Presentación
TEOLOGÍA Y SEMÁNTICA DE LA LIBERACIÓN EN AMÉRICA LATINA
TEOLOGIA E SEMANTICA DELLA LIBERAZIONE IN AMERICA LATINA*
Ciencia Nueva, revista de Historia y Política
Universidad Tecnológica de Pereira, Colombia
ISSN-e: 2539-2662
Periodicidad: Semestral
vol. 1, núm. 2, 2017
Publicación: 22 Agosto 2017
Resumen: En este artículo, los dos autores analizan las ‘palabras’ de la Teología de la Liberación latinoamericana, sobre todo aquellas implícitas en el mismo concepto de esta corriente religioso-política que se desarrolló en el subcontinente a partir de finales de los años sesenta del siglo pasado. Se considerará su significado partiendo de la Biblia, pasando por la Doctrina Social de la Iglesia, hasta analizarlas desde el punto de vista específicamente latinoamericano.
Palabras clave: Teología de la liberación, América Latina, Biblia, Doctrina Social de la Iglesia, Semántica.
Sommario: In questo articolo, i due autori intendono analizzare le ‘parole’ della Teologia della Liberazione latinoamericana, nella fattispecie quelle insite nel concetto stesso di questa corrente religioso-politica che si sviluppò nel subcontinente a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si ripercorrerà il loro significato partendo dalla Bibbia, passando per la Dottrina Sociale della Chiesa, fino a studiarle dal punto di vista specificamente latinoamericano.
Parole: Teologia della liberazione, America Latina, Bibbia, Dottrina Sociale della Chiesa, Semantica.
Abstract: In this article, the two authors aim at analyzing the ‘words’ of the Latin American liberation theology, mainly those inherent to the concept itself of this religious-political movement, developed in the subcontinent from the 1960s. The meaning is analyzed on the basis of the Bible and of the Social Doctrine of the Church and, finally, it is studied from a specifically Latin-American point of view.
Keywords: Theology of liberation, Latin America, Bible, The social doctrine of the church, Semantics.
Introduzione e metodología.
La finalità di questo articolo è analizzare la ‘semantica della liberazione’ latinoamericana, cioè esaminare le parole insite nel concetto stesso della Teologia della Liberazione, la corrente religioso-politica che si sviluppò nel subcontinente a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso.
Si ripercorrerà il significato del termine ‘liberazione’ partendo dai contenuti della Bibbia, analizzando alcuni passi degli evangelisti e dei profeti, permeati di concetti liberatori e dimostrando che –già ai tempi di Cristo– tale parola era presente nel linguaggio comune, foriera di speranza e cambiamento.
Un rapidissimo sguardo alla Dottrina Sociale della Chiesa fino agli anni più controversi dell’auge della Teologia della Liberazione spiegherà meglio il concetto, anche se questa non entra in questioni tecniche e non istituisce né propone sistemi o modelli di organizzazione sociale, ma semplicemente punta all’assistenza dell’uomo nel suo cammino di liberazione.
L’ultimo paragrafo sarà dedicato all’analisi dei concetti di ‘teologia’ e ‘liberazione’ proposti dai maggiori teologi liberazionisti latinoamericani, giungendo alla conclusione che tale corrente è una vera e propria missione –specificamente latinoamericana– atta a raggiungere, appunto, la liberazione integrale dell’uomo nella sua specificità e socialità.
2. La Bibbia e la Dottrina Sociale della Chiesa: ermeneutica della liberazione.
Sembrerebbe superfluo ricordare che quello della liberazione è un tema cristiano anche se, quando ci si trova ad analizzare un argomento tanto delicato e movedizo, la prudenza non è mai troppa.
Tra l’altro, la scelta del nome di questo movimento non è casuale, bensì volutamente rispondente alle parole-chiave del testo sacro dei cattolici, se pensiamo che l’aspirazione alla liberazione tocca alcuni fra i temi fondamentali sia del Nuovo che del Vecchio Testamento.
Lo stesso verbo liberare, con il corrispettivo sostantivo liberazione, sono chiaramente la traduzione dei verbi greci ελευτερόω, ελευτερύομαι, ελευτερία e dei latini redimere e redemptio che, con i termini riguardanti la salvezza, σωτηρία e salus, precisano l’azione redentrice che il Signore Dio ha esercitato non solo sul popolo prediletto, quello ebraico, ma anche e soprattutto sulla vita di Suo Figlio Gesù.
Dunque, se –come ha sostenuto Carlo Molari– la teologia della liberazione “si fonda sulla scoperta del potenziale biblico di liberazione” [1], allora “es una expresión plenamente válida: designa entonces una reflexión teológica centrada sobre el tema bíblico de la liberación y de la libertad, y sobre la urgencia de sus incidencias prácticas” [2].
