Estudios Históricos
CULTURA DE GUERRA Y RACISMO EN LA CRISIS EUROPEA 1914-1945*
CULTURA DI GUERRA E RAZZISMO NELLA CRISI EUROPEA 1914-1945**
Ciencia Nueva, revista de Historia y Política
Universidad Tecnológica de Pereira, Colombia
ISSN-e: 2539-2662
Periodicidad: Semestral
vol. 1, núm. 2, 2017
Recepción: 04 Abril 2017
Aprobación: 09 Junio 2017
Publicación: 22 Agosto 2017
Dagli anni Novanta del secolo scorso gli storici, analizzando il 1914-1918, hanno iniziato a riflettere su guerra e cultura, dopo decenni in cui la Prima guerra mondiale era stata studiata esclusivamente nei suoi aspetti politico-militari, diplomatici, economici e sociali1. Più di recente, il centenario dello scoppio della Grande Guerra è stato l’occasione per nuove ricerche che hanno confermato la validità di quella pista d’indagine, utile anche per il periodo successivo sino al 19452.
Inserendomi in quella riflessione proporrò, in queste pagine, un collegamento tra due fenomeni entrambi necessari per comprendere il primo Novecento europeo: la cultura di guerra e il razzismo. Nell’ampio e complesso tema del razzismo considero qui anche l’antisemitismo, pur consapevole del fatto che razzismo e antisemitismo siano fenomeni diversi, che però tra Otto e Novecento hanno profonde connessioni. Infatti, l’antisemitismo moderno è in buona parte riconducibile all’affermazione delle teorie razziali3.
L’ubriacatura della guerra.
Ricordando il suo entusiasmo allo scoppio della Prima guerra mondiale, Ernst Jünger ha scritto: «La guerra ci aveva afferrati come un’ubriacatura. […] Essa ci appariva azione di veri uomini: vivaci combattimenti a colpi di fucile su verdi prati dove il sangue sarebbe sceso come rugiada ad irrorarne i fiori. “Non v’è al mondo morte più bella”, cantavamo». La scelta di combattere sembrava azione rinnovatrice, contro inazione passiva, occasione di rottura con un tempo di decadenza. Il filosofo aggiunge: «Lasciare la monotonia della vita sedentaria e prendere parte a quella grande prova. Non chiedevamo altro»4.
Nella fornace ardente in cui l’Europa piombò nell’estate del 1914, molti intellettuali esaltarono la guerra come forza rigeneratrice e di purificazione: un «potente disinfettante», secondo il poeta inglese Edmund Gosse, capace di sanare una civiltà malata di egoismo, edonismo, mollezza dei costumi5. L’Europa, scrisse Giuseppe Prezzolini, «si tuffa nella barbarie per ringiovanirsi»6.
Dall’analisi dei testi degli intellettuali europei schieratisi entusiasticamente per la guerra, emerge la convinzione che essa avesse una funzione positiva, di progresso per la società, perfino una dimensione etica7. Attraverso di essa, l’uomo avrebbe abbandonato il suo interesse particolare per perseguire un obiettivo comune, nazionale: «Solo la guerra consente agli uomini il grandioso spettacolo della subordinazione generale ad un universale», affermava lo storico svizzero Jacob Burckhardt8.
Si ebbe ciò che lo scrittore antimilitarista francese Romain Rolland definiva nel 1915
«un contagio di furore omicida»: «L’aspetto più impressionante di questa mostruosa epopea, il fatto senza precedenti è, in tutti i paesi belligeranti, l’unanimità in favore della guerra. È come un contagio di furore omicida […] che, simile a un’immensa ondata, si diffonde e infetta tutta la terra: nessuno ha resistito all’epidemia, nessuna libertà di pensiero è riuscita a preservarsi dalla rovina. Una specie d’ironia demoniaca sembra sovrastare questa mischia di popoli, da cui, quale che sia l’esito finale, l’Europa uscirà mutilata»9. Coloro che non si lasciarono contagiare furono pochi, seppure, in alcuni casi, personaggi di rilievo, come il filosofo inglese Bertrand Russell10 e lo scrittore tedesco Hermann Hesse11.
L’analisi della cultura di guerra è utile per comprendere non soltanto la giustificazione idealistica degli anni 1914-1918, ma anche gli sviluppi della storia europea tra i due conflitti mondiali. Infatti, l’esaltazione della guerra e la sua mitizzazione non cessarono con la fine delle ostilità, ma permearono diffusamente la cultura europea degli anni Venti e Trenta. L’idea della guerra come palingenesi riemerse quando fu chiaro che l’aggressività nazista avrebbe condotto a un nuovo scontro. È dunque utile, per tentare di comprendere gli anni della «guerra civile europea»12, soffermarsi sui temi che gli intellettuali fornirono a sostegno della guerra nei primi del Novecento.
Modernità e guerra. Sacrificio (degli altri) e selezione.
Nei testi di molti filosofi, scrittori e studiosi europei si rintraccia la convinzione che la modernità – intesa soprattutto come sviluppo inarrestabile dell’industria e della meccanizzazione – avrebbe sconvolto il “vecchio mondo”, imponendo un mondo diverso, “nuovo”. Già sul finire dell’Ottocento, Émile Zola rappresentava la Francia moderna come un treno senza conducente, lanciato in una folle corsa senza freni13. Lo scrittore francese tuttavia non condannava il progresso tecnico, altri lo esaltavano, giungendo alla medesima conclusione: l’esito delle trasformazioni che le società europee stavano vivendo sarebbe stato il conflitto, che s’immaginava esplodere tra la civiltà del passato e quella del futuro, prima ancora che tra le nazioni. La modernità avanzava inarrestabile e avrebbe cambiato radicalmente la realtà europea.
