Sommario: L’obiettivo di questo saggio è quello di chiarire i presupposti e il significato di una tesi, che nel libro di Reinhardt non appare sviluppata in modo compiuto e sistematico: la tesi secondo cui Kant si pone ‘di traverso’ rispetto ai principali orientamenti del dibattito filosofico-politico contemporaneo, anche perché la sua filosofia giuridico-politica permette di mettere in discussione in modo fondamentale il nesso tra proprietà privata, sovranità e diritto di esclusione. A questo scopo, si mostrerà innanzitutto come Reinhardt interpreta l’articolazione tra i tre termini, raccogliendo i riferimenti a questo nodo tematico disseminati nelle diverse parti del libro (§ 1). Sulla base di questa ricostruzione, ci si concentrerà criticamente su due punti della lettura di Reinhardt: da un lato, l’analisi del nesso tra proprietà privata della terra e spazio pubblico (§ 2); dall’altro, lo statuto del possesso provvisorio nella dottrina del diritto di Kant (§ 3). In conclusione, si riepilogheranno i risultati dell’analisi, in modo da mettere in primo piano i tratti distintivi della deduzione kantiana dei diritti di proprietà che permettono – con Kant e a partire da Kant – di ripensare criticamente la triade proprietà/sovranità/esclusione.
Keywords: Cosmopolitan Right, Original acquisition, Land, Ownership, Sovereignty
EL AUTOR Y SUS CRÍTICOS
Proprietà privata, sovranità e diritto di escludere: la “disarmonia produttiva” di Kant
Received: 13 October 2023
Accepted: 20 November 2023
La questione del rapporto tra diritti di proprietà e movimenti migratori occupa una posizione centrale nel dibattito contemporaneo di filosofia politica su giustizia e migrazione. Da un lato, nello schieramento dei cosiddetti fautori dei “confini chiusi” i diritti di proprietà sono spesso addotti come fondamento legittimatorio del diritto degli Stati a escludere gli stranieri dal proprio territorio e dalle proprie istituzioni – nella cornice di teorie giustificatorie dei diritti territoriali che spesso poggiano su premesse lockiane (si veda, per esempio, Simmons, 2016, pp. 239-250) o “quasi-lockiane” (Miller, 2007, p. 218).[2] Dall’altro, è significativo che, nella sua celebre difesa dei ‘confini aperti’, il primo argomento che Joseph Carens si sforza di confutare è costituito proprio dalla tesi “che il diritto di escludere gli stranieri si fonda sui diritti di proprietà”: per Carens questa tesi – implicitamente presupposta in affermazioni come “è casa nostra” o “rimandiamoli a casa loro”, ricorrenti sia nel linguaggio ordinario sia nel discorso pubblico – può essere valida solo se si conferisce alla proprietà collettiva uno statuto ad essa esplicitamente negato dal libertarianism e, più in generale, difficilmente conciliabile con il primato dei diritti dell’individuo (e in particolare dei diritti individuali di proprietà privata), che costituisce il caposaldo di tutte le dottrine liberali (1987, pp. 252-254).
Karoline Reinhardt suggerisce che anche su questo punto Kant si pone di “traverso” rispetto ai principali orientamenti del dibattito filosofico-politico contemporaneo (2019, p. 244), in quanto la filosofia giuridico-politica kantiana consente di “mettere in discussione il nesso tra proprietà privata, sovranità e diritto di esclusione in modo più fondamentale” (2019, p. 236), sia rispetto ai cosiddetti sostenitori dei confini aperti sia rispetto a quanti identificano nei ‘bisogni’ e nella sussistenza il fondamento di legittimità – e allo stesso tempo il limite – del diritto di escludere legato alla proprietà privata e alla sovranità (cf. per esempio Marti, 2012, p. 90). Questo aspetto specifico della disarmonia kantiana è di indubbio interesse, ma non è di immediata comprensione: attribuire a Kant una messa in discussione del legame fondativo tra proprietà privata, sovranità e diritto di esclusione sembra infatti urtare con una consolidata e autorevole tradizione interpretativa, secondo la quale il tratto più peculiare della filosofia giuridico-politica kantiana consiste nella “mutua dipendenza sistematica” e nell’“interconnessione giustificatoria” che Kant stabilisce tra sovranità e proprietà (Kersting, 1992, pp. 352-353; cf. anche Kersting, 1984, pp. 212-213), distinguendosi dai suoi predecessori anche per avere riconosciuto e trattato come inseparabili il problema della giustificazione del diritto individuale di proprietà della terra e quello della giustificazione del diritto di uno Stato a un territorio (Byrd e Hruschka, 2010, p. 122).
Tenuto conto di questa difficoltà, questo saggio si propone di chiarire i presupposti e il significato della tesi di Reinhardt, che nel libro non è sviluppata in modo sistematico e compiuto. A questo scopo, prima di tutto si cercherà di determinare il modo in cui Reinhardt interpreta l’articolazione tra i tre termini – proprietà della terra, sovranità e diritto di esclusione – raccogliendo i riferimenti a questo nodo tematico che sono disseminati nei diversi capitoli del libro (§ 1). Sulla base di questa ricostruzione, ci si concentrerà su due punti dell’interpretazione di Reinhardt, che non risultano adeguatamente approfonditi: da un lato, l’analisi del nesso tra proprietà privata della terra e ‘spazio pubblico’ (§ 2); dall’altro, la questione del fondamento e dello statuto del “possesso provvisorio” nella dottrina del diritto kantiana (§ 3). In conclusione, i risultati dell’analisi svolta saranno riepilogati, per gettare luce sulla ‘disarmonia produttiva’ di Kant nel modo di concepire il nesso tra proprietà privata, sovranità ed esclusione.