Proprio per il forte radicamento nella Bibbia, i suoi proseliti hanno cercato di accreditarla quale scuola di pensiero per niente esulante dai dettami basilari della religione cattolica, che trovano nel libro sacro per eccellenza un fondamento e un ristoro sicuro, pur mantenendo salda l’idea che “la Teología de la Liberación […] no está provocada por la Biblia. Está provocada por un hecho que ha surgido [...] de lo más íntimo de la conciencia del Hombre (que es palabra de Dios, locus theologicus, fuente también de revelación)”3.
Gilberto da Silva Gorgulho ha parlato della Bibbia come “memoria dei poveri”4, sviluppando l’idea secondo la quale questi ultimi, leggendola in una situazione di sofferenza e dominazione, giungono a ricercarvi “la verità che li liberi, la luce che li renda capaci di analizzare la società e le sue strutture di violenza, la forza che li sostenga nella resistenza e nella lotta per un mondo nuovo di vita, di libertà e di solidarietà”5.
Confidando ciecamente nelle parole della Bibbia, essi cercano di farsi forza nella loro personale lotta per la liberazione, scoprendo dei significati per lo più sconosciuti agli esegeti, tanto da poter affermare che i poveri sono la chiave ermeneutica della sua interpretazione.
Pur accettando l’assunto di una visione soggettiva e per niente neutrale dei fatti, i poveri sostengono, indifferenti, la loro intima e forsennata ricerca di giustizia e libertà, utile per l’abbandono dello stato di depauperamento ed asservimento dal quale costantemente dipendono.
Inoltre, nonostante le mode coeve e le relative aggiornate valutazioni abbiano teso a considerare la Bibbia come qualcosa di vetusto e per niente confacente alle mutate condizioni, ‘il popolo dei poveri’, invece, ha continuato a considerare il ‘libro dei libri’ un insieme di buoni dettami quanto mai attuali, perché cagionatori dello sviluppo della forza liberatrice in coloro che fermamente credono e investono nella liberazione stessa.
Quest’ultima non può essere affatto vista come un corpo separato dalla religione, anzi “la liberazione dei poveri si pone al centro della religione”6, costituendone l’anima e la forza stessa.
D’altronde, essendo la Bibbia uno dei testi più stampati al mondo, facilmente comprensibile per il linguaggio spesso agevole, sotto forma di parabole e brevi racconti, si presenta molto prossima alla condizione di semplicità nella quale ha sempre vissuto il popolo sudamericano, per cui più accessibile alla comprensione diretta dei meno scolarizzati o acculturati7.
I teologi della liberazione si sono sentiti investiti, dunque, dell’oneroso compito di adeguare la risultante di questo confronto alle aspettative dei più tramite una lettura ermeneutica che, pur non essendo l’unica interpretazione possibile, è stata prediletta perché “dal grembo della grande rivelazione biblica essa ricava e sviscera i temi più luminosi ed eloquenti nella prospettiva dei poveri”8.
Una lettura che parta dall’analisi del progetto di liberazione e che abbia quali attive protagoniste popolazioni sottosviluppate non può non presentare delle particolari caratteristiche: in primo luogo, la peculiarità di privilegiare il momento dell’applicazione su quello della spiegazione perché “l’ermeneutica liberatrice legge la Bibbia come un libro di vita e non come un libro che contiene storie curiose”9; in secondo luogo, l’insistenza della scoperta di una lapalissiana energia trasformatrice implicita nei testi biblici, tale da sprigionare una forza che consenta la metamorfosi della persona, tramite la conversione, e della storia con la rivoluzione10; per ultimo, la capacità di porre l’accento sul contesto storico- sociale del messaggio per poter meglio comprendere, alla luce di una concretezza tangibile, lo svolgimento dell’azione liberatrice11.
Ma ciò che potrebbe essere posizionato al vertice di una riflessione di questo tipo è, senza ombra di dubbio, la vicenda storica di Gesù, considerata dai teologi della liberazione il momento apicale dell’azione liberatrice12, un carpintero, un uomo tra gli uomini, el Libertador universal o Liberador-Salvador del popolo al quale anche Lui è appartenuto.
Nonostante gli evangelisti, nel Nuovo Testamento, abbiano presentato una delle figure più controverse mai esistite in maniera eterogenea o, comunque, personale e soggettiva, essi non hanno mai smentito o sottovalutato la funzione liberatrice della sua attività.
Mentre Marco lo fa già all’inizio del suo Vangelo con poche parole13, Matteo lo riprende a grandi linee, destinando il suo messaggio soprattutto ai poveri, coloro che sono e che vogliono essere cristiani, i portatori della sapienza di Gesù che libera14.
