pene differenziate per le molteplici fattispecie che rientrerebbero nelle singole categorie di crimini contemplate nell’art. 5º[5].
Anche il riferimento iniziale all’art. 110 dello Statuto merita una riflessione aggiuntiva. Non si relaziona automaticamente ad una riduzione della pena, ma la decisione è soggetta ad un’attenta considerazione degli anni di reclusione scontati e delle tre condizioni specificate al comma 4 della disposizione, ovvero che la persona abbia manifestato la volontà di cooperare con la CPI, abbia supportato e facilitato il lavoro della CPI in altri casi e, in ultimo, la presenza di circostanze evidenti che possano giustificare una riduzione della pena[6]. In sostanza durante la fase di negoziazione dello Statuto di Roma si decise di scegliere un regime sanzionatorio, che Mayans-Hermida y Holà[7] considerano “più benevolente”, e che esclude la pena di morte, prevede l’ergastolo solo in condizioni eccezionali, stabilisce una pena massima di 30 anni ed un meccanismo obbligatorio per determinare un rilascio anticipato.
Concludiamo affidandoci alla riflessione di Lanciotti[8], secondo cui la formulazione dell’art. 77 sarebbe stata una soluzione di compromesso, predisposta seguendo un approccio flessibile che lascia, quindi, ai giudici nazionali la possibilità di determinare le sanzioni applicabili, anche in base a quanto stabilito nell’art. 21, comma 1, c) dello Statuto[9]. Soluzione adottata anche in virtù della necessità di raggiungere i consensi necessari per l’avvio dell’ambizioso progetto dell’istituzione di un tribunale penale internazionale.
L’Accordo di Londra del 1945 istitutivo del Tribunale Internazionale Militare di Norimberga nel suo art. 27 prevedeva la pena capitale tra le sanzioni comminabili[10]. Negli ultimi 70 anni a livello mondiale la postura rispetto alla pena di morte è fortemente cambiata; ciò si deve principalmente alla nascita dei movimenti abolizionisti ed al lavoro di advocacy svolto dalla coalizione degli Stati europei che ha tradizionalmente propeso per l’abolizione universale di tale pena. Tanto che, sebbene il Tribunale Internazionale Militare di Norimberga avesse inflitto la pena di morte per i responsabili dell’Olocausto e criminali di guerra della Seconda Guerra mondiale, alla pari del Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente, non ci sarebbe stato lo stesso trattamento per i responsabili del genocidio dei membri dell’etnia Tutsi avvenuto in Rwanda per mano dei membri dell’etnia Hutu nel 1994, secondo quanto stabilito nello Statuto del Tribunale Internazionale per i crimini commessi in Rwanda (ICTR) istituito attraverso Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU. La condanna per genocidio, il cosiddetto “crime of crimes”, contro Jean-Paul Akayesu ha infatti previsto come pena l’ergastolo; per la precisione alla condanna per genocidio vanno sommate nel presente caso anche altre imputazioni, ovvero quella per istigamento al genocidio e per crimini contro l’umanità[11]. In egual maniera, anche per i crimini di guerra e di lesa umanità perpetrati nel territorio dell’ex-Yugoslavia nel 1990 non si sarebbe potuta predisporre la pena capitale, secondo quanto stabilito nello Statuto del Tribunale Internazionale per i crimini commessi in ex-Yugoslavia (ICTY), anch’esso istituito attraverso Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU. Questo risvolto abolizionista della pena di morte fu principalmente dovuto alla posizione degli Stati europei e soprattutto di Francia ed Inghilterra in qualità di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, i quali avrebbero potuto bloccare, esercitando il loro potere di veto, qualsiasi risoluzione che prevedesse l’istituzione di un tribunale internazionale nel cui mandato fosse rientrata la possibilità di comminare la pena capitale. Ricordiamo che tanto l’ICTR quanto l’ICTY, a differenza della CPI, sono tribunali internazionali con competenza ratione temporis e ratione loci limitata, e che prevedono come pena massima l’ergastolo, in concordanza con quanto poi predisposto nello Statuto di Roma. Questa sanzione è stata di fatto comminata in varie delle loro decisioni[12]. In questa stessa direzione, seguendo il filone abolizionista, si mossero anche i negoziati del trattato istitutivo della CPI.