Il contesto in cui Reinhardt attribuisce a Kant una peculiare e produttiva messa in discussione del nesso tra proprietà privata, sovranità ed esclusione è costituito dall’analisi dei fattori che, in una prospettiva kantiana, possono essere e sono stati identificati come ragioni legittime e illegittime di respingimento di uno straniero, con particolare riferimento all’orientamento interpretativo che ha messo in primo piano il “divieto di appropriazione della proprietà altrui” come fondamento legittimo di giustificazione dell’esclusione (2019, pp. 234-236). In questa cornice Reinhardt sviluppa la propria tesi, mostrando come la limitazione delle possibilità di azione di uno Stato – implicata dalla distinzione tra ragioni legittime e illegittime di respingimento – rappresenti una componente costitutiva della nozione kantiana di sovranità, in virtù della dimensione intrinsecamente giuridico-morale che distingue quest’ultima dalla visione della sovranità prevalente nel dibattito contemporaneo, secondo cui il fulcro della sovranità consiste nella prerogativa di “stabilire chi appartiene e chi no” (Marti, 2012, p. 94). In particolare, Reinhardt sviluppa la propria argomentazione applicando al problema della migrazione le considerazioni di Katrin Flikschuh sul nesso di “interdipendenza” e “differenziazione funzionale” che Kant stabilisce – nella cornice di una concezione del diritto intrinsecamente globale – tra le tre sfere del diritto pubblico (Flikschuh, 2010a, pp. 475-476): in virtù di tale interdipendenza e differenziazione di funzioni, il riconoscimento e il rispetto degli obblighi associati al diritto cosmopolitico – tra cui rientrano il dovere di non escludere coloro che sono a rischio di Untergang e il dovere di non escludere sulla base di criteri discriminatori – non si configura come un’alternativa alla sovranità statale né come una limitazione estrinseca di essa, ma piuttosto come una sua intima condizione di possibilità (Reinhardt, 2019, pp. 241-244). Questa linea argomentativa è condivisibile, ma risulta tronca, sotto un duplice punto di vista.
Innanzitutto, Reinhardt pone in primo piano il disallineamento di Kant solo rispetto a quegli orientamenti – come il nazionalismo liberale e il comunitarismo – che identificano l’essenza della sovranità nell’auto-determinazione, intesa come diritto a decidere chi appartiene e chi non appartiene. Reinhardt non ritiene invece necessario esplicitare la disarmonia della posizione di Kant rispetto all’impostazione del cosmopolitismo liberale egalitario di Carens. E in effetti la divergenza è chiara: in Kant la fonte della limitazione del diritto statuale di escludere – che Reinhardt mette in rilievo – non è un diritto innato dell’individuo, ma piuttosto la nozione giuridico-morale di sovranità e la concezione relazionale e globale del diritto che è alla sua base.
L’argomentazione di Reinhardt ingenera tuttavia una ulteriore sensazione di incompletezza anche e soprattutto perché non chiarisce se e come il disallineamento di Kant nel modo di concepire il binomio sovranità/diritto di esclusione sia collegato alla teoria kantiana della proprietà privata della terra e alla connessione che Kant stabilisce tra quest’ultima e la sovranità statale, assumendo una posizione di cui gli interpreti hanno in vario modo rilevato l’originalità (cf. per esempio Kersting, 1992, pp. 352-353; Ripstein, 2009, pp. 86-95). Per ovviare a questa sensazione di incompletezza, è opportuno cercare di estrapolare dalle altre sezioni del libro[3] i presupposti e gli assunti che caratterizzano il modo in cui Reinhardt interpreta il binomio proprietà privata della terra/sovranità statale in Kant ed il nesso che entrambi i termini hanno con il diritto di esclusione.
A tale scopo, è opportuno innanzitutto ricordare che la ricerca di Reinhardt sul diritto cosmopolitico e sui doveri ad esso corrispondenti sviluppa in modo originale l’indagine di Höffe sugli “imperativi categorici del diritto” che l’etica giuridica kantiana formula, mediando l’idea del fondamento puramente razionale e a priori dell’obbligo giuridico con la considerazione delle due condizioni empirico-antropologiche di applicazione del principio del diritto (Höffe, 1990; 2002, p. 65): l’estensione spaziale degli esseri umani e la forma sferica e finita della superficie terrestre (Reinhardt, 2019, p. 187), che rende inevitabile la coesistenza e la possibile influenza reciproca. In questa cornice interpretativa – che riconosce la costitutiva dimensione spaziale della dottrina kantiana del diritto – Reinhardt richiama esplicitamente: a) la priorità sistematica che Kant attribuisce all’acquisizione e alla proprietà del suolo (2019, p. 131), in quanto “condizione suprema” dell’acquisizione e proprietà di tutte le altre cose esterne (RL, AA 6:324); b) la concezione kantiana della proprietà come “diritto dell’uso privato di una cosa” esterna, cui è connesso l’“escludere ogni altro” dall’uso di essa (RL, AA 6:261), anche quando non siamo fisicamente connessi con tale oggetto (RL, AA 6:247). In particolare, il punto su cui Reinhardt pone l’accento è l’“obbligazione” di astenersi dall’uso di una porzione di terra, che l’acquisizione di un terreno come proprio impone “agli altri” (Reinhardt, 2019, p. 149).
Lo statuto di tale obbligazione costituisce il perno della ricostruzione che Reinhardt offre del modo in cui Kant concepisce il passaggio dallo stato di natura allo stato civile nella filosofia giuridico-politico kantiana, interpretando il dovere di fondare una costituzione civile – sancito dal postulato kantiano del diritto pubblico (RL, AA 6:307) – soprattutto alla luce di quello che Ripstein ha definito il “problema dell’arbitrio unilaterale” (2009, p. 148). Reinhardt ricorda infatti che per Kant la volontà unilaterale di acquisizione di un terreno non può “imporre” ad altri un’“obbligazione” per sé “contingente” (RL, AA 6:264), ponendo così in primo piano il duplice ruolo – di fondamento di legittimità e garante della proprietà privata – che Kant attribuisce allo Stato, in quanto persona morale la cui volontà è “collettivamente universale”, “vincolante per tutti” e solo per questo costitutivamente sovrana, ossia investita dell’autorità pubblica legittima di imporre leggi coercitive per ognuno (RL, AA 6:256). Come Reinhardt sottolinea altrove – in continuità con le considerazioni di Flikschuh sulla differenza tra la personalità morale degli individui e degli Stati (cf. Reinhardt, 2019, p. 257, Anmerkung 332) – per Kant il sovrano di diritto può assicurare “l’uso indisturbato del possesso privato” (Reinhardt, 2019, p. 132), proprio perché non è e non può farsi “persona privata” (RL, AA 6:324): motivo per cui il sovrano non ha la proprietà privata di nessuna porzione del territorio, pur essendo il “proprietario supremo del suolo”, da cui all’interno di uno Stato deve “essere derivato ogni diritto” a possedere e utilizzare una porzione di terra (RL, AA 6:324).