Ma è soprattutto Luca a dare maggiori spiegazioni, riportando, con l’ausilio di un testo noto come ‘il giubileo di Isaia’, il programma del Cristo, mostrando come quest’ultimo non abbia altra priorità se non quella di rendere i poveri, per il solo fatto di esistere, destinatari e segno dell’urgenza del suo aiuto e della sua liberazione15.
D’altronde, lo stesso Luca ha già piuttosto chiara, nell’età in cui scrive, la divisione sociale che attraversa la comunità in cui vive: nei confronti di questa dicotomia ricco-povero, egli presenta la duplice prospettiva della comunione dei beni, affinché nessuno abbia a penare per la mancanza del necessario, e della distribuzione effettiva degli stessi, che verrà realizzata seguendo i dettami della giustizia16.
L’evangelista, poi, ha rivolto ai ricchi varie minacce17, non per il comportamento tenuto, ma per il solo fatto di essere abbienti, nonché varie parabole18, con le quali egli ha esortato a ben guardarsi dalla ricchezza, il cui unico corretto uso sembra essere la beneficenza.
Invece, il Vangelo di Giovanni ritrae il contesto della lotta dei cristiani contro l’imperialismo romano, per cui è la rivelazione della verità che libera dal dominio e dalla persecuzione.
Al di là di quello che di Gesù Cristo hanno detto i quattro evangelisti, pare indubbio che la finalità della sua azione sia andata sempre nella direzione dei poveri, dei sofferenti, degli indemoniati e dei peccatori, considerati tutti “primicias de un pueblo humilde y pobre”19: se vista in una prospettiva profetica, la sola esistenza del mondo dei poveri fa sì che essi siano i veri destinatari dell’urgenza della liberazione; rispetto ai sofferenti, agli afflitti ed agli indemoniati Egli ha sempre mostrato la sua aura guaritrice, mentre ai peccatori ha rimesso i peccati perché potessero inserirsi nella nuova vita del popolo liberato.
Il Nuovo Testamento, nel quale ricorrono o si suppongono numerosi elementi dell’Antico, presenta un vocabolario molto vario20, ma nel quale non è difficile incontrare richieste di liberazione21, per raggiungere la quale non è necessario operare un cambiamento nella propria condizione politica e sociale ma, come ci ricorda la Lettera a Filemone, la nuova libertà deve avere obbligatoriamente delle ripercussioni evidenti sul piano sociale22.
Nella Lettera di Giacomo viene vituperata e rimproverata la società che, mentre tratta i ricchi in base alla reputazione della quale godono, assegna ai poveri un posto poco dignitoso23.
Per cui, la filantropia acquista una novella importanza: la humanitas Dei e la humanitas hominis, associate al concetto di giustizia –inteso in senso paolino come dikaiosýne theû– costituiscono il necessario viatico per lo schieramento dalla parte dei poveri e degli emarginati della comunità tutta.
Ma la liberazione della quale si discorre nel Nuovo Testamento è soprattutto intimamente associata al messaggio della giustificazione, perché un’analisi di quest’ultima “muestra que el hombre está sometido a poderes malignos”24, per cui non potrà mai riuscire ad ottenere una veritiera libertà, a meno che non intervenga una liberazione tale da permettergli di salvarlo dalla morte o anche solo dalla caducità corporale.
Anche le Lettere di San Paolo presentano la centralità della libertà quando si sottolinea che essa crea la vita del popolo nuovo25 o quando, ricordando la stato di schiavitù di giudei e pagani, si afferma che tutti hanno il diritto di essere liberati26.
Ma uno studio articolato riguardante il concetto biblico di libertà e liberazione, che spesso troviamo sostituito da quello di redenzione, deve –secondo Sabugal– necessariamente partire dalle origini del messaggio biblico, cioè dal Vecchio Testamento e dal suo vocabolario27, soprattutto dall’Esodo.
Di questo Libro si deve considerare con particolare attenzione la significatività dell’episodio della liberazione dalla dominazione straniera e dalla schiavitù da parte di Dio, realizzata per favorire la nascita del popolo eletto e del culto dell’Alleanza celebrato sul Monte Sinai28.
I membri di questa comunità sono designati a vivere come fratelli, senza differenze né dominatori, in una società fondata sul raggiungimento di una solidarietà dinamica e laboriosa e sulla liberazione dai rapporti di dominio.
L’uscita dall’Egitto del popolo di Yahvé può essere davvero considerato l’accadimento principale di salvezza, nel quale “son numerosos los matices redentores”29, perché “cuando libra al pueblo de Israel de la opresión, Dios exige de él que se prohíba toda forma de opresión a los hombres”30, arrivando alla conclusione che “Dios quiere ser adorado por hombres libres”31.