I sostenitori dell’inclusione della pena di morte tra le pene previste nel progetto preliminare dello Statuto di Roma si facevano forte del fatto che questa pena dovesse essere inflitta per i più gravi crimini internazionali, commessi anche durante un conflitto armato e l’inclusione di tale sanzione sarebbe stata un prerequisito per far sì che l’istituzione acquisisse credibilità nell’ordine internazionale e potesse così rispecchiare pienamente quella funzione deterrente che tale istanza avrebbe dovuto avere per i crimini rientranti nella sua giurisdizione. Ciò in linea con i principali argomenti utilizzati dai Paesi retentori della pena capitale, ovvero il valore deterrente della stessa, la postura secondo la quale scegliere una pena comminabile per un atto specifico sia dominio riservato degli Stati, non avendo quindi un legame diretto con il Diritto Internazionale dei Diritti Umani e, per ultimo, la rilevanza del fattore religioso, soprattutto per i Paesi islamici, che spesso accettano e prevedono tale pena nei loro codici penali. D’altro canto, i sostenitori della proibizione assoluta della pena di morte, e quindi dell’esclusione della stessa dallo Statuto, basavano la loro postura su principi derivanti dal Diritto Internazionale dei Diritti Umani che, al contrario di quanto previsto nel marco del Diritto Internazionale Umanitario e del Diritto Penale Internazionale che non indicano sanzioni specifiche rispetto alle loro violazioni, stabilisce alcuni limiti rispetto alla comminazione delle pene per violazioni dei diritti umani, soprattutto per ciò che concerne la pena capitale e la tortura e altri trattamenti e punizioni crudeli, inumani e degradanti, che hanno una relazione diretta tra di loro[13]. Si pensi, per esempio, ai periodi prolungati di attesa che le persone private di libertà e condannate alla pena capitale passano nel braccio della morte, o ancora all’uso di alcuni metodi di esecuzione delle condanne a morte, come l’impiego delle camere a gas. Nel General Comment n. 36 del Consiglio ONU dei Diritti Umani, che fa un chiaro riferimento al Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici del 1966, si legge:
“Gli Stati parte che non hanno abolito la pena di morte devono rispettare l’articolo 7º del Patto, che vieta alcuni metodi di esecuzione. Il mancato rispetto dell’articolo 7º comporterebbe inevitabilmente che l’esecuzione sia considerata di natura arbitraria e quindi costituirebbe anche una violazione dell’articolo 6º. Il Comitato ha già affermato che la lapidazione, l’iniezione di farmaci letali non testati, le camere a gas, il rogo e il seppellimento di vivi e le esecuzioni pubbliche sono contrari all’articolo 7º. Per ragioni simili, anche altri metodi di esecuzione dolorosi e umilianti sono illegali secondo il Patto. La mancata notifica tempestiva agli individui nel braccio della morte della data della loro esecuzione costituisce, di norma, una forma di maltrattamento, che rende la successiva esecuzione contraria all’articolo 7º del Patto”[14].
A tal proposito è necessario richiamare quanto stabilito dall’art. 7º del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che proibisce la tortura ed altre punizioni e trattamenti crudeli, inumani e degradanti: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico”[15].
È, inoltre, pertinente fare riferimento all’art. 10 dello stesso trattato che, rafforzando il summenzionato art. 7º, sancisce uno standard di protezione delle persone private di libertà, le quali hanno diritto ad essere trattate con umanità ed “[...] essere sottoposti ad un regime che abbia per fine essenziale il loro ravvedimento e la loro riabilitazione sociale”[16]. Aggiungiamo alla lista degli strumenti citati anche la Convenzione Internazionale contro la Tortura e le altre Pene o Trattamenti Crudeli, Inumani o Degradanti delle Nazioni Unite, adottata nel 1984, ed il suo Protocollo Facoltativo, adottato nel 2002, che definiscono tale condotta, quando perpetrata da agenti statali, in modo dettagliato ed impongono agli Stati parte un obbligo di codificare tale pratica nel loro ordinamento interno e sanzionarla con pene commensurate alla gravità dell’atto. Di fatto, se facciamo riferimento alcorpus juris internazionale in materia di protezione dei diritti umani non sarebbe pertinente non menzionare l’art. 6.2 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici delle Nazioni Unite che si inquadra per ragioni più che comprensibili nella garanzia del diritto alla vita e che relaziona in modo diretto l’utilizzo della pena di morte alla gravità della condotta ed al rispetto del diritto a un equo processo[17]. Possiamo ad ogni modo concludere che questi trattati non vietano in modo espresso la pena di morte ai sensi del Diritto Internazionale, ma cercano di limitarla attraverso una serie di garanzie.
Pertanto, sebbene la definitiva abolizione della pena capitale su scala mondiale rimanga un obiettivo difficile da raggiungere per via del dominio riservato degli Stati in materia penale, e mancando uno strumento internazionale legalmente vincolante per gli Stati che la proibisca espressamente, sarebbe ragionevole considerare che la proibizione della pena capitale si relazionerebbe alla protezione del diritto alla vita e nelle sue modalità di esecuzione anche al divieto assoluto di tortura ed altre pene e trattamenti crudeli, inumani e degradanti, andando quindi contro norme consuetudinarie del Diritto Internazionale largamente accettate come tali dalla comunità internazionale. In questo senso, dall’inizio degli anni 2000 si è venuta consolidando una tendenza degli Stati all’abolizione di questa pena nei loro ordinamenti interni e possiamo quindi riferire che sia emersa una nuova norma consuetudinaria in merito. A tal proposito, ricordiamo che il Consiglio d’Europa nel 2002 ha adottato il Protocollo n. 13 alla Convenzione Europea sui Diritti Umani, che proibisce l’uso della pena capitale in qualsiasi circostanza; sancendo così in modo ufficiale la posizione del blocco europeo su tale questione.
Sulla base di queste considerazioni, dobbiamo però menzionare che esiste una parte della dottrina che vede l’assenza della pena di morte tra le pene comminabili dai summenzionati tribunali internazionali come un elemento di debolezza che caratterizza queste istituzioni. Ku e Nzelibe[18], infatti, in uno studio che analizza il potere deterrente dei tribunali internazionali verso i crimini più atroci che offendono l’intera comunità internazionale, considerano che la severità delle punizioni a cui i perpetratori di tali crimini possano potenzialmente essere condannati dai sistemi legali domestici è generalmente maggiore rispetto alle sanzioni decretabili da un tribunale penale internazionale con giurisdizione complementare come la CPI. Ciò è ancor più giustificato se si tiene conto del fatto che nella maggior parte dei casi i presunti perpetratori di tali atrocità provengono da paesi caratterizzati da instabilità politica o da guerre civili in corso o in cui vigono sistemi repressivi ai margini della legalità, e dove, quindi, i responsabili di tali atti sarebbero molto probabilmente sottoposti a tortura, punizioni corporali, ergastolo e pena di morte. Pertanto, in questi casi, la giurisdizione della CPI potrebbe essere considerata come un debole ripiego rispetto alla giurisdizione interna, considerando l’assenza della possibilità di comminare pene severe come l’esecuzione capitale, e, quindi, non come una giurisdizione di tipo complementare, ad eccezione dei casi in cui sussisterebbe quel difetto di volontà da parte dello Stato, che si esulerebbe dall’agire per sanzionare i responsabili alimentando proprio quella stessa impunità che i tribunali penali internazionali cercano di combattere.