Reinhardt non si dilunga sul significato della nozione di “proprietà suprema” come “idea dell’unione civile” (RL, AA 6:324), limitandosi a osservare che “è necessaria per la rappresentazione della divisione del suolo” (Reinhardt, 2019, p. 131). Nel dichiarato intento di sciogliere la tensione apparente tra i diritti di proprietà privata della terra e gli obblighi associati al diritto cosmopolitico, Reinhardt insiste tuttavia su due prerogative che Kant attribuisce al sovrano di diritto, in quanto proprietario supremo del suolo: il diritto di sottoporre i proprietari terrieri alle imposte approvate dai deputati del popolo e il “diritto dell’economia statale”; diritto il cui esercizio richiede l’istituzione dello spazio pubblico, la cui presenza “consente di accogliere” gli stranieri all’interno del territorio statale “senza violare necessariamente la proprietà privata” dei cittadini (Reinhardt, 2019, p. 133).
Da un lato, Reinhardt suggerisce dunque che per Kant – anche all’interno di uno Stato – l’esclusione dall’uso di una determinata porzione di terra, correlata alla proprietà terriera privata, può essere conforme al diritto solo se è regolamentata e limitata dall’autorità coattiva pubblica e intrinsecamente giuridico-morale del sovrano di diritto che, in quanto espressione di una volontà onnilaterale, ne costituisce non solo il garante, ma anche il fondamento di legittimità. Dall’altro lato, Reinhardt pone in primo piano la dissociazione tra diritto di escludere, sovranità e proprietà privata che è implicata dalla scelta kantiana di comprendere tra i destinatari del diritto cosmopolitico anche i popoli non organizzati in Stati e/o in cui non vi è proprietà privata (RL, AA 6:354): come Reinhardt a ragione sottolinea, la proprietà privata della terra non rappresenta un “pre-requisito per avvalersi della facoltà, sancita dal diritto cosmopolitico” kantiano (2019, p. 103), di ‘respingere’ il nuovo arrivato la cui espulsione non comporti un rischio di Untergang. Come viene precisato altrove, tale “diritto di respingere” spetta non solo “a una comunità politica (che possiede già un determinato territorio)”, ma anche a un “gruppo non statale” che semplicemente “vive già in un determinato luogo” (Reinhardt, 2019, p. 191).[4]
Si tratta di due punti significativi, il cui fondamento teorico non è però approfondito nell’analisi di Reinhardt che, proprio per questo, presenta alcune opacità, sulle quali vale la pena richiamare l’attenzione.
Un primo rilievo riguarda l’enfasi che Reinhardt pone sul ruolo dello spazio pubblico, per sciogliere l’apparente tensione – rilevata per la prima volta da Pauline Kleingeld (1998, p. 81) – tra diritti di proprietà privata della terra e diritto cosmopolitico. Tale enfasi permette a Reinhardt di risolvere tale tensione in modo innovativo e più convincente rispetto a Kleingeld. Presentando lo spazio pubblico come una sorta di corollario implicito del ‘diritto dell’economia statale’ – spettante al sovrano di diritto in quanto ‘proprietario supremo’ del territorio – l’analisi di Reinhardt dà però l’impressione di restare in superficie e non risale alle ragioni teoriche che nella filosofia giuridico-politica kantiana sottendono la necessità sistematica dello spazio pubblico in rapporto alla proprietà privata della terra. In particolare, desta una certa sorpresa che Reinhardt non abbia a tal fine seguito e sviluppato la linea argomentativa indicata da Ripstein, che nella sua interpretazione della filosofia giuridico-politica kantiana ha notoriamente dedicato un’analisi approfondita alla concezione kantiana dello spazio pubblico, assumendolo come espressione paradigmatica delle “pre-condizioni pubbliche” della proprietà privata conforme al diritto (Ripstein, 2009, p. 252). Vale dunque la pena riepilogare brevemente i passaggi principali della linea argomentativa di Ripstein, per verificare se e in che modo avrebbe potuto essere sviluppata da Reinhardt – in relazione al diritto cosmopolitico.