In questa visione non mancavano toni apocalittici, nella scia delle profezie dell’ Ecce homo di Nietzsche: «Avremo degli sconvolgimenti, uno spasimo di terremoti, monti e valli che si spostano, come mai prima si era sognato […] ci sarà guerra, come mai prima sulla terra»14.
Nietzsche – che, come ha notato il teologo Johann Baptist Metz, «si respira nell’aria»15 nella cultura europea del primo Novecento – è ispiratore di una visione dicotomica decadenza/rigenerazione, nonché di una cultura escatologica che attribuisce alla guerra il valore di un nuovo inizio. È il mito della rigenerazione, che affascinò molti tra Otto e Novecento.
Certo la visione del filosofo di Röcken era più ampia e complessa e prefigurava, in bilico tra follia e lucidità, una società selettiva, con i «necessari» e gli «esuberi», i sacrificabili. Il pensiero sacrificale avrebbe poi puntellato le ideologie razziste novecentesche e il movimento che le elevò a programma politico, il nazismo, con esiti che neppure la fervida immaginazione del filosofo tedesco avrebbe potuto prevedere. Tuttavia, tra il pensiero nietzschiano della fine dell’Ottocento e il tentativo di realizzare, nel Novecento, una societàimprontata al dominio di una minoranza (possibilmente ariana) su una maggioranza sottomessa, attraverso la guerra, è facile rintracciare il filo rosso del pensiero sacrificale, che si diffonde in rivoli diversi: l’idea che la diseguaglianza sia un elemento positivo della realtà umana, le classificazioni razziali, l’antisemitismo, il darwinismo sociale, le categorie antropologiche di superiorità/inferiorità, la (auto)legittimazione filosofica dei «popoli dello spirito» e del loro dominio sui «popoli materiali». Com’è noto, l’influenza del pensiero di Nietzsche nella cultura europea della prima parte del Novecento fu enorme ed è rintracciabile in numerosi autori16.
Tra i molti esempi che si potrebbero fare, vale la pena di citare brevemente quello di Mircea Eliade, storico delle religioni, filosofo e scrittore, ispiratore del movimento fascista e antisemita della Guardia di Ferro, in Romania. Egli riteneva che il sacrificio umano fosse indispensabile per una nuova «fondazione»: «Per durare – affermava – una costruzione dev’essere animata, cioè ricevere insieme una vita e un’anima. Il transfert dell’anima non è possibile che attraverso un sacrificio; in altri termini, attraverso una morte violenta. […] Si sacrificano parimenti delle vittime umane per assicurare il successo di un’operazione, o anche la durata storica di un’impresa spirituale»17.
In questa visione intrisa di esoterismo, la vittima sacrificale indicata dall’intellettuale romeno doveva essere innanzitutto l’ebreo, e la sua uccisione era da considerarsi «un atto religioso»18. È una vera religione della morte, nella quale la guerra, il sacrificio umano e la soppressione degli «inferiori», attraverso un processo di selezione omicida, erano elementi centrali.
In queste teorie avevano ampio spazio le concezioni razziali del mondo, basate sull’idea di una gerarchia di razze che presupponeva e giustificava il dominio di quelle superiori su quelle ritenute inferiori. La fede nella superiorità della razza bianca era un vero pilastro della moderna cultura europea. Ai gradini più bassi della scala razziale, gli africani e gli ebrei erano disprezzati e considerati sacrificabili, senza troppi scrupoli.
Elogio della guerra e mito della rigenerazione.
Alle soglie della Prima guerra mondiale, il pensiero apocalittico e la convinzione che la guerra avrebbe rigenerato l’Europa erano comuni tra gli intellettuali, non solo nelle avanguardie letterarie o artistiche ma in maniera trasversale in ogni angolo della cultura europea. L’elogio della guerra era diffuso, ma anche coloro che non la elogiavano la consideravano ineluttabile. Per molti, essa avrebbe sancito il dominio dei “migliori” a scapito degli altri. Basti pensare a ciò che scrisse durante il conflitto Benedetto Croce, intellettuale non incline al bellicismo (e contrario all’intervento italiano): «Per dir la cosa in breve e in termini popolari, la storia (nonché la logica stessa della vita) mostra che gli stati e gli altri aggruppamenti sociali sono tra loro perpetuamente in lotta vitale per la sopravvivenza e perla prosperità del tipo migliore; e uno dei casi acuti di questa lotta è ciò che si chiama la Guerra. Quando la guerra scoppia (e che essa scoppi o no, è tanto poco morale o immorale quanto un terremoto o altro fenomeno di assestamento tellurico), i componenti dei vari gruppi non hanno altro dovere morale che di schierarsi alla difesa del proprio gruppo, alla difesa della patria, per sottomettere l’avversario o limitarne la potenza o soccombere gloriosamente, gettando il germe di future riscosse»19. Croce non indulgeva all’esaltazione della guerra, come invece fecero molti suoi contemporanei, e proponeva una visione realistica della situazione in cui l’Europa stava precipitando. Altri diedero un significato più “spirituale” al conflitto, come atto di nascita di una nuova società.