Già durante la sessione dell’agosto 1996 del PrepCom alcuni Stati si pronunciarono sulla questione della pena capitale. Alcuni erano a favore dell’inclusione di tale sanzione nel trattato; essi furono soprattutto i paesi di tradizione islamica, fortemente contrari all’idea che la pena di morte fosse esclusa a priori dallo Statuto. Ma, come già affermato, la questione relativa al suo inserimento o meno tra le sanzioni comminabili dalla CPI si acuì fortemente durante la Conferenza diplomatica del 1998; infatti, essa raggiunse proporzioni tali da bloccare lo sviluppo dei negoziati anche sulle altre parti dello Statuto di Roma.
Tra gli Stati che durante la sessione del PrepCom dell’Agosto 1996 si dimostrarono favorevoli all’introduzione della pena di morte tra le sanzioni previste dalla Statuto di Roma ricordiamo l’Egitto, il cui rappresentante, citando il sistema legale islamico (Sha’ria), dichiarò di considerare necessaria l’inclusione della pena di morte tra le pene comminabili dalla CPI soprattutto in presenza di circostanze aggravanti del crimine[19]. Anche il rappresentante della Malesia dichiarò che la pena di morte doveva necessariamente essere un’opzione tra le pene che il tribunale potesse predisporre, dovuto al fatto che ancora molte giurisdizioni statali la prevedevano in quel momento, e continuano purtroppo oggi a prevederla nei loro ordinamenti interni. Favorevoli all’inclusione della pena di morte erano anche alcuni paesi dell’area caraibica di lingua inglese, Singapore, Rwanda, Etiopia, e Nigeria che minacciarono di non dare consenso all’intero progetto della CPI. Questi Stati partirono dal presupposto che nella stesura del testo normativo dovessero essere presi in considerazione tutti i sistemi penali esistenti nel mondo, compresi quelli basati sulla Sha’ria. Non si poteva dar voce, quindi, solo ad un certo tipo di sistema penale “occidentale”, che non prevedeva la pena di morte in alcuna circostanza. Al lato opposto si collocavano Stati come Messico, Italia, Danimarca, Nuova Zelanda e Portogallo, i quali erano convinti che tale sanzione non dovesse essere inclusa tra le pene comminabili dalla CPI; essi si dimostrarono in linea con il movimento abolizionista europeo che sin dagli anni ‘70 del XX secolo era stato mosso dall’obiettivo di raggiungere un’abolizione universale della stessa[20]. Ricordiamo a tal proposito che una condizione essenziale per diventare Stato membro del Consiglio d’Europa è proprio aver ripudiato la pena capitale nell’ordinamento interno.
Nella sessione del dicembre 1997 la condanna capitale venne infatti mantenuta come possibile sanzione da impartire in presenza di circostanze aggravanti, quando la Trial Chamber lo ritenesse necessario. L’art. 75 del Draft Statute for the ICC, presentato alla Conferenza diplomatica di Roma, includeva tra le sanzioni alcune possibilità alternative: l’ergastolo, la reclusione entro un minimo di 20 ed un massimo di 40 anni; la detenzione fissata solo nel minimo; la multa, la confisca e l’interdizione dai pubblici uffici, quali possibili pene aggiuntive ed infine la pena di morte. Tale pena venne comunque considerata como possibile opzione di sanzione per i crimini di competenza della CPI e venne inserita tra parentesi quadre temporaneamente[21]. Da quanto leggiamo nell’art. 75 del Draft Statute:
“Opzione 1: Pena di morte, come opzione, in caso di circostanze aggravanti e quando la Camera di Giustizia lo ritenga necessario alla luce della gravità del crimine, del numero delle vittime e della gravità del danno”[22].
Quindi i criteri da considerare al fine di predisporre la pena capitale sarebbero stati essenzialmente tre: l’efferatezza del crimine, il numero di vittime e la gravità del danno.
In fase di negoziazione venne, inoltre, istituito il Working Group on Penalties, guidato dal diplomatico Fife e che si riunì durante la Conferenza diplomatica di Roma per analizzare gli articoli della Parte VII dello Statuto di Roma dedicati alle pene comminabili. Tra i sostenitori della pena di morte figuravano l’Arabia Saudita ed altri Stati arabi, Singapore, la Sierra Leone, l’Etiopia, il Ruanda, Trinidad e Tobago, la Giamaica ed altri paesi dei Caraibi. Secondo questi Stati i crimini di cui all’art. 5º dello Statuto erano così gravi da meritare la più severa delle punizioni; e per l’appunto l’esecuzione capitale sarebbe stata la pena più consona. Inoltre la sua assenza nello Statuto avrebbe minacciato la credibilità stessa del tribunale e la sua funzione deterrente. Sul versante opposto si collocarono la maggior parte dei paesi europei e dell’America Latina, i quali si dichiararono contrari all’inserimento della pena capitale nello Statuto, escludendola anche per i reati più gravi. Una delle argomentazioni principali contro tale pena era che avrebbe impedito loro di collaborare con la CPI, in quanto spesso negli ordinamenti interni di questi Stati vigeva una norma che vietava l’estradizione se l’accusato stesse rischiando di essere sanzionato con la pena di morte[23]. Tra questi ricordiamo Francia, Germania ed il caso dell’Italia, in cui la Corte Costituzionale nel caso Venezia Pietro c. Ministero di Grazia e Giustizia ha stabilito che il paese non potrebbe estradare un individuo in uno Stato in cui esista ancora la pena di morte[24]. Inoltre tradizionalmente il filone abolizionista poggia la sua postura in modo consistente sull’idea che non ci sarebbero prove sufficienti per poter affermare che la pena capitale funga da deterrente per la condotta penale in misura maggiore dell’ergastolo o la reclusione per lunghi periodi; così come sulla credenza socio-politica, già espressa dal filosofo, giurista ed economista Cesare Beccaria nel suo “Dei Diritti e delle Pene” del 1764, che questa punizione sia in se controproducente nel messaggio morale che veicola, ovvero finirebbe per legittimare l’atto di uccidere, che è ciò che il diritto vuole punire. Ciò delegittima il sistema legale nella sua totalità e la sua autorità morale[25].