Ripstein assume come “base” dell’intera filosofia giuridico-politica di Kant il “diritto innato” alla libertà esterna (RL, AA 6:237), nel senso intrinsecamente ‘relazionale’ di indipendenza del nostro arbitrio dalla costrizione dell’arbitrio di ogni altro, compatibilmente con la libertà esterna di ciascuno secondo una legge universale. Coerentemente con questo presupposto, Ripstein stressa il nesso tra proprietà e libertà esterna, interpretando la prima come un completamento indispensabile della seconda: per Ripstein, la ‘struttura basica della proprietà’ è infatti un ‘riflesso’ della forma della libertà esterna come purposiveness – ossia come capacità di porre e perseguire scopi - il cui esercizio richiede l’avere cose esterne a disposizione esclusiva del proprio arbitrio e dunque l’obbligare ogni altro ad astenersi dall’uso di esse, in un modo che può essere in accordo con la libertà esterna di ogni altro solo se ci si sottopone a un’autorità pubblica che distribuisca obblighi e diritti compatibilmente con il principio dell’uguale libertà. Questa interpretazione della “struttura basica della proprietà” – il cui punto di partenza è naturalmente il postulato giuridico della ragion pratica – è congiunta in Ripstein all’enfatizzazione del ruolo di “forma basica della proprietà” che, in virtù della sua concezione spaziale del diritto, Kant attribuisce al diritto di proprietà della terra: diritto che Ripstein non esita a definire come “diritto di escludere da un determinato luogo della superficie terrestre” (2009, p. 12), assumendo che l’avere una porzione di terra a disposizione esclusiva del proprio arbitrio comprenda in sé anche il diritto di decidere chi fare entrare o transitare in essa. In questa cornice, Ripstein enfatizza non solo e non tanto la funzione fondativa che Kant attribuisce all’acquisto del suolo in quanto “sostanza”, rispetto a tutte “le cose mobili” che si trovano in esso (RL, AA 6:262).[5] Ripstein si concentra piuttosto anche e soprattutto sulle implicazioni sistematiche della concezione kantiana della proprietà della terra come cosa ‘immobile’, nel senso di cosa la cui ‘forma’ è determinata dalla collocazione (RL, AA 6:262), che è l’unico elemento in virtù del quale essa può essere distinta da tutte le altre possibili porzioni di terra (comprese quelle che abbiano le stesse dimensioni e le stesse qualità). In virtù di tale caratteristica, in un “sistema in cui tutta la terra fosse proprietà privata” ogni uomo correrebbe il rischio di non potere uscire dalla propria proprietà e sarebbe “sistematicamente” dipendente, nel perseguimento di qualsiasi fine, dall’arbitrio del proprio vicino (Ripstein, 2009, p. 247). Poiché tale conseguenza è incompatibile con il diritto innato di ogni uomo alla libertà esterna, nella filosofia politico-giuridica di Kant il diritto alla proprietà privata richiede l’istituzione di uno spazio pubblico.
Certo, la linea argomentativa di Ripstein non si presta ad essere estesa su scala transnazionale attraverso un’‘analogia’. Mentre in un sistema in cui tutta la terra fosse proprietà privata ognuno correrebbe il rischio di dipendere dall’arbitrio privato di un altro – sia nei propri spostamenti sia nelle proprie interazioni – in un sistema in cui tutta la superficie terrestre fosse occupata da Stati per Kant non sussiste lo stesso rischio: le limitazioni alla libertà di movimento e di associazione imposte dagli Stati confinanti non esprimono infatti l’arbitrio privato di un altro, ma piuttosto l’autorità pubblica degli Stati, la cui personalità morale si distingue per Kant da quella degli individui proprio per la sua ‘volontà onnilaterale’. In virtù della differenziazione funzionale che Kant stabilisce tra i diversi rami del diritto pubblico, questa distinzione tra la personalità morale degli individui e degli Stati non viene annullata dalla considerazione che – rispetto ai non membri – i diritti territoriali degli Stati, compreso il diritto di escludere, sono solo ‘provvisori’, in quanto costituiscono il frutto di un’acquisizione avvenuta in virtù di un atto di arbitrio unilaterale (cf. Taraborrelli, 2021; Ypi, 2014, pp. 298-303): considerazione che pure avrebbe meritato di essere esaminata e discussa, data la sua rilevanza per determinare la posizione di Kant nel dibattito filosofico-politico su migrazione e confini.[6]
A prescindere da questo aspetto,[7] si ritiene in ogni caso che – anche evitando ogni indebita estensione analogica su scala transnazionale – la linea argomentativa di Ripstein avrebbe potuto essere sviluppata da Reinhardt in modo fecondo, per mostrare come la filosofia giuridico-politica kantiana limita alla radice il diritto di escludere, sia dalla proprietà privata individuale di una porzione di terra sia dal territorio di uno Stato. Per Kant la proprietà privata della terra può infatti essere pienamente conforme al diritto, solo se vi è uno spazio pubblico che il sovrano – in quanto ‘supremo propietario’ del territorio statale, dotato di un’autorità intrinsecamente giuridico-morale e dunque sottoposta agli obblighi associati al diritto cosmopolitico – ha il compito e il dovere di mantenere aperto e accessibile tanto ai membri quanto ai non-membri: e questo perché solo in questo modo la proprietà privata della terra e il diritto territoriale dello Stato risultano compatibili sia con il ‘potere’ – per Kant insito nel diritto innato alla libertà esterna – “di fare agli altri qualsiasi cosa che non diminuisca ciò che è loro” (RL, AA 6:238), sia con il diritto innato di ogni uomo a occupare un qualche posto sulla terra, in virtù del quale è un dovere non respingere lo straniero a rischio di Untergang.