In Italia, alcuni ritenevano che la guerra avrebbe favorito una maggiore identità nazionale, con il passaggio delle masse «da contadini a italiani». Soprattutto, si credeva che per divenire una grande nazione, l’Italia dovesse versare il suo tributo di sangue, conquistando attraverso di esso il diritto di sedere tra i potenti. Nel luglio 1915 lo storico Pietro Silva scriveva a Gaetano Salvemini: «È bene che la guerra sia lunga e difficile: sarà la prima volta, nel nostro Risorgimento, che otterremo dei vantaggi pagandoli con sacrifici adeguati. I sacrifici servono a temprare le nazioni»20.
La guerra era intesa come momento eroico di formazione, o di crescita, della nazione. Molti credevano che non ci fosse altra strada e si affidavano all’ideale di una «palingenesi attraverso il crogiuolo ardente della lotta», come scriveva il sindacalista rivoluzionario Angelo Oliviero Olivetti21. Spesso, all’elogio della guerra si accompagnava una vera e propria «seduzione totalitaria»22, che precede l’avvento dei totalitarismi. Del resto la pace, come la democrazia, era sentita come insufficiente: per un nuovo slancio, per dare avvio alla tanto mitizzata rigenerazione, era necessaria la guerra. Lo scrittore austriaco Robert Musil, ufficiale sul fronte italiano, in Alto Adige, ha definito questo atteggiamento una «fuga dalla pace»: «L’improvvisa, spaventevole forza devastatrice dell’incendio – ha scritto – si spiega soltanto se tutto era pronto per l’immane tempesta di sentimenti e non desiderava altro che la vampa del fuoco e lo scuotimento del terremoto. Chi ha vissuto lo scoppio della guerra in tutta la sua forza lo intende così: fu una fuga dalla pace»23.
C’era una vera e propria attesa dello scontro e un’insofferenza verso la pace, stigmatizzata come immobilismo e mancanza di opportunità. L’ideale kantiano della «pace perpetua» era rifiutato: esso «appartiene alla spazzatura della storia», affermò anni più tardi Oswald Spengler, esprimendo un’idea che molti avrebbero sottoscritto a inizio Novecento24. Solo le armi avrebbero modificato il corso della storia e impedito ai paesi europei di sprofondare nelle sabbie mobili del decadimento borghese e dell’inazione: «Se almeno qualcuno iniziasse una guerra – invocava nel 1910 George Heym –, e non è neppure necessario che sia una guerra giusta. Questa pace è così stagnante, oleosa e grassa come una
patina su un vecchio mobile»25.
Gli faceva eco in Italia, nel 1914, lo scrittore fiorentino Giovanni Papini, vivace sostenitore dell’intervento dell’Italia in guerra e autore di alcune delle pagine tra le più belliciste di quegli anni: «Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. […] Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umiducci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto […]. Amiamo la guerra e assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa – e appunto perché spaventosa e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi»26.
«Mentre i bassi democratici gridano contro la guerra come a barbaro avanzo di trapassati feroci – scrisse Papini con il suo amico Prezzolini –, noi la pensiamo come massima risvegliatrice d’infiacchiti, come mezzo rapido ed eroico di potenza e di ricchezza»27.
Papini è un caso limite, essendo ostentatamente provocatorio e oltraggioso.
Un «teppista», come lui stesso si definiva, cui è «sempre piaciuto rompere le finestre e i coglioni altrui»28. Un uomo che si divertiva a fare «terrorismo intellettuale»29. Ma nell’elogio della guerra era in buona compagnia. Alcuni anni prima, nel suo celebre manifesto futurista, pubblicato su «Le Figaro» il 20 febbraio 1909, Filippo Tommaso Marinetti l’aveva glorificata definendola «sola igiene del mondo»30. Similmente Gabriele D’Annunzio la celebrava come un «lavacro di sangue», occasione da non perdere per l’Italia.
La guerra, in quell’ottica, era l’unica strada per la rigenerazione delle nazioni. In tanti la invocavano. Tra di essi Benito Mussolini, convertitosi all’interventismo e per questo espulso dal partito socialista, che nel marzo del 1915 scriveva: «Se la neutralità continua ancora, l’Italia di domani sarà la nazione abbietta e maledetta; una nazione condannata, senza autonomia e senza avvenire; i cantastorie, i ruffiani, gli affittacamere, i lustrascarpe, i suonatori ambulanti continueranno a rappresentare l’italianità per il mondo, e il mondo dei vivi regalerà ancora un po’ di compassione e molto disprezzo a noi, vinti senza combattere, a noi, morti prima di nascere»31.
Queste posizioni accompagnavano quelle, più politiche, di chi guardava alla guerra come a un’occasione per accrescere il proprio potere o imporre il proprio dominio. La lega pangermanista, fondata nel 1890, è l’esempio forse maggiore della convergenza tra cultura bellicista e aggressiva – con ampi riferimenti alla selezione naturale, alla soppressione dei deboli e all’affermazione dei forti – e politiche di potenza, mirate, nel caso specifico, all’espansione della Germania in Europa.
Di fronte all’affermarsi di una cultura della guerra, le voci pacifiste scolorirono e progressivamente scomparvero. Fatta eccezione per l’invocazione del papa Benedetto XV, che condannò la guerra come «inutile strage», appellandosi «ai capi dei popoli belligeranti» perché intraprendessero vie di pace32, non vi furono prese di posizione forti capaci di contrastare la marea montante del bellicismo. Vi furono invece gruppi e movimenti popolari contro la guerra, ma non riuscirono a impedirla33.