Dunque, l’Esodo costituirebbe quasi il filo conduttore dell’ermeneutica della liberazione nel Vecchio Testamento, il centro e la base della memoria dei poveri, nonché l’esperienza fondante della vita di un popolo libero.
A questo episodio si fa spesso riferimento, come quando, dopo la rovina di Gerusalemme e l’esilio di Babilonia, si vive nella speranza di una nuova liberazione, questa volta definitiva: le angustie e le miserie sperimentate dall’uomo fedele a Dio tessono la trama di molti salmi, per cui lamentazioni e richieste di soccorso per un’agognata liberazione diventano quasi continue.
Tra i protagonisti della realizzazione di questa liberazione possiamo annoverare, innanzitutto, Mosè32, che per primo ha fatto l’esperienza della liberazione quando, abbandonato lattante sulle acque del Nilo, fu salvato da morte certa dalla figlia del faraone33; la sua vocazione come liberatore degli Ebrei appare nella Bibbia come l’assenziente risposta di Dio alle suppliche del suo popolo oppresso; il passaggio del mare dei Giunchi da parte dei fuggitivi34 segna il punto di non ritorno nell’epopea della liberazione. La difficile prova che il Signore Dio gli ha dato l’onere di affrontare dimostra che, per quanto faticosa da portare a termine, la liberazione trova sempre la sua giustificazione nella volontà di un disegno superiore35.
Il cammino di liberazione, tuttavia, raggiunge il suo momento apicale nella seconda parte dell’Esodo, quella cioè che inizia con la teofania agli israeliti ai piedi del monte Sinai e la rivelazione del modo in cui è possibile raggiungere la piena libertà, vista come un dono perpetuo concesso agli uomini e del quale ci si priva soltanto contravvenendo alle regole racchiuse nell’alleanza.
Nel Libro dei Giudici si racconta, invece, la storia di taluni personaggi –Otniel, Eud, Samgar, Debora, Barak e Gedeone– i quali, diventando capi-tribù in momenti di particolari complicazioni sociali, offrono la loro stessa vita pur di salvare il proprio popolo da minacciosi agguati forestieri: si pensi al sacrificio di Debora e Barak nel prepararsi a dar battaglia a Sisara36 o a quello di Gedeone, povero contadino israelita, chiamato da Dio ad incitare il popolo alla riscossa, prendendo le armi contro i Madianiti37.
Il Libro dei Proverbi rivela “un interesse speciale per la vedova, l’orfano e soprattutto per il povero”38, ma la storia di Israele entra in una nuova stagione con Samuele, il profeta dei tempi nuovi e della speranza, colui che ha fatto sì che “las condiciones de una sociedad tribal se cambian en las de una sociedad nacional”39, intercedendo presso Yahvé a favore del suo popolo. Proprio i profeti, infatti, si sono resi interlocutori presso Israele delle esigenze dell’alleanza, la cui legge è contraria alle ingiustizie perpetrate contro i poveri.
Il concetto di “giustizia” –mišpat– non simboleggiato dalla classica rappresentazione della bilancia ma da un torrente impetuoso40, assume un significato nuovo e più pregnante e una dimensione teologica prima sconosciuta: diventa un impulso dinamico, un principio di vita, una forza vitale, non semplice norma, ma una sfida provocante e una spinta irrefrenabile.
Oltre ad Elia ed Eliseo che –secondo Eusebio Hernando– hanno passato tutta la loro vita nella fattiva speranza di poter liberare la patria dall’oppressione dei re propri e di quelli stranieri41, Amos e Osea, invece, si presentano come la voce di coloro che non ne hanno.
In particolare, Osea ha rimproverato ai suoi contemporanei la mancanza di solidarietà, mentre Amos ha deplorato l’accaparramento di beni da parte di pochi che, per tutta risposta, hanno reso i poveri vittime di oppressione. Oltre ad essere stati considerati dei profeti pessimisti anche dai propri contemporanei, essi hanno sempre cercato di salvaguardare l’indipendenza e la libertà politiche del popolo di Dio, lottando contro l’ingiustizia, la violenza e l’idolatria42.
Il primo Isaia o Protoisaia viene, a buona ragione, dipinto come uno dei profeti più completi ed autentici43; considerato l’autore del concetto biblico di fede, egli è riuscito ad annunziare al suo popolo un futuro escatologico, messianico, di pace universale e a prendere anche una posizione netta nei confronti dei problemi del suo tempo.
Con il loro nuovo modo di parlare di liberazione, Geremia ed Ezechiele sono i profeti dell’oppressione e dell’esilio. Il loro è stato l’ultimo, anche se non fruttuoso sforzo, per mantenere il popolo nell’esistenza politica e per salvarlo dalla rovina totale e definitiva44.