Questa strategia avrebbe permesso a Reinhardt di unificare due linee argomentative che nella sua trattazione restano separate, ossia le riflessioni sulla limitazione intrinseca del diritto degli Stati di escludere i non-membri – implicata dalla dimensione giuridico-morale della nozione kantiana di sovranità e dall’interdipendenza tra i diversi rami del diritto pubblico – e la riflessione sui limiti cui il diritto di escludere dalla proprietà privata di un terreno determinato è sottoposto all’interno dello Stato. La reticenza di Reinhardt a costruire la propria argomentazione seguendo l’orientamento di Ripstein – che pure conosce e cita – non è senz’altro casuale. Essa è piuttosto riconducibile all’intento esplicito di prendere le distanze – coerentemente con il presupposto della centralità del dovere nella filosofia giuridico-politica kantiana (Reinhardt, 2019, p. 277) – rispetto alle letture che identificano nel diritto innato di ogni uomo alla libertà esterna il fondamento ultimo del diritto cosmopolitico kantiano (Benhabib, 2004; Kleingeld, 1998, pp. 79-80; 2012, pp. 100-105), senza tenere nel dovuto conto tre fattori: a) la priorità fondativa del concetto e del principio universale del diritto, la cui struttura è intrinsecamente relazionale; b) gli obblighi reciproci e le limitazioni (sia della libertà del singolo sia della sovranità statuale), che discendono dal concetto e dal principio universale del diritto e dalla sua applicazione alle condizioni dell’esistenza degli uomini; c) il raggio e i destinatari del diritto cosmopolitico kantiano che, pur mettendo “in primo piano gli individui, per quel che concerne le loro interazioni transfrontaliere e internazionali” (Reinhardt, 2009, p. 101), comprende al suo interno anche il diritto di gruppi, popoli e Stati. Questo approccio ha permesso a Reinhardt di confutare efficacemente le interpretazioni che hanno attribuito a Kant una tensione irrisolta o un ambivalente compromesso tra la “sovranità territoriale degli Stati” (Benhabib, 2004, p. 42) e il principio dell’uguale valore morale e dell’uguale libertà degli individui: concentrandosi sugli obblighi giuridici associati al diritto cosmopolitico, Reinhardt è riuscita infatti a mostrare in modo magistrale che i vincoli da esso imposti a tutte le persone fisiche e morali agenti sulla scena internazionale (compreso gli Stati) sono pienamente coerenti con l’universalismo morale kantiano e molto più stringenti rispetto a quanto il suo magro contenuto di mero ‘diritto di visita’ potrebbe inizialmente suggerire. È tuttavia legittimo chiedersi se Reinhardt non abbia finito per ridimensionare in modo eccessivo il ruolo sistematico del “diritto innato alla libertà esterna” che – una volta riconosciutane la dimensione intrinsecamente relazionale (Ripstein, 2009, p. 15)[8] – rappresenta una chiave di lettura imprescindibile del diritto cosmopolitico kantiano, ferma restando l’impossibilità di derivare analiticamente dal diritto innato sia il diritto privato sia il diritto pubblico, in quanto ‘diritti acquisiti’.
Nel modo in cui Reinhardt ricostruisce il nesso tra proprietà privata, sovranità statale e diritto cosmopolitico, la tesi che suscita maggiori riserve – per come è formulata e argomentata – è tuttavia un’altra: si tratta della tesi secondo la quale per Kant il “possesso provvisorio” che può avere luogo allo stato di natura è “illegittimo (unrechtmäßig)” (2019, p. 149).
La prima riserva riguarda la base testuale su cui Reinhardt si appoggia, ossia una nota di Zum ewigen Frieden, in cui Kant afferma che “nel passaggio dallo stato di natura allo stato civile” uno “stato di possesso, anche se illegittimo”, può durare a lungo, “secondo una legge permissiva del diritto naturale” (ZeF, AA 8:357). Il “passaggio dallo stato di natura allo stato civile” cui si allude in questi passaggi è la relazione reciproca tra Stati, prima della realizzazione del secondo articolo definitivo:[9] lo “stato di possesso” illegittimo è dunque quello delle monarchie europee dell’epoca e la legge che ne permette il perdurare è la legge permissiva della ragione, secondo la quale la prosecuzione di un “diritto pubblico segnato dall’ingiustizia” può e deve essere tollerata sino a quando non siano maturate le condizioni per un “rovesciamento radicale”, in quanto “una qualche costituzione giuridica, sebbene giusta solo in minimo grado, è meglio di nessuna” (ZeF, AA 8:373).[10] Reinhardt commenta e utilizza questi passaggi in modo generalizzante, collegandoli alla dottrina kantiana dell’acquisizione originaria ed affermando che per Kant allo stato di natura ogni possesso è sempre illegittimo, in quanto “scaturisce da una volontà unilaterale” (2019, p. 149).
Questa lettura non è priva di fondamento, soprattutto se si tiene conto dei passaggi corrispondenti delle Vorarbeiten, nei quali Kant afferma che
il possesso illegittimo di una cosa (o diritto) nello stato privo di legge (statu naturali) può continuare come possesso putativo sino a quando dura lo stato di natura (perché in esso manca l’autorità giuridica richiesta per la condanna di tale possesso come possesso illegittimo) (VAZeF, AA 23:157).
Quest’affermazione si riferisce all’“indeterminatezza” nella delimitazione reciproca dei diritti acquisiti (RL, AA 6:266) – e, più in generale, nell’applicazione dei concetti del diritto ai casi particolari – che per Kant costituisce uno dei “difetti” intrinseci dello stato di natura in quanto sistema di diritto privato, in cui ciascuno ha il “diritto di fare quanto gli sembra giusto e buono” (RL, AA 6:312) e in cui manca un’autorità giudiziaria pubblica per stabilire se un ‘possesso putativo’ – nel senso di possesso che il possessore ritiene tale – è legittimo o illegittimo. Da questo argomento è quindi possibile ricavare la conclusione che per Kant allo stato di natura ogni possesso è provvisorio in quanto ‘putativo’ e, per questo motivo, di legittimità dubbia e non accertabile. Reinhardt si colloca inoltre in modo chiaro ed esplicito sulla scia della tradizione interpretativa inaugurata da Reinhard Brandt, che ha per primo richiamato l’attenzione sull’importanza di questi passaggi di Zum ewigen Frieden, per comprendere il significato della ‘legge permissiva’ nella filosofia giuridico-politico kantiana (Brandt, 1982). A differenza di Brandt, Reinhardt non sembra però tenere conto dell’evoluzione del significato delle nozioni di ‘legge permissiva’ e ‘possesso provvisorio’ tra Zum ewigen Frieden . Rechtslehre,[11] accostando due contesti argomentativi che sono diversi.