Alcuni intellettuali intuirono subito la distruzione che la guerra avrebbe recato, ma furono inascoltati. Franz Kafka scriveva all’inizio del conflitto: «È una inondazione. La guerra ha aperto le chiuse del male. I puntelli che sostenevano l’esistenza umana crollano»34.
L’Europa piombò in uno scontro dalle proporzioni mai viste prima, tra l’entusiasmo di alcuni e lo sbigottimento di milioni di contadini mandati a combattere per ragioni a loro oscure. I governi si aspettavano una guerra breve ma il conflitto, allargatosi rapidamente a un gran numero di paesi, si rivelò lungo, logorante, incerto. La mobilitazione di milioni di uomini, che per lo più avevano vissuto sempre nello stesso luogo, sconvolse la tradizione delle popolazioni rurali. Il numero delle vittime e la devastazione materiale furono maggiori di ogni previsione. Con il senno di poi, Thomas Mann avrebbe descritto un’Europa avvinta da una «grande ebetudine» e incapace di sfuggire al destino di guerra in cui si era incamminata35. Un’Europa di «sonnambuli», per riprendere il titolo di una recente e fortunata opera storiografica, avviata quasi inconsapevolmente all’autodistruzione36.
La guerra di trincea. Morte di massa e banalizzazione della violenza.
Soprattutto chi visse le prime battaglie, ebbe subito chiara la consapevolezza che la guerra scoppiata nel 1914 non era paragonabile alle precedenti. Il numero dei morti in combattimento si rivelò presto di gran lunga superiore alle previsioni. Sul fronte della Marna, nella «battaglia delle frontiere» e negli scontri successivi morirono in media 7.000 soldati al giorno37. Tra il 3 agosto e il 9 settembre 1914, dunque nell’arco di un mese e una settimana, i caduti, soltanto su quel fronte, furono oltre 250.000. Più dei morti dell’intera guerra franco- prussiana del 1870-71. Agli inizi della Grande Guerra, già era evidente la dimensione inedita delle perdite umane.
Il grande storico francese Jules Isaac, combattente sul fronte occidentale, autore molti anni più tardi di riflessioni fondamentali sulla Shoah e sull’antisemitismo38, notò il carattere unico di quel conflitto: «Sembra sempre più difficile – scrisse – comprendere degli avvenimenti che non hanno una misura di riferimento comune con accadimenti precedenti, anche se vi si trovano delle somiglianze apparenti»39.
La morte nelle trincee divenne di massa, anonima. Molti soldati uccisi non erano riconoscibili perché dilaniati dall’artiglieria nemica, in percentuale altissima non poterono neppure essere seppelliti. Ben 250.000 soldati francesi uccisi in combattimento non furono mai ritrovati40 e presumibilmente non è minore il numero dei soldati tedeschi ingoiati dalla stessa morte anonima. È il “milite ignoto”, simbolo di una guerra che distrugge tutto, anche i corpi dei soldati. «Tutto questo supera qualsiasi immaginazione»41, annota Isaac.
Il “milite ignoto” diviene, da un lato, oggetto di culto, in una nuova religione laica che sacralizza la guerra e i suoi martiri, mentre dall’altro è il simbolo di un conflitto totale, spersonalizzante, che annichilisce la vita, e persino la morte. Con l’interrogativo inevaso che si poneva Cesare Pavese ne La casa in collina, all’indomani della Seconda guerra mondiale, valido anche per la Prima e forse per ogni guerra: «Ora che ho visto cos’è la guerra, cos’è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?”. Io non saprei cosa rispondere»42.
Come notò già nel 1915 Sigmund Freud, la Prima guerra mondiale ha cambiato il «modo convenzionale di considerare la morte», la sua rimozione e il suo occultamento, la tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita», poiché ha gettato la morte in faccia agli europei, massificandola: «Gli uomini muoiono veramente; e non più uno alla volta, ma in gran numero, spesso a decine di migliaia al giorno»43.
Nel corso del primo conflitto mondiale la violenza e la paura della morte diventarono le compagne quotidiane di milioni di soldati. La violenza fu banalizzata, talmente diffusa e ripetuta da non essere più eccezionale.
Nelle trincee, la “normalità” della violenza rende brutali, tanto che i soldati smettono di seppellire i loro compagni caduti, nonostante le tregue che proprio alla sepoltura dei morti erano dedicate. È ancora Jules Isaac a riflettere acutamente sugli effetti che la violenza quotidiana ha sui sopravvissuti: «La vita che conduciamo ci rende duri, estremamente duri, ci riporta a una mentalità primitiva, selvaggia nella quale l’istinto domina con violenza»44. Lo storico nota poi come difficilmente quei soldati torneranno a essere «uomini qualsiasi», in loro qualcosa è cambiato per sempre. Una generazione immersa in un orrore inimmaginabile non sarà più la stessa.
La violenza e la morte, ormai “normali”, erano diventate ciò che ci si attendeva di giorno e di notte, senza soluzione di continuità. Banalizzando la morte, la Prima guerra mondiale ha aperto la strada a un’epoca di violenza generalizzata. Inoltre, essa ha segnato il passaggio da una prospettiva di vittoria sul nemico, comune a tutte le guerre precedenti, a una prospettiva di annientamento del nemico stesso, che veniva demonizzato e, nella propaganda di guerra, disumanizzato. Il confronto armato trascendeva così in una crociata nazionalistica in cui in ballo non c’era più soltanto la vittoria militare, ma la propria supremazia nei confronti delle altre nazioni, che andavano distrutte.