La questione generò così tanto attrito tra gli Stati retenzionisti durante la fase finale di negoziazione del testo normativo a Roma che fu subito chiaro che fosse necessario trovare un compromesso per poter risolvere la questione e continuare i negoziati al fine di raggiungere quell’obiettivo ambizioso di creazione di un tribunale penale internazionale che potesse esercitare la propria giurisdizione sulle più gravi violazioni del diritto internazionale ed evitare l'impunità per tali atti di gravità inaudita. Solo al termine della Conferenza diplomatica di Roma il Coordinatore del Working Group on Penalties riuscì a convincere gli Stati che volevano mantenere la pena capitale tra le possibili sanzioni predisposte nello Statuto di Roma ad accettarne l’esclusione, grazie all’impiego di meccanismi alternativi come quello previsto dall’art. 80 dello Statuto.
Furono vari gli elementi utilizzati per incoraggiare i paesi contrari all’esclusione della pena di morte dallo Statuto di Roma a firmare il testo normativo ed essere parte di questo ambizioso progetto. Uno di questi fu l’inclusione dell’ergastolo tra le pene comminabili dal tribunale come scelta per i giudici, sempre e quando si presentassero le condizioni necessarie e limitanti stabilite nell’art. 77 dello Statuto e fatto salvo l’art. 110 che prevede alcune possibilità di riduzione della pena in linea con gli standard internazionali di protezione dei diritti umani, come precedentemente menzionato. Quindi si arrivò ad includere nel testo disposizioni sulla detenzione più rigorose rispetto a quelle più flessibili che alcuni Stati liberali ed abolizionisti avrebbero voluto adottare, tra questi paesi figuravano principalmente gli Stati del blocco europeo; ciò per soppesare di fatto la mancata inclusione della pena di morte nell’art. 77. Inoltre, il Working Group on Penalties richiese al Presidente della Conferenza diplomatica di rilasciare una dichiarazione per sottolineare l’importanza del dominio riservato degli Stati in materia penale durante la sessione del 17 giugno 1998:
“Il dibattito in questa Conferenza sulla questione delle pene da applicare da parte della Corte ha dimostrato che non esiste un consenso internazionale sull'inclusione o meno della pena di morte. Tuttavia, in conformità con i principi di complementarietà tra la Corte e le giurisdizioni nazionali, i sistemi giudiziari nazionali hanno la responsabilità primaria di indagare, perseguire e punire gli individui, in conformità con le loro leggi nazionali, per i crimini che rientrano nella giurisdizione della Corte penale internazionale. A questo proposito, la Corte non sarebbe chiaramente in grado di influenzare le politiche nazionali in questo campo. Va notato che la mancata inclusione della pena di morte nello Statuto non avrebbe in alcun modo un impatto giuridico sulle legislazioni e sulle pratiche nazionali in materia di pena di morte. Né si può ritenere che influisca, nello sviluppo del diritto internazionale consuetudinario o in qualsiasi altro modo, sulla legalità delle pene imposte dai sistemi nazionali per i crimini gravi”[26].
Ma l’elemento “pacificatore” di maggiore interesse fu la consapevolezza che l’inclusione di alcune sanzioni e l’esclusione di altre, tra cui appunto la pena capitale, non avrebbe in alcun modo pregiudicato l’applicazione della normativa domestica degli Stati e le sanzioni previste nei loro codici penali per reati specifici, sulla base del principio di complementarità che permea l’intero progetto della CPI.
Tecnicamente questo compromesso, che ha portato i paesi mantenitori della pena di morte ad accettare un testo che non prevedeva questo tipo di sanzione, è rappresentato dall’inclusione nello Statuto di Roma dell’art. 80, intitolato “Autonomia dell’applicazione delle pene ad opera degli Stati e della legislazione nazionale”, disposizione che rappresentò una novità assoluta. Questo articolo, non presente nel progetto preliminare, prevede che le disposizioni della Parte VII: “[...] non ostano all’applicazione da parte degli Stati delle pene prescritte dalla propria normativa interna né incidono sulla legislazione degli Stati che non prevedono le pene prescritte nel presente titolo”[27]. Il suo inserimento è stato fondamentale per convincere quei paesi con la legislazione nazionale più oltranzista in tema di sanzioni, tra cui gli Stati non abolizionisti, ad accettare quanto previsto dallo Statuto e firmarlo, superando, quindi, l'impasse e velocizzando il processo di entrata in vigore del testo normativo.