Non bisogna dimenticare, infatti, che la nota di Zum ewigen Frieden in cui si trovano i passaggi in questione ha un obiettivo preciso: quello di chiarire lo statuto di ‘leges latae’ – ossia di divieto lacui attuazione è differibile – che Kant attribuisce al secondo, terzo e quarto articolo preliminare, con particolare riferimento al secondo articolo, in base al quale è vietato acquistare uno “Stato indipendente […] per eredità, scambio, compera o donazione” (ZeF, AA 8:344). In questa cornice argomentativa, lo “stato di possesso […] illegittimo” ma provvisoriamente permesso – cui Kant si riferisce – è il frutto di una possessio putativa intesa in un senso circoscritto, ossia nel senso di possesso derivato dall’“acquisto putativo” (ZeF, AA 8:347), che si verifica quando si acquisisce in ‘buona fede’ una cosa da qualcuno che non ne è il proprietario (cf., Achenwall, 1755, § 197, p. 177): lo “stato di possesso” delle monarchie assolute settecentesche esplicitamente menzionato in questo contesto è infatti per Kant il risultato di modi di acquisizione che, pur essendo all’epoca considerati legittimi dall’“opinione pubblica di tutti gli Stati”, sono vietati dalla ragion pura pratica, perché ledono o sopprimono la personalità morale di uno Stato (ZeF, AA 8:344).[12] È anche e soprattutto per questo motivo che Kant lo definisce come uno “stato di possesso […] illegittimo” (ZeF, AA 8:348), in passaggi che solo con una certa forzatura possono essere addotti a sostegno della tesi secondo la quale ogni possesso provvisorio acquisibile allo stato di natura è tout court un possesso illegittimo. In particolare, lo “stato di possesso” illegittimo delle monarchie assolute settecentesche non può essere assimilato, come fa Reinhardt, al possesso giuridico provvisorio che scaturisce dall’“acquisizione […] originaria”:[13] per definizione, infatti, per Kant l’acquisizione è originaria “quando non è derivata dal suo di altri”, come accade invece nel caso di putative Erwerbung che egli ha in mente in Zum ewigen Frieden, ossia il caso di acquisto di un territorio attraverso “eredità, vendita, scambio o donazione” di uno Stato indipendente.
Al di là del problema dell’esegesi corretta della nota di Zum ewigen Frieden, il punto più rilevante è la questione teorica controversa dello statuto di legittimità del possesso che scaturisce dall’acquisizione originaria.[14] Reinhardt lo definisce “illegittimo”, perché scaturisce da una “volontà unilaterale, senza la realtà di una volontà unificata” (2019, p. 149, corsivo mio). È indubbio che per Kant l’“atto unilaterale della volontà” o la Bemächtigung attraverso cui avviene l’acquisizione originaria del suolo – in quanto atto unilaterale – non può imporre alcuna obbligazione a nessun altro: proprio per questo Kant indica la conformità all’“idea di una volontà collettiva unificata a priori” come “condizione indispensabile” dell’acquisizione originaria e afferma che – prima della realizzazione dell’idea di tale volontà, con la fondazione dello stato civile – ogni acquisto è solo “provvisorio” e non “perentorio” (RL, AA 6:264). Tuttavia, l’equiparazione che Reinhardt stabilisce tra possesso provvisorio e possesso illegittimo – a partire dalla discutibile identificazione tra l’idea di volontà collettiva e la “realtà della volontà unificata” – sembra non tenere nel dovuto conto la “legittimità (Rechtmäßigkeit)”, per quanto difettiva, che Kant conferisce anche all’acquisizione originaria e al possesso provvisorio, sulla base del postulato giuridico della ragion pratica (RL, AA 6:256)[15] e dell’“idea di possesso comune della terra” (RL, AA 6:251), che è strettamente congiunta con quella di una “volontà originariamente e a priori collettiva” (RL, AA 6:267). Questa impressione appare rinforzata dal fatto che sia il postulato giuridico della ragion pratica sia il ‘concetto razionale pratico’ di possesso comune della terra non hanno un posto centrale nella trattazione di Reinhardt.
Per quanto riguarda l’idea di possesso comune della terra, Reinhardt ricorda naturalmente i riferimenti ad essa contenuti nei passaggi dello scritto Zum ewigen Frieden e della Rechtslehre che sono più rilevanti per la giustificazione kantiana del diritto cosmopolitico, riconoscendo che si tratta di una nozione di non facile comprensione (2019, p. 171).[16] Ciononostante, Reinhardt non analizza in prima persona lo statuto, il significato e la funzione sistematica che l’idea kantiana di “possesso comune” della terra svolge nella dottrina kantiana del diritto, limitandosi a citare in una nota i saggi di Alice Pinheiro Walla e Jakob Huber (Reinhardt, 2019, p. 172), senza prendere posizione rispetto alle divergenze che caratterizzano le due interpretazioni.[17] In questo modo, Reinhardt lascia in ombra e non determina il nesso tra il ruolo fondativo dell’idea di possesso comune in relazione al diritto cosmopolitico e la sua funzione sistematica di “fondamento di possibilità” dell’acquisizione originaria del suolo e di “principio a priori” in virtù del quale “gli uomini possono servirsi del posto che hanno sulla terra in modo conforme alle leggi del diritto” (corsivo mio), anche anteriormente all’istituzione dello stato civile (RL, AA 6:263).