Attraverso questi processi di radicalizzazione dello scontro, i soldati diventarono come un gregge condotto al macello, la persona umana fu degradata a livelli animaleschi, tanto che la sua vita non contava più nulla. «Qui si crepa come un animale, nella miseria fisica e intellettuale», annotò il 20 novembre 1914 Étienne Tanty. Gli faceva eco il capitano francese Charles Delvert, che nel maggio 1916 scrisse da Verdun: «Si ha l’impressione di essere l’animale di trincea, l’animale che viene spinto al macello»45. La sensazione di essere diventati carne da macello e di aver perso la dignità della vita umana, pur essendo vivi, è comune a numerosissime testimonianze e memorie dal fronte46.
Alcuni studiosi hanno riflettuto sugli effetti della violenza totalizzante sulla psiche dei soldati, evidenziando una scissione della personalità nei sopravvissuti: da un lato, uccidere il nemico in guerra era stato vissuto come un “lavoro”, un compito al quale non ci si poteva sottrarre, dall’altro il ritorno a una vita normale, finita la guerra, esigeva anche il ritorno a una moralità secondo cui l’omicidio e la violenza erano crimini da condannare. Tuttavia, la Grande Guerra non era stata una carneficina senza carnefici, ma aveva visto accanto ai milioni di morti molti uomini che avevano ucciso, nel numero di decine o più probabilmente centinaia di migliaia. Difficilmente questi ultimi potevano tornare a essere «uomini qualsiasi».
L’enorme violenza scatenatasi con la Prima guerra mondiale e divenuta la tetra compagna quotidiana di tanti, sarebbe rimasta come un’ipoteca di morte sull’Europa degli anni successivi. Essa aveva sconvolto tutto, gettato «la vita nel fuoco» e posto «la materia contro lo spirito». «La guerra salì davanti a noi – racconta Ernst von Salomon ne I proscritti –, uscita dalle più profonde fessure della terra, come una nebbia, come un fantasma grigio; squasso i bastioni irti d’armi, bruscamente ci afferrò col pugno ardente e mescolò insieme i reggimenti e di nuovo li divise violenta e li aizzò sui campi tuonanti. […] La guerra arrivò come un gigante sul paese e niente poté sfuggirle; venne come un lupo e coi denti aguzzi c’inseguì fino alle più alte vette e agli abissi più profondi; scagliò con una spinta furiosa la gioventù nella melma, buttò la vita nel fuoco e drizzò la materia contro lo spirito»47.
Cultura di guerra, crisi della tradizione e avvento dei totalitarismi.
La Grande Guerra aveva mostrato lo scollamento tra posizioni intellettuali e mondo contadino e operaio, tra coloro che esaltavano la guerra come palingenesi rigeneratrice e i milioni di soldati che erano stati mandati al fronte sopraffatti da un senso di impotenza, convinti di essere pedine in un gioco troppo grande, per molti incomprensibile, al quale non erano in grado di sottrarsi. Aveva intuito questa frattura il sindacalista rivoluzionario Filippo Corridoni, che nel dicembre ’14 scriveva: «Il problema della guerra è troppo forte per i cervelli proletari. L’operario non vede nella guerra che la strage, la miseria, la fame […] e quindi è contro la guerra»48. In base a questa convinzione, il compito di propagandare la guerra spettava agli intellettuali, gli unici in grado di capirne gli effetti positivi elevandosi al di là del contingente, o del proprio particolare.
Negli anni del dopoguerra si consolidò una cultura di guerra a livello europeo, fenomeno che è stato approfondito soprattutto dalla storiografia francese in tempi recenti. Ha scritto al riguardo Giovanna Procacci: «Le analisi sulla violenza insita nella prima guerra mondiale hanno portato […] alcuni autori francesi a teorizzare una “cultura di guerra” che, nata dalla eccezionale “brutalizzazione” (termine ripreso dagli scritti di George Mosse) che caratterizzò il primo conflitto “totale”, avrebbe permeato tutte le coscienze, sino a divenire il brodo culturale di cui si sarebbero alimentati i futuri regimi totalitari e i genocidi razziali»49. Da qui deriva anche la domanda che alcuni studiosi si sono posti: «Auschwitz sarebbe stato possibile senza Verdun?»50. L’«uccisione industriale»51 della Grande Guerra è un antecedente necessario alla morte massificata nella Seconda guerra mondiale e nei lager. In qualche modo l’aveva intuito Jules Isaac, che nel settembre 1916 scriveva: «Non so proprio dove andiamo ma a volte mi spavento al pensiero che questa guerra sia non la fine ma l’inizio e il preludio di un cataclisma assai più terribile. Mai come ora le potenze del male sono state scatenate, e non si fermeranno in un breve tratto di strada»52.
Alcuni contemporanei compresero, già nel corso della guerra, che i cambiamenti in Europa riguardavano gli uomini, prima ancora che i territori e i rapporti tra gli Stati, come se la brutalizzazione della vita in tempo di guerra avesse l’effetto di cambiare l’animo umano e di predisporlo a nuove atrocità. Sono elementi che non possono essere ignorati da chi oggi studia la Grande Guerra e cerca di comprenderne l’influenza sulla storia europea successiva. Per questo, l’approccio della nuova storiografia francese che riflette sulla cultura è di mettere al centro non l’evento bellico in sé ma le emozioni e i sentimenti che esso suscitò, nella prospettiva di una «storia sociale delle emozioni politiche» e di una «psicologia della politica»53. Approccio non pienamente accolto dagli storici di altri paesi54, almeno sinora, ma capace comunque di aprire nuove piste interpretative sul periodo 1914-1945.