Sarebbe, inoltre, più che opportuno citare due profeti che, sebbene anonimi, si sono distinti nel loro anelito di liberazione del popolo eletto: parliamo del Secondo Isaia o Deuteroisaia e del Terzo Isaia Tritoiasia, i quali “se insertaron en el movimiento liberador de su pueblo para conseguir una sociedad nueva, más fraterna y justa”45.
Rispetto ai centocinquanta salmi, possiamo notare che “cuando hablan de miserias y de lamentaciones, de socorros y de acción de gracias, se expresan en fórmulas de plegaria que mencionan la salvación religiosa y la ‘liberación’”46, registrando che “a la estrechez no se la identifica con una condición social de miseria, sino incluso a la enemistad, a la injusticia, a la falta, como igualmente a lo que a ella nos conduce: la muerte amenazadora y el vacío que representa”47.
Tra i salmi più significativi si potrebbe ricordare il numero 22 (21), nel quale il compositore, chiedendo al Signore perché l’abbia abbandonato, lo esorta a salvarlo e a liberarlo dagli ingiusti oppressori48.
Dunque, la lettura che la teologia della liberazione ha fatto del testo sacro per eccellenza è “esistenziale e storica: nel senso che alla Parola di Dio si pongono delle domande a partire dalla pratica cristiana quotidiana”49. La teologia della liberazione ha tratto da tale lettura tutto l’insegnamento sulla giustizia, sulla difesa dell’emarginato, sullo sfruttamento del povero e dell’umile.
L’interpretazione che ne è risultata ha viaggiato parallelamente alla direzione nella quale i testi biblici furono scritti, cioè –come ha affermato Leonardo Boff– “nella prospettiva di un popolo povero, quasi sempre dominato da potenze straniere e desideroso di liberazione integrale”50. Ed anche se ai più il povero potrebbe sembrare oziante nella sua dolce inazione, si risponde spesso che egli è costretto alla pigrizia ed alla penuria non per dolo proprio ma per volontà altrui.
Anche la Dottrina Sociale della Chiesa ha mostrato una grande attenzione nei riguardi di questo argomento, mantenendo verso esso “un rapporto aperto e positivo”51.
Questo corpus dottrinale che si interessa di temi di spessore sociale ha insistito sull’assunto che esso è “parola che libera”52, cioè che “ha efficacia di verità e di grazia dello Spirito di Dio, che penetra i cuori, disponendoli a coltivare pensieri e progetti di amore, di giustizia, di libertà e di pace”53 ed il cui intento morale è quello di realizzare una “liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo”54.
Il compito che è stato affidato alla Dottrina Sociale della Chiesa da un disegno superiore non entra in questioni tecniche e non istituisce né propone sistemi o modelli di organizzazione sociale, ma punta all’assistenza dell’uomo nel suo cammino di liberazione. Quest’aiuto, però, deve essere corroborato da un sentimento generale di voglia di libertà, agevolato, appunto, dalla pastorale sociale, espressione del ministero di evangelizzazione sociale che deve stimolare l’integrale promozione dell’uomo mediante la prassi di liberazione cristiana.
Verso la fine dell’Ottocento, gli strascichi della Rivoluzione industriale cominciarono a porre dolorosi problemi di natura sociale, primo fra tutti la questione operaia, nata dall’urto tra capitale e lavoro. Fu a questo punto che le istituzioni ecclesiastiche avvertirono la necessità di intervenire in maniera chiara e decisa con allocuzioni che, sebbene prive di perentorietà, hanno da sempre costituito un monito per il fedele più osservante.
La prima enciclica sociale fu la Rerum novarum di Leone XIII che, vituperando le condizioni nelle quali versava larga parte della classe operaia dell’epoca, costretta ad un’insostenibile miseria, auspicava “la dottrina cattolica sul lavoro, sul diritto di proprietà, sul principio di collaborazione contrapposto alla lotta di classe come mezzo fondamentale per il cambiamento sociale, sul diritto dei deboli, sulla dignità dei poveri e sugli obblighi dei ricchi, sul perfezionamento della giustizia mediante la carità, sul diritto di avere associazioni professionali”55.
Dato che, per Leone XIII, quello sociale era un problema di fondamentale importanza, egli dedicò l’enciclica del 1891 quasi completamente all’auspicio di una futura e non lontana conciliazione delle classi e alla risoluzione delle diseguaglianze sociali.