Per quanto riguarda il postulato giuridico della ragion pratica – in base al quale “è possibile avere” come proprio ogni oggetto esterno del nostro arbitrio – colpisce che Reinhardt non si riferisca mai in modo diretto al ruolo che esso svolge nella dottrina kantiana del diritto, in quanto “principio fondamentale” a priori dei diritti acquisiti (RL, AA 6:247), senza il quale “la libertà esterna sarebbe in contraddizione con se stessa” (RL, AA 6:246). Ciò colpisce a maggior ragione, in quanto Reinhardt si richiama in modo esplicito all’interpretazione della “legge permissiva” come legge che permette provvisoriamente “qualcosa di in sé proibito”, inaugurata da Brandt (Brandt, 1982, p. 244) e sviluppata da Flikschuh.[18] Reinhardt si riferisce però alla legge permissiva solo come legge che permette l’impiego della costrizione per l’istituzione dello stato di diritto (RL, AA 6:264). Sia Brandt sia Flikschuh si sono invece concentrati sulla valenza del postulato giuridico della ragion pratica come legge permissiva del “mio e tuo esterni”, che autorizza provvisoriamente a restringere la libertà esterna altrui imponendo “a tutti gli altri” l’obbligazione di astenersi dall’uso degli oggetti dell’arbitrio che abbiamo preso in nostro possesso prima di loro (RL, AA 6:247). Questa imposizione di un obbligo sulla base dell’atto unilaterale di appropriazione può essere considerata come qualcosa di proibito, che viola il “principio universale del diritto” e l’“uguaglianza innata” degli uomini;[19] il punto centrale è però proprio il fatto che il postulato giuridico della ragion pratica come “legge permissiva” rende “provvisoriamente” legittimo l’atto unilaterale di acquisizione e il possesso che ne deriva (RL, AA 6:312).[20]
È possibile e probabile che le opacità rilevate dipendano dal contesto argomentativo in cui Reinhardt tematizza il possesso provvisorio e il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, ossia l’analisi della critica kantiana al colonialismo, le cui conclusioni sono senz’altro fondate e condivisibili. Quello che appare discutibile è l’accostamento da cui tale analisi prende le mosse, ossia l’accostamento che Reinhardt propone tra l’“acquisizione originaria” – definita “acquisizione finalizzata alla fondazione di uno stato di diritto” (2019, p. 149), per la cui istituzione è permessa la coercizione – e l’acquisizione coloniale del territorio di popoli non-statali. Quest’accostamento è costruito da Reinhardt stessa solo per evidenziare la differenza tra il ‘mero stato di natura’ – in cui vale la legge permissiva che autorizza la coercizione per la fondazione dello stato civile – e la situazione di interazione tra gli Stati europei e popoli non organizzati in Stati: situazione in cui vige invece il divieto di reciproca ostilità sancito dal diritto cosmopolitico, la cui funzione è proprio quella di istituire uno stato giuridico tra gli Stati e coloro che non ne sono membri, che si tratti di individui o gruppi, statali e non-statali. Ciò non toglie che si tratti di un accostamento forzato, in quanto non tiene conto dei criteri che per Kant rendono provvisoriamente legittima l’acquisizione originaria del suolo anche al di fuori dello stato civile, in quanto conforme al “principio generale dell’acquisto esterno” (RL, AA 6:258). Tra tali criteri non rientra solo la “conformità all’idea di una volontà collettiva possibile” (RL, AA 6:258) – ossia l’‘anticipazione’ dell’unificazione degli arbitri, insita nella pretesa di possesso a un mio e tuo esterni (cf. anche Ludwig, 1988, p. 129) – ma anche: 1) l’accordo con la “legge della libertà esterna”, in base alla quale l’acquisto è legittimo solo se l’occupatio cui è unita la volontà di appropriazione rispetta la “condizione” della priorità del tempo (RL, AA 6:258); 2) il postulato giuridico della ragion pratica, che permette di avere come proprio non ogni oggetto esterno, ma solo gli oggetti dell’arbitrio, ossia “ciò di cui ho il potere di fare uso” (RL, AA 6:258).
Nel caso dell’acquisizione coloniale di territori abitati da gruppi non statali da parte degli Stati europei mancano entrambi questi requisiti, nella misura in cui si tratta di territori 1) già occupati da altri e 2) non compresi nel raggio d’estensione dell’“autorizzazione della presa di possesso di un suolo” conforme al postulato giuridico della ragion pratica: Kant non concepisce infatti tale raggio come illimitato, ma lo lega piuttosto alla vicinanza al territorio in cui la natura o il caso ci ha posti, pur riconoscendo che la determinazione quantitativa e qualitativa dell’acquisizione originaria è uno dei problemi “più difficili a risolversi” (RL, AA 6:266). Di contro, entrambi i requisiti sono soddisfatti se si considera la situazione dei gruppi non statali che hanno la propria “sede” (Sitz.sedes) in un determinato territorio (RL, AA 6:353, 14) – come i “popoli pastori” e “cacciatori”, i cui diritti di acquisizione originaria si estendono per Kant su “vaste e deserte contrade” (RL, AA 6:353, 14) non in virtù del criterio materiale del bisogno (cf. Marti, 2012, p. 104), ma piuttosto in virtù del criterio formale sancito dal postulato giuridico della ragion pratica, che permette di trattare come propria la determinata porzione di suolo che si ha il potere e la volontà di usare, scegliendo esclusivamente sulla base del proprio arbitrio il modo d’uso al quale la si vuole sottomettere. In virtù di tale criterio anche i popoli cacciatori e pastori – che per il loro stile di vita nomade non conoscono la proprietà privata e non hanno quella dimora duratura che in alcuni passaggi di dubbia autenticità Kant definisce “insediamento” [Ansiedelung] (RL, AA 6:251) – hanno tuttavia una “sede” (RL, AA 6:353, 14), ossia un “possesso duraturo volontario” (RL, AA 6:262) che, pur essendo stato acquisito in modo unilaterale, ha per Kant “conseguenze giuridiche” (RL, AA 6:267) anche prima della fondazione di uno stato civile, sia all’interno di tali popolazioni sia a livello delle relazioni tra popoli e Stati.
Reinhardt non manca di riconoscere che proprio i “diritti di prima acquisizione”, i quali “non possono essere aboliti dal diritto di soggiorno di chi arriva successivamente”, sono alla base del diritto di respingimento sancito dal diritto cosmopolitico (2019, p. 191). La sua analisi non prende però in considerazione né i principi che Kant pone alla base della giustificazione normativa dell’acquisizione originaria, né i criteri di legittimità che, nella prospettiva kantiana, sono applicabili anche al possesso provvisorio e permettono di distinguerlo da un possesso illegittimo. Ciò rende opache le ragioni teoriche che, nella dottrina del diritto kantiana, rendono obbliganti e vincolanti i diritti di prima acquisizione, anche quando i titolari di questi ultimi sono popoli che non hanno ancora istituito uno stato civile: tale obbligatorietà rientra infatti tra le “conseguenze giuridiche” che – sulla base del postulato giuridico della ragion pura pratica e dell’idea di possesso comune della terra – Kant espressamente attribuisce all’“acquisizione” originaria e “provvisoria”(RL, AA 6:267).[21]
Conclusione
L’analisi svolta nel primo paragrafo ha cercato di chiarire che cosa Reinhardt intende, attribuendo a Kant una messa in discussione fondamentale del nesso tra proprietà privata, sovranità e diritto di escludere. Si sono riconosciute tre tesi salienti alla base di quest’affermazione: l’idea che il diritto di escludere del Grundeigenthümer debba essere regolamentato e limitato dalla sovranità statale, in quanto pre-condizione pubblica indispensabile di una proprietà terriera privata conforme al ‘principio del diritto’; l’assunto che il diritto di escludere associato alla sovranità sia anch’esso costitutivamente limitato, in virtù dell’intrinseca dimensione giuridico-morale della nozione kantiana di sovranità e dell’interdipendenza tra diritto statale e diritto cosmopolitico; infine, la messa in rilievo della dissociazione che Kant stabilisce tra proprietà privata, sovranità e diritto di escludere, attribuendo il limitato diritto di respingimento – sancito dal diritto cosmopolitico – anche ai gruppi non-statali, indipendentemente o meno dalla presenza dell’istituto della proprietà privata della terra.