È, infatti, inequivocabile il carattere bellicista del fascismo italiano, il quale, pur non assumendo i toni romantici ed esaltati del futurismo e delle avanguardie letterarie, celebrò la guerra in chiave di potenza nazionalistica. Così com’è indubbio che di bellicismo fosse intriso il nazismo, fondato sui miti della forza e del sangue. Più in generale, l’esperienza della Prima guerra mondiale diede linfa alle correnti culturali che esaltavano la guerra, attraverso alcune dinamiche che ebbero origine nel campo del pensiero e del confronto tra letterati, ma si propagarono poi alle masse: la demonizzazione del nemico, l’esaltazione della propria specificità “razziale”, la mistica nazionalista, la creazione di riti collettivi attorno ai quali consolidare un senso di appartenenza. Nel caso italiano, è diffuso il sostegno offerto dagli intellettuali al fascismo, anche negli aspetti aggressivi e imperialistici del regime55.
È soprattutto l’ambiente tedesco che risalta la connessione tra violenza della Grande Guerra e cultura di guerra negli anni Venti e Trenta, poiché vi si affermò la tendenza a considerare la storia dell’Europa moderna, o almeno diverse fasi di essa, come il tentativo – portato avanti soprattutto dai francesi – di distruggere la Germania, con ogni mezzo. Così il ventennio 1919-1939 fu interpretato, durante il nazismo e soprattutto nella Seconda guerra mondiale, non come un periodo di pace ma come «una continuazione della guerra con altri mezzi»56, come sosteneva Friedrich Siegfried Engel, giovane studioso organico al nazismo, poi membro delle SS e responsabile, durante l’occupazione tedesca dell’Italia centro- settentrionale, di atrocità che gli guadagnarono l’epiteto «il boia di Genova»57.
Il nesso tra la Prima guerra mondiale e le violenze dei totalitarismi, della Seconda guerra mondiale e dei campi di sterminio è però rintracciabile anche in altri paesi europei, sebbene la Germania rappresenti un archetipo in queste dinamiche. Sarebbe senz’altro interessante poter quantificare l’impatto della cultura di guerra sulle masse contadine, o tra gli operai, all’indomani della Grande Guerra e fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale58.
La nazionalizzazione delle masse, per usare una categoria mossiana59, si attuava attraverso un’imponente pedagogia della nazione, declinata in vari aspetti della vita pubblica. Ma quale parte ebbe in questo processo l’esaltazione della guerra come rinnovamento, occasione di rinascita e di nuovo inizio? Quale fu l’incidenza che la celebrazione del mito della guerra come palingenesi, operata dagli intellettuali, ebbe sulla cultura popolare? Si tratta di questioni che la storiografia degli ultimi decenni si è posta, dovendo però fare i conti con le difficoltà di un campo di studio vastissimo e multiforme, che si complica con altri interrogativi: quanto in quei processi ha influito il razzismo, diffusissimo in Europa? Quanto l’ideologia antisemita?
Considerando che, tra le due guerre mondiali, i più vistosi processi di nazionalizzazione delle masse si ebbero nell’Italia fascista e nella Germania nazista, risulta chiaro che sia la cultura di guerra sia il razzismo (almeno per il caso tedesco) vi giocarono un ruolo di primo piano.
È però ancor più evidente l’impatto che la guerra stessa ebbe sulla cultura popolare e contadina, scardinando un mondo tradizionale e sconvolgendolo. Concretamente, la cultura di guerra si formò, per le masse, nell’esperienza della guerra, più che nella propaganda bellicista. È quanto osservava Jules Isaac riflettendo sui soldati resi «estremamente duri». Per questo, le osservazioni di Walter Benjamin sulla modernità che incrina la tradizione attraverso il prevalere dell’esperienza vissuta rispetto all’esperienza trasmessa, sono riferite in modo particolare agli anni 1914-1918. Il filosofo prende le mosse da quel che definisce il «declino della narrazione»60 – soprattutto della narrazione della morte –, attraversol’irruzione, con la Grande Guerra, di una morte massiva, impersonale e inenarrabile. L’esperienza della morte in guerra non può essere tramandata, né può esserlo, più in generale, l’esperienza del fronte. «Siamo una generazione di iniziati – ammoniva l’ufficiale inglese Charles Carrington, tra i sopravvissuti – una generazione in possesso di un segreto che non potrà mai essere comunicato»61. La Grande Guerra rompe un continuum storico in cui ciascuna generazione affidava alla seguente una cultura tramandata nei secoli.
Del resto, quale esperienza vissuta poteva essere più dirompente di quella dei soldati al fronte? Qual era il valore di un’esperienza fatta di piccole conoscenze e trasmessa di generazione in generazione, in un mondo tradizionale e statico, al cospetto di un’esperienza totale vissuta sui campi di battaglia?
Il carattere totalizzante dell’esperienza bellica vissuta da milioni di europei fa sì che tale esperienza diventi centrale e sovrasti la tradizione del mondo rurale prebellico, erodendo gli spazi dell’esperienza trasmessa che sembra ormai non avere valore, in un mondo radicalmente cambiato.