Passiamo ora ad analizzare il valore della disposizione legale contenuta nell’art. 80. In realtà, quanto ivi disposto non era necessario in virtù del principio di complementarità, uno dei pilastri della giurisdizione della CPI. Ricordiamo, a tal proposito, che la CPI ha una giurisdizione complementare, ossia la Corte interviene laddove lo Stato “non intenda iniziare le indagini ovvero non abbia la capacità di svolgerle correttamente o di intentare un procedimento”, come stabilito nell’art. 17.1 - “Questioni relative alla procedibilità”[28]. In forza del principio di complementarità ciascuno Stato parte dello Statuto di Roma resta libero di esercitare l’azione penale nei confronti dei responsabili dei crimini di competenza della CPI, condannandoli con le pene previste nel proprio ordinamento interno. Deduciamo, quindi, che se uno Stato prevede nel suo ordinamento interno la pena di morte, questa potrà essere applicata. Non si impedisce, quindi, ad uno Stato parte della CPI di poter sanzionare il responsabile di una grave violazione dei Diritto Internazionale che rientra nella competenza ratione materiae della CPI con una pena molto più severa rispetto a quella che la CPI stessa avrebbe potuto predisporre in base al suo trattato istitutivo. Al contrario, la CPI interverrebbe, in virtù del principio di complementarità e di quanto stabilito nell’art. 17 dello Statuto, solo di fronte a un difetto di volontà o un’impossibilità per lo Stato di garantire che quel crimine di sua competenza rimanga impune; o in questo stesso senso di evitare che un Stato possa sanzionare crimini di tale gravità per tutta la comunità internazionale con una pena troppo “morbida” o nei casi in cui il procedimento giuridico non sia condotto alla luce di quei principi di indipendenza ed imparzialità richiesti o ancora nel caso in cui vi sia stato un ritardo ingiustificato nel procedimento. In questo senso, capiamo che l’art. 80 sarebbe solo servito a ribadire che il potere di stabilire le sanzioni rimarrebbe pur sempre prerogativa della sovranità statale[29], e che lo Statuto di Roma della CPI non dovrebbe essere considerato in alcun modo lesivo o limitante della stessa; elemento che fu indispensabile per assicurare il raggiungimento della soglia minima necessaria di adesioni per l’entrata in vigore del testo normativo.
L’esclusione della pena di morte dallo Statuto di Roma è un segno importante, che è in linea con lo sforzo verso la sua abolizione universale e di fatto ha incentivato molti paesi della comunità internazionale ad iniziare il loro cammino verso l’abolizione o per lo meno verso un’abolizione de facto di tale sanzione. In linea con questa tendenza abolizionista, è anche rilevante fare un rimando all’ultima Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la moratoria universale contro la pena di morte, approvata il 15 di dicembre del 2022 con 125 voti a favore, 37 contrari, 22 astensioni e 9 voti non espressi dovuto all’assenza di rappresentanza in sala; ciò dimostra un maggiore allineamento degli Stati ai principi abolizionisti. È degno di nota che rispetto all’ultima risoluzione sul tema del 2020, vi siano stati due paesi in più del continente africano che abbiano votato a favore dell’abolizione universale di tale inumana pratica. È, quindi, auspicabile che questa tendenza abolizionista continui ad espandersi a livello globale soprattutto grazie al lavoro di organizzazioni della società civile, alle pressioni politiche ed al lavoro delle leadership politiche che potrebbero decidere di sposare questa causa.
Ad oggi gli Stati membri dello Statuto di Roma sono 123[30], tra questi vi sono alcuni che ancora mantengono la pena di morte. Nella regione africana Botswana e Nigeria sono Stati non abolizionisti; nella regione asiatica vi sono Afghanistan, Bangladesh, Giappone e Giordania che sono tra le file dei paesi retenzionisti; nella zona centro e sudamericana solo lo Stato insulare dell’area caraibica San Kitts e Nevis ha ancora vigente la pena di morte nel suo codice penale. Accanto ai paesi non abolizionisti dobbiamo comunque ricordare che vi sono Stati abolizionisti de facto, ciò significa che pur mantenendo la pena capitale nei loro sistemi legali si sono però impegnati a non applicarla; tra questi gli Stati membri dello Statuto di Roma sono nella regione africana la Repubblica Democratica del Congo, Ghana, Kenya, Lesotho, Liberia, Madagascar, Malawi, Niger, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Tanzania, Tunisia, Uganda, Zambia; e nella zona centroamericana Antigua e Barbuda, Barbados, Belize, Dominica, Grenada, Guyana, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine e Trinidad e Tobago[31]. Come vediamo dai dati riportati sono principalmente paesi della zona africana e centroamericana a non aver abolito in modo definitivo tale sanzione, che ricordiamo essere estremamente lesiva di alcuni principi imperativi del Diritto Internazionale dei Diritti Umani.