Pio X seguirà il suo predecessore ma sarà Pio XI a confermare questa linea di pensiero quando, in occasione dei quarant’anni della Rerum novarum, ne riprenderà nella Quadrigesimo anno i contenuti, soltanto leggermente adeguati alle mutate condizioni sociali ed economiche: infatti, mentre esortava gli operai ad accettare incondizionatamente il posto che la Divina Provvidenza aveva assegnato loro, veniva colpito dalla realtà “como un torrente avasallador”56, allontanando l’idea socialista perché –come successivamente nella Divini redemptoris Pio XI ha sostenuto– “el comunismo es intrínsecamente malo, y no se puede admitir que colaboren con el comunismo en terreno alguno los que quieren salvar de la ruina la civilización cristiana”57.
Con la fine della seconda guerra mondiale58, agli inizi degli anni Sessanta, il Papa del secondo grande Concilio Vaticano, Giovanni XXIII, dispensò consigli ed ammonimenti: le encicliche Mater et magistra e Pacem in terris, seguite dalla Gaudium et spes quale primizia finale dell’assise, hanno costituito un’importante e significativa risposta della chiesa alle domande del mondo di allora.
La particolare enfasi sui diritti sociali, riscontrabile nella Mater et magistra, viene ripresa nella Pacem in terris, emanata qualche mese dopo lo scoppio della crisi dei missili a Cuba, nella quale Giovanni XXIII insisteva sul concetto di “natura”, molto criticato e variamente considerato: intendendo con esso che “tutti gli esseri umani hanno in comune qualcosa di fondamentale, una realtà esistenziale di fondo”59, egli cercò di porre l’accento sull’uguaglianza di tutti gli uomini, che hanno piena dignità e diritto ad un’esistenza normale. La nuova chiave di lettura fu, dunque, il novello riconoscimento, da parte della Chiesa cattolica tutta, dei diritti di libertà prima misconosciuti, della giustezza della rivoluzione quale risoluzione coatta dei nodi gordiani che attanagliavano le società più povere e della concessa facoltà “para contactos de orden práctico entre cristianos y marxistas”60. Come si può notare, tutti questi punti ebbero un enorme impatto soprattutto sulla situazione latinoamericana.
Il secondo grande Pontefice del Concilio Vaticano II, Paolo VI, con la Populorum progressio –la cui pubblicazione fece tanto scalpore in America Latina da indurre Dom Hélder Câmara a dire al papa che era “la più coraggiosa delle encicliche pubblicate fino ai nostri giorni”61 – insistette molto sulla discrepanza e lo squilibrio crescenti tra paesi ricchi e poveri, che alimentavano conflittualità di tali proporzioni da determinare forti reazioni popolari che potevano anche sfociare in vere e proprie agitazioni insurrezionali.
Sostenendo con un’audacia senza paragoni la necessità di eliminare i rapporti di dipendenza economica tipici del neocolonialismo, Paolo VI introdusse importanti novità sul concetto di desarrollo, inteso come integral, interpretando con questa espressione non solo il passaggio “de situaciones menos humanas a situaciones más humanas”, ma anche “la promoción del hombre en todos sus aspectos, también éticos y religiosos”62.
La Octogesima adveniens indicava i tre bivi della strada maestra, corrispondenti ai momenti della produzione teologico-liberatrice proposti dai fratelli Boff, che avrebbero permesso al terzo mondo una chiara presa di coscienza della propria condizione63, ma fu soprattutto con la Evangelii nuntiandi che Papa Montini, oltre ad adottare decisamente il termine ‘liberazione’ e a spiegarne il significato64, ci tenne a precisare che la Chiesa aveva il dovere di annunciare la liberazione di milioni di essere umani e di fomentarla, dandone allo stesso tempo testimonianza.
3. La semantica della liberazione.
L’analisi eziologica della “Teologia della Liberazione”65 sembra essere necessaria a questo punto: infatti, i due sostantivi che compongono l’espressione possiedono un significato specifico ma, integrati l’uno all’altro, finiscono per chiarirlo e, insieme, completarlo.
Ad una prima e superficiale analisi, appare piuttosto evidente che il termine precristiano theologia lascia minor adito ad eterogenee interpretazioni: le radici greche, infatti, non tradiscono l’agevolezza del compito, per cui, affermando che si tratta di qualsiasi dissertazione, discorso o predica che abbia ad oggetto Dio o le cose divine, già si ha un’indicazione dell’oggetto in esame, pur generica e parziale.
Jean-Yves Lacoste ha considerato le Scritture già intimamente fonte di teologia, termine estremamente variegato, usato per “rendere ragione della fede cristiana, parlare con coerenza del Dio al quale le Scritture rendono testimonianza, o parlare di tutte le cose riferendole a Dio, sub ratione Dei”66.
Secondo il ‘padre della Teologia della Liberazione’, Gustavo Gutiérrez Merino, la teologia è la inteligencia de la fe, non cioè una mera accettazione di verità non provate e di certezze non dimostrate, ma la “percepción del sentido de la existencia humana a partir de la Palabra de Dios”67; quindi, “cuando hablamos de teología hablamos de la inteligencia, no de una verdad abstracta, intemporal, sino de una postura existencial, que trata de comprender y ver ese compromiso a la luz de la revelación”68.