La guerra cambiò L’Europa anche perché, a dispetto della retorica sul soldato eroico, felice di sacrificare la propria vita per la patria, a prevalere sui campi di battaglia era stata la paura. La seguente testimonianza di un soldato francese sarebbe certamente stata sottoscritta sia dai suoi commilitoni, che dai suoi nemici: «Gigante dal volto sgomento, sorella della morte, la paura è nostra regina e nessuno sfugge alla sua potenza. Nelle retrovie si sono dette tante sciocchezze da dover ricordare che il fante intrepido è un mito»62.
Nessuno tornava dal fronte com’era prima. Lo ricorda nelle sue memorie il soldato inglese Ernest Parker, miracolosamente sopravvissuto mentre il suo battaglione fu interamente distrutto il 16 settembre 1916: «Non potevamo immaginare quali effetti avrebbe avuto sulle nostre vite quell’esperienza, ma sapevamo che come minimo sarebbe stato impossibile sopravviverle senza subire qualche mutamento interiore. Ed ora marciavamo verso questa trasformazione della nostra personalità»63.
Nel dopoguerra, il vecchio mondo è travolto, cambiato non solo nelle sue strutture sociali e politiche ma nella mentalità, i comportamenti e l’immaginario delle popolazioni. Benedetto Croce, tra gli altri, avvertì nel dopoguerra una grave «frattura dell’Europa contemporanea con la propria tradizione»64, mentre lo storico delle religioni Alfred Loisy parlava nel 1919 di «crisi del genere umano» e di «svolta della storia umana»65. Anche per questo motivo – oltre che per i milioni di morti e la distruzione che ha provocato – la Grande Guerra è una cesura nella storia europea, uno spartiacque che separa due epoche e non lascia nulla com’era prima. È un’«apocalisse culturale»66, poiché stravolge la cultura europea, e persino, secondo alcuni, la «madre di tutte le cose» nella storia del Novecento67.
I cambiamenti che da essa derivarono furono enormi in ogni campo. Gli Stati coinvolti furono sottoposti a pressioni di tale intensità da modificare ogni aspetto della loro vita politica, dei costumi sociali, della demografia e dell’organizzazione umana.
Forse a nessuna epoca si adatta meglio che alla Prima guerra mondiale l’affermazione dello storico Arno J. Mayer, secondo il quale la violenza è una «levatrice» della storia68. La violenza inedita che esplose nella Grande Guerra fu levatrice dei regimi totalitari che occuparono la scena europea negli anni seguenti.
Su quanto il fascismo e il nazismo furono figli della violenza esplosa nella Grande Guerra esiste ormai un’ampia letteratura. L’onda lunga della violenza scatenatasi nel conflitto mondiale e l’affermazione della cultura di guerra, non più soltanto tra gli intellettuali ma anche tra le masse, ebbero un ruolo non secondario negli esiti della crisi italiana del primo dopoguerra, così come in quella tedesca dopo il 1929.
Successivamente, in Italia, gli anni dell’aggressione all’Etiopia (1935-1936) furono l’apice del consenso al regime di Mussolini. L’entusiasmo esploso per l’impresa d’oltremare mostra la penetrazione della cultura imperialistica e di guerra tra le masse. Certamente l’aspetto coercitivo del fascismo pone il problema di un’analisi complessa del consenso69, anche rispetto alla guerra d’Etiopia70. Tuttavia, pur tenendo conto delle giuste osservazioni di chi mette in guardia verso un’analisi riduttiva dell’adesione degli italiani al fascismo, appare indiscutibile che la gran parte di essi fu partecipe di quell’impresa bellica e la sostenne in chiave nazionalista, anche come rivalsa dopo le sconfitte ottocentesche nel Corno d’Africa. Di quest’aspetto si fece interprete Gabriele D’Annunzio: «Appartengo, ahimé alla generazione di Dogali e di Adua. E sento tuttavia nell’omero il marchio atroce: sì lo dico, il marchio vergognoso; che deve essere cancellato, che il Duce dell’Italia cancellerà, senza indugi, “contro tutto e contro tutti”. Voi andate a vincere. Non mai fu tanto inesorabile –
voglio dire fatale – il comandamento di vincere e di abbattere»71.
Dall’ideologia antisemita allo «Stato razziale».
La cultura di guerra ebbe in razzismo e antisemitismo due fedeli compagni di strada. Il primo, sotto una veste scientifica, pretendeva di spiegare il mondo chiarendo i motivi di una presunta superiorità europea che in quel tempo nessuno, nel vecchio continente, avrebbe messo in discussione72. Le scienze gareggiavano nel confermare l’idea di quella superioritàe fornivano argomenti apparentemente inoppugnabili, proprio perché ammantati di scientificità: l’antropologia classificava i popoli in razze, l’eugenetica ne rivelava le maggiori o minori qualità, puntando a un chimerico miglioramento genetico dell’umanità, il darwinismo sociale spiegava come i migliori sarebbero progrediti e i peggiori, i sacrificabili, sarebbero stati scartati.