La scelta operata dal legislatore internazionale di abbracciare la postura abolizionista e, quindi, di escludere la pena di morte tra le sanzioni che la CPI può decretare, è tutt’altro che scontata, e si colloca contro l’idea che un sistema repressivo debba essere ispirato alla sola esigenza retributiva, mirante pertanto a riprodurre con la pena lo stesso male inflitto dalla condotta delittuosa, in linea con quanto stabilito dall’antica legge del taglione ed il suo “occhio per occhio, dente per dente”. Jo e Simmons[32] si sono interrogati sull’efficacia della giurisdizione della CPI in termini di deterrenza per i più gravi crimini internazionali e considerano che un’istituzione giuridica sia più potente nel suo ruolo quando la deterrenza giudiziaria e la deterrenza sociale si rafforzano a vicenda, come nel caso della CPI. Ciò è chiaramente in contrasto con quanto teorizzato da un’altra parte della dottrina che considera l’esclusione della pena di morte tra le pene comminabili dalla CPI come un fattore che sminuisce l’efficacia dell’azione deterrente della CPI e ne fa una giurisdizione debole e di ripiego, come già dibattuto anteriormente[33]. Parlando di deterrenza processuale, ovvero l’omissione di un atto criminale per timore di sanzioni derivanti da un'azione legale, Jo e Simmons si concentrano anche sul valore sanzionatorio della pena di morte e considerano opinione comune che gli individui siano dissuasi dal violare la legge quando aumentano le possibilità e la severità di incorrere in tale condanna. Tuttavia, un crescente consenso nella letteratura sulla deterrenza suggerisce che la rapidità e soprattutto la probabilità della punizione possono dissuadere più efficacemente il crimine rispetto alla severità della pena. Aumentare il rischio di punizione laddove lo Stato di diritto è altrimenti debole e quindi evitare sanzioni troppo “magnanime” è proprio il ruolo formale previsto per un tribunale penale con giurisdizione complementare come la CPI. Rispetto alla deterrenza giudiziaria la CPI ha comunque influenzato i tribunali nazionali ad attuare monitorando a livello domestico eventuali violazioni del Diritto Internazionale e rafforzando la loro efficacia legale per riconoscerle, sanzionarle ed evitare l’impunità per tali pratiche. Al contrario, la deterrenza sociale è dovuta al costo extra-legale della condotta delittuosa e nasce dai valori sociali presenti in una data comunità. Tra le conseguenze sociali dell’atto illecito abbiamo per esempio lo stigma sociale; nel caso dei crimini internazionali è fondamentale rendere pubblico il fatto, azione che contribuisce anche a modellare delle alleanze tra attori statali interessati e non e può anche arrivare a modificare gli equilibri dell’ordine internazionale. Allo stesso tempo le decisioni della CPI hanno contribuito a generare delle aspettative sociali su ciò che dovrebbe essere considerato “legale” e “giusto” in modo molto chiaro ed evidente, si pensi alle condanne di Thomas Lubanga Dyilo per reclutamento forzato ed arruolamento di minori, o di Germain Katanga per aggressione alla popolazione civile e distruzione di proprietà e saccheggi durante il conflitto armato nella Repubblica Democratica del Congo. Sulla deterrenza sociale ha chiaramente un forte peso anche la pressione esercitata dalle organizzazioni della società civile. Gli autori[34] concludono che da un lato la deterrenza giudiziaria può modellare la deterrenza sociale nel tempo considerando che gli arresti, le decisioni, le sanzioni rinforzano i valori comuni che acuiscono il potere di un’istituzione come la CPI. Dall’altro intensificare la sensibilità sociale può rafforzare la deterrenza giudiziaria quando gli attori della società civile esercitano pressioni per ottenere riforme legali e per cooperare nei procedimenti legali attraverso la preparazione di report o testimonianze. Siamo d’accordo con Jo e Simmons[35], i quali considerano che queste due forme di deterrenza si rinforzino a vicenda ma la deterrenza sociale può rafforzarsi anche senza la giuridica, ed aggiungiamo che ciò sia ancora più probabile di fronte a crimini di gravità inaudita, come quelli di competenza della CPI. Quindi indipendentemente dalla gravità delle pene comminabili, la deterrenza giudiziaria si basa sulla rapidità e la probabilità di essere sanzionati ed è integrata e rafforzata dalla deterrenza sociale.
L’esclusione della pena di morte dallo Statuto di Roma è un’importante manifestazione di una tendenza indiscutibile verso l’abolizione universale della pena capitale a livello globale ed invia un messaggio molto chiaro agli Stati, ovvero che non vi sia alcun crimine, indipendentemente dalla sua gravità, che possa effettivamente giustificare la condanna alla pena di morte. Questa esclusione si colloca anche nella stessa linea di azione di una prassi internazionale che vuole stabilire una connessione tra l’abolizione della pena di morte ed il Diritto Internazionale dei Diritti Umani, ma più in generale potremmo dire tra la comminazione di pene e sanzioni in linea con i principi di umanità e dignità, se consideriamo che anche la reclusione a vita è da comminarsi solo in situazioni di estrema gravità, secondo quanto stabilito nello Statuto di Roma e nelle legislazioni interne della maggior parte degli Stati abolizionisti. Inoltre, l’esclusione della pena di morte dallo Statuto della CPI si potrebbe interpretare come una manifestazione di contrarietà al fondamentalismo islamico ed ai suoi valori considerando che la maggior parte degli Stati contrari alla sua esclusione fossero proprio paesi islamici secondo i quali la pena capitale era allora, ed è tuttora, da considerarsi un elemento imprescindibile del proprio sistema di giustizia[36].
Possiamo però affermare che, nonostante l’importanza politica e culturale del non inserimento della pena capitale nel trattato, la compensazione di questa esclusione con l’introduzione dell’art. 80 sia da considerarsi in realtà una “sconfitta”, perché se da un lato si lascia aperta la possibilità per gli Stati di comminare sanzioni non previste nello Statuto, dall’altro il testo normativo stesso non menziona quale potrebbe essere una pena adeguata per i crimini di competenza della CPI in caso siano i tribunali domestici a decidere. Ciò dimostra come anche questo tentativo di superare le profonde differenze culturali e giuridiche esistenti tra i vari Stati per arrivare ad un quadro normativo più uniforme e meno ambiguo dell’attuale sia fallito. Ancora oggi la scelta delle sanzioni adeguate per i crimini rimane prerogativa degli ordinamenti penali dei singoli Stati, ed in assenza di standard internazionali in materia di previsione di pene per crimini internazionali gravi, è comprensibile che questo procedimento sia ancor più incerto. È, però, pur vero che, sebbene lo Statuto di Roma non lo indichi espressamente, sarebbe altamente inconcepibile e contrario agli standard internazionali di protezione dei diritti umani che la CPI dichiari inammissibile un caso, secondo quanto previsto dall’art. 17 dello Statuto, e rimandi l’imputato a giudizio nel sistema domestico, quando lo Stato in questione preveda la pena di morte. Sarebbe, quindi, raccomandabile emendare lo Statuto ed includere una previsione specifica sull’impossibilità di dichiarare un caso inammissibile e rinviarlo quindi alla giurisdizione domestica se si tratta di uno Stato retenzionista o dichiarare necessaria la presenza di una garanzia diplomatica che preveda che lo Stato non abolizionista si impegni a non imporre la pena capitale in caso di remissione alla giurisdizione interna.