A queste definizioni, che egli ha ritenuto sempre valide, ha contrapposto la considerazione secondo la quale la teologia abbia subito, nel corso dei secoli, un’evoluzione che, pur non dismettendo le classiche funzioni di incarnazione di sabiduría69, da un lato, e di saber racional70, dall’altro, l’ha portata a privilegiare la riflessione critica sulla prassi, considerata non solo il punto di partenza ma anche il contesto stesso delle altre due funzioni teologiche.
Secondo questa interpretazione, “la teologia viene después, è atto secondo”71, gerarchicamente subordinata alla prassi, all’impegno di carità e di servizio, all’opzione per i poveri, alle scienze umane e sociali e all’esperienza religiosa; è una teologia che “no nace en las celdas monacales ni en los claustros universitarios, sino en medio de la acción histórica. Surge de la praxis de un pueblo cristiano que lucha por decir su propia palabra y ser sujeto de su propia historia”72.
La prassi, intesa come “pratica sociale”, non esterna ma dotata di certi ed indiscutibili normatività e criteri, non deve essere considerata una componente accidentale, ma fondante della produzione teologica, “nel senso che gli enunciati ed i discorsi che essi suscitano hanno pieno significato solo con l’incarnazione della fede nella comunità, e non per l’elaborazione razionale di una fede-oggetto”73.
Concepita normalmente come discernimento della Parola di Dio, dunque, la teologia deve essere articolata non più a partire dai testi della Scrittura e dei dogmi, ma dalla fede realmente vissuta nella comunità cristiana e dagli interrogativi ancora oggi suscitati: si è avuta, così, la maturazione di una teologia induttiva invece che deduttiva, a patto, però, che “la prassi non venga considerata la sola capace di tenere un discorso sulla fede, e che la teologia deduttiva non venga relegata al ruolo di ideologia e mantenga la sua capacità di concettualizzazione”74.
Ci riferiamo, dunque, ad una teologia diversa da quella europea perché –secondo Lehmann– il prospero vecchio continente presenta delle problematiche distinte da quelle della meno fortunata società latinoamericana, giungendo addirittura a “exigir una teología totalmente distinta”75 che, oltre ad accertare lo stato di dipendenza e ingiustizia sociale, “traduce esto en categorías específicamente cristianas”76.
È una teologia specificamente latinoamericana, “no en el sentido de que rompa de alguna manera con la catolicidad de toda auténtica teología. Ni en el sentido que esta teología sirva solo para América Latina […]. Más bien en el sentido de una teología elaborada “desde” las Iglesias de América Latina, que viven una realidad pastoral común original”77.
La teologia della liberazione potrebbe essere, dunque, inserita all’interno del ramo della ‘Teologia pastorale’, il cui punto di partenza è “la vida de la Iglesia, la acción pastoral, el compromiso de los cristianos, la realidad humana en la cual la Iglesia ejerce su misión”78, e proprio perché la vita e la prassi della Chiesa costituiscono la base sulla quale riflettere sul messaggio di Cristo, “la acción pastoral y la praxis cristiana es el ‘acto primero’, y la reflexión teológica el ‘acto segundo’, que ilumina y reorienta la acción”79.
Secondo Joseph Comblin, la teologia genericamente intesa presenta, come caratteri piuttosto pronunciati, episodi di debolezza e forza al contempo, in una spirale che, per quanto paradossale, ricostruisce un hilo histórico coerente; da “povero discorso che non osa confessare la sua povertà, un discorso goffo che non deve più cercare di apparire più scaltro di quanto non sia”80, lontano dal rappresentare una “super-scienza”, quanto una «infra- scienza sempre in ritardo rispetto alle discipline dei cui elementi si serve in modo tanto malaccorto”81, per niente disinteressata e “nel migliore dei casi [la teologia] non rappresenterà che un approccio assai approssimativo a Dio”82, Comblin passa a considerarla fondamentale, se è una vera teologia, perché “una teologia vera è una teologia che si pone al servizio della carità vissuta e attiva. Non una teologia che si pretende al servizio, ma che lo è realmente”83.
Juan Carlos Scannone parla di “una nuova impostazione globale del lavoro teologico, cioè di una nuova prospettiva, collocata in un determinato kairós della storia della salvezza del nostro continente [che] non solo riflette alla luce della parola sulla prassi di liberazione, ma reinterpreta anche, partendo da quest’ultima, le ricchezze della fede che è, essa stessa, prassi”84.