Il quadro in cui le teorie razziste acquistarono ancor più forza era quello dell’espansione coloniale degli europei, che avevano progressivamente assoggettato l’intera Africa e vaste aree del continente asiatico. Il razzismo coloniale presentava gli africani come esseri inferiori, nella migliore delle ipotesi come popoli da civilizzare. Sul finire degli anni Trenta del Novecento, i leader dei fascismi europei insistevano sulla necessità di una maggiore «coscienza razziale» e sul concetto di purezza della razza. La cultura giuridica di vari paesi fu infiltrata dal razzismo, sino alla promulgazione di leggi razziste, sia per le colonie sia per le minoranze ebraiche presenti in Europa73.
L’antisemitismo si caratterizzava soprattutto come un’ideologia antiborghese ma era un fenomeno multiforme in cui l’antico odio religioso si mischiava a teorie razziali rianimando antichi stereotipi, in una visione cospirazionista del mondo74.
L’ideologia antisemita che si affermò tra Otto e Novecento raffigurava gli ebrei come un corpo estraneo alla nazione. Pericolosi perché complottanti, gli ebrei erano divenuti nell’Ottocento
«vaghi», cioè non più riconoscibili, a seguito delle emancipazioni religiose e della parificazione giuridica che ne aveva cancellata la riconoscibilità, eliminando sia la segregazione sia le antiche interdizioni. Il terrore dell’«ebreo vago», come lo definiva il campione dell’antisemitismo europeo Édouard Drumont75, divenne un’ossessione.
L’idea del complotto, nient’affatto nuova, ebbe enorme fortuna a seguito della pubblicazione dei Protocolli dei savi di Sion, documento falso destinato ad avere però effetti molto reali sulla vita degli ebrei d’Europa. Apparsi dapprima in russo, nel 1903, i Protocolli furono tradotti e pubblicati nel 1919 in Germania, nel 1920 in Francia, Ungheria e Regno Unito, nel 1921 in Italia e Croazia e poi in Spagna (1927), Grecia (1928), Svizzera (1934), Portogallo (1936)76.
In quegli anni di crisi europea, l’antisemitismo divenne un’ideologia per le masse, funzionale al nazionalismo e capace, grazie alla sua natura multiforme, di essere utilizzata in maniera trasversale da gruppi cristiani e laici, così come dai nazionalisti ma anche dai socialisti. Le rappresentazioni dell’«ebreo» si moltiplicarono. Gli ebrei, all’interno di un vasto lessico antisemita, erano presentati al contempo come capitalisti e comunisti, ricchi e cenciosi, padroni dei gangli vitali dell’economia e rivoluzionari, subdoli e misteriosi ma portatori di una sfacciata alterità. Tutto e il contrario di tutto.
In poche parole, come ha osservato Alberto Burgio, «si può dire che c’è sempre una buona ragione per perseguitarli»77.
Lo «Stato razziale»78 nazista portò al culmine l’ideologia antisemita, convogliandola in una più complessiva idea del mondo in cui la lotta tra le razze era il motore della storia, riprendendo le teorie di de Gobineau e Chamberlain. Nel regime hitleriano la miscela di cultura bellicista e razzismo divenne ancor più esplosiva: il nemico, sia interno (l’«ebreo») sia esterno (gli Stati responsabili dell’oppressione della Germania) doveva essere annientato, in una visione apocalittica in cui il Terzo Reich avrebbe dato inizio a un mondo nuovo, governato dalla superiore razza ariana.
Confluivano in quella visione tutte le teorie razziali ottocentesche e il darwinismo sociale, che dava una giustificazione “scientifica” – in quel tempo considerata tale – al dominio di una razza su un’altra e persino alla soppressione dei deboli, ritenuta necessaria per il trionfo dei migliori e il progresso dell’umanità.
In questa fusione tra cultura di guerra, razzismo e antisemitismo c’è il cuore del progetto totalitario di Hitler, naufragato nel 1945.
All’indomani della Seconda guerra mondiale l’Europa ha vissuto un vero e proprio disarmo della cultura, sia per il «desiderio di non più combattere vissuto come improcrastinabile necessità», come ha scritto Claudio Pavone79, sia per una riflessione sugli esiti tragici cui il razzismo aveva condotto80. Ne è un segno, come ha notato Mariuccia Salvati, il fatto che «all’uscita dalla seconda guerra mondiale, ovunque nei paesi europei, prevale, nella scrittura delle nuove costituzioni, la cultura del rispetto della persona, nata dal comune rigetto del fascismo»81.
In Europa dopo il 1945 si è aperta un’epoca di pace che ha consentito a tre generazioni consecutive di europei di vivere senza guerra. Non accadeva dal tempo dell’Impero romano. Ciò ha fatto sperare che avesse ragione Victor Hugo, il quale nel lontano 1849 auspicava:
«Verrà un giorno in cui anche a voi cadranno le armi di mano! Verrà un giorno in cui la guerra vi parrà altrettanto assurda e impossibile tra Parigi e Londra, tra Pietroburgo e Berlino, tra Vienna e Torino quanto sarebbe impossibile e vi sembrerebbe assurda oggi tra Rouen e Amiens, tra Boston e Filadelfia»82.
Oggi certamente a molti quella apparirà un’utopia sbiadita, soffocata dal rumore delle armi che non cessa di rimbombare in molti angoli del mondo, messa in discussione da una cultura di guerra che pare riemergere a dispetto della Storia.
Notas
«Qual senso di purificazione, di liberazione, di immane speranza ci pervase allora!» (T. MANN, Scritti storici e politici, Mondadori, Milano 1957, pp. 39-40).
L’enseignement du mépris: vérité historique et mythes théologiques, Fasquelle, Paris 1962.