Ciò che emerge è che l’obiettivo della definitiva abolizione della pena di morte, non facile da raggiungere, presuppone il superamento del dominio riservato degli Stati in materia penale, a cui essi si dimostrano oggi sempre più ancorati. Vi è stato quindi, secondo quanto prevedeva Lanciotti[37], un ridimensionamento a livello internazionale ed un inquadramento della questione che è passata da affare di prerogativa esclusiva della giurisdizione interna degli Stati ad essere inquadrata nei principi del Diritto Internazionale dei Diritti Umani ed anche del Diritto Internazionale Umanitario, cui gli Stati devono fare necessariamente riferimento. A tal proposito, ricordiamo che l’art. 21.3 dello Statuto prevede:
“L’applicazione e l’interpretazione del diritto ai sensi del presente articolo devono essere compatibili con i diritti dell’uomo internazionalmente riconosciuti e devono essere effettuate senza alcuna discriminazione fondata su ragioni quali il genere sessuale come definito nell’articolo 7º paragrafo 3, l’età, la razza, il colore, la lingua, la religione o il credo, le opinioni politiche o le altre opinioni, la nazionalità, l’origine etnica o sociale, le condizioni economiche, la nascita o le altre condizioni personali”[38].
Questa disposizione inquadra quanto previsto nello Statuto di Roma nel marco del Diritto Internazionale dei Diritti Umani, con un chiaro riferimento al principio di non discriminazione. Pertanto, sarebbe necessario oggi abbracciare una postura più restrittiva che considera la pena di morte inaccettabile alla luce dei principi del Diritto Internazionale Pubblico.
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[1] L’art. 5º dello Statuto di Roma stabilisce: “Crimini di competenza della Corte - La competenza della Corte è limitata ai crimini più gravi, motivo di allarme per l’intera comunità internazionale. La Corte ha competenza, in forza del presente Statuto, per i crimini seguenti: a) crimine di genocidio; b) crimini contro l’umanità; c) crimini di guerra; d) crimine di aggressione”.
[2] L’art. 23 dello Statuto di Roma - Nulla poena sine lege stabilisce: “Una persona che è stata condannata dalla Corte può essere punita solo in conformità alle disposizioni del presente Statuto”.
[3] Art. 5.2 Statuto di Roma.
[4] Martini afferma, a tal proposito, che “rispetto alla nitida chiarezza del broccardo nulla poena sine lege, il testo dell’art. 23 dello Statuto di Roma adotta una formulazione del principio non esente da qualche peculiarità”. Per un’analisi più dettagliata si rimanda a Adriano Martini, “Il principio nulla poena sine lege e la determinazione delle pene nel sistema della Corte Penale Internazionale”, in Problemi attuali della giustizia penale internazionale, ed. Cassese Antonio et al. (Torino: Giappichelli Editore, 2005), 215 - 49 e gli autori ivi citati.
[5] Rolf E. Fife, “Part VII - Penalties”, in Rome Statute of the International Criminal Court. A Commentary, Third Edition, ed. Triffterer Otto e Ambos, Kai (2016), 1878.
[6] L’art. 110.4, Statuto di Roma sancisce: “Al momento del riesame di cui al paragrafo 3, la Corte può ridurre la pena qualora constati che una o più delle seguenti condizioni sono realizzate: a) essa cola persona ha, sin dall’inizio ed in modo costante, manifestato la sua volontà di cooperare con la Corte nelle sue inchieste e durante il procedimento; b) la persona ha facilitato spontaneamente l’esecuzione di decisioni ed ordinanze della Corte in altri casi, in modo particolare aiutandola a localizzare e fornendo assistenza per i beni oggetto di decisioni che ne ordinano la confisca, per il pagamento di una sanzione pecuniaria o di un risarcimento che possono essere utilizzati a vantaggio delle vittime; oppure c) altri fattori previsti nel Regolamento di procedura e di prova attestano un cambiamento di circostanze evidente, con conseguenze degne di nota e tali da giustificare la riduzione della pena”.
[7] Beatriz E. Mayans-Hermida e Barbora Holá, “Balancing ‘the International’ and ‘the Domestic’”, Journal of International Criminal Justice 18, n. 5 (2020), 1112. https://doi.org/10.1093/jicj/mqab003.
[8] Alessandra Lanciotti, “Le pene comminabili dalla Corte Penale Internazionale”, in La Corte Penale. Problemi e prospettive, a cura di Carlizzi, Gaetano et al. (Napoli: Vivarium, 1993), 411.
[9] L’art. 22. 1 dello Statuto di Roma sancisce: “c) in mancanza, i principi generali di diritto ricavati dalla Corte in base alla normativa interna dei sistemi giuridici del mondo, compresa, ove occorra, la normativa interna degli Stati che avrebbero avuto giurisdizione sul crimine, purché tali principi non siano in contrasto con il presente Statuto, con il diritto internazionale e con le norme ed i criteri internazionalmente riconosciuti”.
[10] L’art. 27 del Patto di Londra stabilisce: “Il Tribunale potrà pronunciare contro gli accusati condannati la pena di morte o qualsiasi altra pena che esso riterrà giusta”.