I rilievi formulati nei paragrafi successivi si sono concentrati sulla prima e sulla terza tesi, con l’intento di approfondirne le ragioni teoriche e di ricollegarle ai tratti distintivi della concezione kantiana della proprietà che consentono – con Kant – di ripensare criticamente ed in modo innovativo la triade proprietà/sovranità/diritto di escludere: in primo luogo, l’articolazione peculiare e complessa che Kant stabilisce tra la ‘libertà esterna’ e il possesso intelligibile di oggetti esterni dell’arbitrio, nella misura in cui – pur non derivando in modo analitico il secondo dal diritto innato di ogni uomo alla libertà esterna – offre una giustificazione del ‘mio e tuo esterni’ che non è incentrata sui bisogni, ma sulla struttura formale della libertà esterna; in secondo luogo, la visione della proprietà non come relazione binaria tra soggetto e oggetto, ma piuttosto come relazione tra soggetti, il cui uso e possesso esclusivo delle cose esterne inevitabilmente modifica la situazione normativa altrui e propria, attraverso l’imposizione e contrazione di obbligazioni reciproche; in terzo luogo, la messa in primo piano del ruolo fondativo dell’acquisizione e del possesso esclusivo di una determinata porzione di terra, rispetto a tutti gli altri diritti acquisiti; infine, lo statuto di legittimità provvisoria che Kant riconosce all’acquisizione e al possesso del suolo, anche prima e in vista dell’istituzione di uno stato giuridico.
Quest’ultimo punto è essenziale per gettare luce sulla dissociazione kantiana – rilevata da Reinhardt – tra proprietà privata, sovranità e diritto di escludere: nella dottrina del diritto kantiana i popoli nomadi e cosiddetti selvaggi, pur non essendo organizzati in Stati e pur avendo scelto di vivere senza istituire la proprietà privata della terra, sono infatti titolari del diritto di respingere sancito dal diritto cosmopolitico, solo in quanto sono titolari di pretese di possesso provvisoriamente legittime – e dunque vincolanti – sul suolo in cui abitano. In una prospettiva globale tali pretese di possesso non si differenziano per Kant dal possesso di un determinato territorio da parte di uno Stato, nella misura in cui – prima dell’istituzione di uno stato giuridico nelle relazioni internazionali – tale possesso è, nella migliore delle ipotesi, un possesso che, in quanto frutto di un’acquisizione unilaterale, è sì legittimo e vincolante, ma solo in modo provvisorio, come diversi interpreti hanno notato (Muthu, 2014, p. 78; Taraborrelli, 2022; Ypi, 2014). Il riconoscimento dello statuto di legittimità provvisoria che Kant attribuisce alle pretese di possesso di individui, Stati e gruppi non-statali – prima e in vista dell’istituzione di uno stato giuridico – permette dunque di riconoscere e valorizzare ancora di più il carattere al tempo stesso disarmonico e produttivo della visione kantiana del nesso tra proprietà della terra, sovranità e diritto di escludere. Esso consente infatti di mettere in risalto lo statuto altrettanto provvisorio e condizionato – e dunque criticabile e modificabile, sia pure non attraverso atti unilaterali – che Kant attribuisce al diritto di escludere da ogni porzione determinata di terra: come ha osservato Lea Ypi (2014, p. 302), nella misura in cui il possesso di un territorio “affetta in modo necessario gli stranieri e implica una restrizione unilaterale della loro libertà”, in una prospettiva kantiana il “diritto di escludere è permesso solo se è congiunto al tentativo di istituire relazioni politiche conformi al diritto tra Stati” e popoli (anche non statali) e allo sforzo di “creare un tipo di associazione politica in cui le pretese territoriali”, compreso le questioni legate ai movimenti migratori, “possano essere soggette a un arbitrato pubblico, globale”.
Lo scarto di Kant rispetto agli esponenti del cosmopolitismo liberale egalitario – che hanno difeso un regime di ‘confini porosi’ sulla base di argomenti apparentemente omologhi (cf. Abizadeh, 2008) – non viene meno: come Reinhardt ha a ragione sottolineato, per Kant destinatari del diritto cosmopolitico non sono solo gli individui, ma tutte le ‘persone morali’, compresi gli Stati e i gruppi non-statali. Queste differenti tipologie di persone morali sono titolari dei doveri e dei diritti associati al diritto cosmopolitico perché sono agenti corporei che – in un mondo esterno, la cui superficie sferica e finita rende inevitabile la possibilità di influenza reciproca – non possono esercitare la propria libertà esterna senza appropriarsi di una determinata porzione di terra e di oggetti esterni dell’arbitrio, la cui acquisizione implica reciproci obblighi di giustizia: il raggio globale di questi ultimi ha una “connessione diretta” con la “deduzione kantiana dei diritti di proprietà” (Flikschuh, 2000, p. 9, pp. 141-142)[22] e, in particolare, con la legittimità provvisoria che Kant riconosce alle pretese di possesso di individui e gruppi (statali e non-statali), prima e in vista dell’istituzione di uno stato giuridico.[23]