[11] Si veda: ICTR, The Prosecutor vs. Jean-Paul Akayesu, Case No. ICTR-96-4-T, Trial Chamber, 1998.
[12] Si veda: ICTR, Prosecutor vs. Jean-Paul Akayesu, ICTR-96-4-T, Trial Chamber 1, 2 settembre 1998; ICTR, Prosecutor vs. Jean Kambanda, ICTR-97-23-S, Judgement and Sentence, Trial Chamber, 4 settembre 1998; ICTR, Prosecutor vs. Kayishema, ICTR-95-1-T, Sentence, Trial Chamber II, 21 maggio 1999; ICTY, Prosecutor vs. Stakič, IT-97-24-T, Judgement, Trial Chamber II, 31 luglio 2003.
[13] Rolf E. Fife, “Part VII - Penalties”, 1879.
[14] United Nations Human Rights Committee, General Comment n. 36, 3 settembre 2019, CCPR//C/GC/36, par. 40 [traduzione propria].
[15] Art. 7º, Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici.
[16] Art. 10, Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici.
[17] Cfr. Art. 6.2 Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici: “Nei paesi in cui la pena di morte non è stata abolita, una sentenza capitale può essere pronunciata soltanto per i delitti più gravi, in conformità alle leggi vigenti al momento in cui il delitto fu commesso e purché ciò non sia in contrasto né con le disposizioni del presente Patto né con la Convenzione per la prevenzione e la punizione del delitto di genocidio. Tale pena può essere eseguita soltanto in virtù di una sentenza definitiva, resa da un tribunale competente”.
[18] Julian Ku e Jide Nzelibe, “Do International Criminal Tribunals deter or exacerbate humanitarian atrocities?”, Washington University Law Review, 84, n. 4 (2006), 778-833. https://journals.library.wustl.edu/lawreview/article/id/6799/.
[19] ICC, Press Release L/2805, 22 agosto 1996.
[20] ICC, Press Release L/2806, 23 agosto 1996.
[21] Alessandra Lanciotti, “Le pene comminabili dalla Corte Penale Internazionale”, 415.
[22] United Nations Diplomatic Conference of Plenipotentiaries on the Establishment of an International Criminal Court. 14 aprile 1998. A/CONF.183/2/Add.1, 119 [traduzione propria].
[23] Alessandra Lanciotti, “Le pene comminabili dalla Corte Penale Internazionale”, 417-420.
[24] Nella sentenza del Caso Venezia Pietro c. Ministero di Grazia e Giustizia la Corte si esprime in questo modo: “La possibilità di estradare un cittadino italiano affinché venga sottoposto da parte dello Stato richiedente a un processo per un reato punito con la pena capitale - quantunque subordinata a garanzie o assicurazioni sufficienti in ordine alla mancata irrogazione o esecuzione di essa - sarebbe in conflitto con i principi fondamentali della Costituzione, quale che sia la natura delle assicurazioni fornite. Di qui, la non manifesta infondatezza della questione”.
[25] Roger Hood, “Capital Punishment: A Global Perspective”, Punishment and Society, 3, n. 3 (luglio 2001), 331-332. https://doi.org/10.1177/1462474501003003001.
[26] United Nations Diplomatic Conference for the Establishment of an International Criminal Court, The Official Records. Reports and other Documents, Volume III A/CONF.183/13 (Vol. III), 317 [traduzione propria].
[27] Art. 80, Statuto di Roma.
[28] Art. 17.1 Statuto di Roma: “1. Con riferimento al decimo comma del preambolo ed all’articolo 1º, la Corte dichiara improcedibile il caso se: a) sullo stesso sono in corso di svolgimento indagini o procedimenti penali condotti da uno Stato che ha su di esso giurisdizione, a meno che tale Stato non intenda iniziare le indagini ovvero non abbia la capacità di svolgerle correttamente o di intentare un procedimento; b) lo stesso è stato oggetto di indagini condotte da uno Stato che ha su di esso giurisdizione e tale Stato ha deciso di non procedere nei confronti della persona interessata, a meno che la decisione non costituisca il risultato del rifiuto o dell’incapacità dello Stato di procedere correttamente; c) la persona interessata è già stata giudicata per la condotta oggetto della denunzia e non può essere giudicata dalla Corte a norma dell’articolo 20 paragrafo 3; d) il fatto non è di gravità sufficiente da giustificare ulteriori azioni da parte della Corte”.
[29] Alessandra Lanciotti, “Le pene comminabili dalla Corte Penale Internazionale”, 421-423.
[30] “Gli Stati Parte dello Statuto di Roma | Corte Penale Internazionale”, Home | Corte Penale Internazionale, consultato il 10 febbraio del 2024, https://asp.icc-cpi.int/states-parties.
[31] “NTC-Bancadati”, Nessuno Tocchi Caino, consultato il 10 febbraio 2024, https://www.nessunotocchicaino.it/bancadati/.
[32] Hyeran Jo e Beth A. Simmons, “Can the International Criminal Court Deter Atrocity?”, International Organization, 70, n. 3 (2016), 447-455. http://www.jstor.org/stable/24758127.
[33] Julian Ku e Jide Nzelibe, “Do International Criminal Tribunals deter or exacerbate humanitarian atrocities?”, 778-33. https://journals.library.wustl.edu/lawreview/article/id/6799/.
[34] Hyeran Jo e Beth A. Simmons, “Can the International Criminal Court Deter Atrocity?”, 454.
[35] Ibid., 455.
[36] William A. Schabas, An introduction to the International Criminal Court (Cambridge: Cambridge University Press, 2007), 316.
[37] Alessandra Lanciotti, “Le pene comminabili dalla Corte Penale Internazionale”, 422.
[38] Art. 21.3, Statuto di Roma.