Molto più complesso appare, invece, formulare una definizione univoca e completa del termine ‘liberazione’. Infatti, nel significato comune, intendiamo notoriamente l’atto o il fatto di liberare qualcuno o qualcosa o noi stessi da un vincolo o obbligo, da un male o da una soggezione che ci opprime; “implica una situación previa de sujeción, esclavitud o aherrojamiento”85, quindi la liberazione consiste nel procedimento mediante il quale si passa da uno stato di dipendenza o costrizione ad uno di libertà e autonomia.
Ma questa definizione che generalmente si dà del termine deve trovare –a giudizio di José Martín Palma– una maggiore specificazione perché la parola “liberación no es un término que se pueda dar de suyo por sabido. Se define por relación a aquello respecto de lo cual alguien o algo queda suelto o desatado”86.
Secondo la tradizione cristiana, il frequente utilizzo della parola ‘liberazione’ funge da indicatore del tema principale del messaggio evangelico, quello della salvezza, e questi due sostantivi sono legati quasi da un filo indissolubile tanto da corrispondersi sovente, se utilizzati in senso storico e concreto, anche se spesso l’uno indica l’aspetto negativo e l’altro quello positivo87.
Da un punto di vista teologico, però, il linguaggio della ‘liberazione’ costituisce una novità, comportando “uno spostamento dell’asse semantico della parola ‘libertà’ e un recupero della forza storico-semantica del linguaggio biblico”88: mentre il primo termine “resulta abstracto, estático e individualista”, il secondo “denota un proceso histórico de carácter dinámico y social”89.
Così inteso, questo nuovo codice lessicale finisce con l’acquisire una trinità di valori solo apparentemente inconfondibili, ma facenti parte di un unicum piuttosto complesso ed in continua evoluzione: la prima partizione investe il livello socio-politico, dunque la liberazione degli oppressi, delle “classi sfruttate, razze emarginate, culture disprezzate”90; la seconda il livello antropologico, con una forte spinta alla creazione di un uomo nuovo inserito in una società sostanzialmente diversa; la terza quello teologico tout court, agevolando l’emancipazione dal peccato, fonte originaria di ingiustizia e oppressione.
Secondo Gustavo Gutiérrez, invece, la liberazione appare come un processo unitario, ma “di un’unità complessa che assume tutto il significato e le implicazioni della lotta politica per una società più giusta, che fa proprio il carattere di conquista storica, espressione dell’esercizio autentico della libertà umana […]”91.
Dello stesso avviso è Leonardo Boff, il quale vede nel processo globale della liberazione “una simultaneidad dialéctica”, che “abarca las instancias económicas (liberación de la pobreza real), políticas (liberación de las opresiones sociales y gestación de un hombre nuevo) y religiosa (liberación del pecado, recreación del hombre y su total realización en Dios)”92.
Quindi, se è vero –come sostengono Illanes e Rodríguez– che “toda liberación es, en efecto, función de una libertad a adquirir”93, quasi valore dell’idea di libertà, è altrettanto vero che la parola in questione è suscettibile della stessa ampiezza di significati che può abbracciare la voce dalla quale deriva.
Quel che è certo è che stiamo parlando di una “liber-azione”, cioè di una “azione che libera”94 che ha trovato i suoi albori nel momento in cui la fede si è confrontata con l’ingiustizia perpetrata nei confronti dei più poveri e disagiati e che è diventata –come sostiene Juan Carlos Scannone– una delle parole-chiave del nostro tempo “porque condensa gran parte de las aspiraciones del hombre contemporáneo, especialmente en el tercer mundo”95.
La centralità di questo concetto e la forza prorompente che ne consegue fanno sì che esso diventi “una palabra flamígera que hiere y quema. Que muestra la disegualdad anticristiana y la injusticia de una sociedad donde nos ha tocado vivir –sobre todo en los pueblos subdesarrollados, sin excluir a los otros–, que incita a la conquista de una libertad integral en el plano político, social, psicológico y colectivo”96.
Nondimeno, la liberazione tanto agognata dall’uomo reclama non solo lo scioglimento da un giogo che lo condiziona dall’esterno, che gli impedisce di realizzarsi in quanto membro di una classe sociale, di un paese o di una società determinati, quanto piuttosto un affrancamento interiore, psicologico, inteso non come un’evasione ideologica dallo scontro sociale, come l’interiorizzazione di una situazione di schiavitù, ma con riferimento reale al mondo della psiche umana97.
E proprio perché la realizzazione di questa dicotomia appare, per ovvie motivazioni, un compito arduo, considerando la iterata difficoltà di inserire la liberazione psicologica nel piano storico, Gutiérrez non ne sostiene la disgiunzione, quanto piuttosto l’omogeneità perché “l’alienazione e lo sfruttamento, così come la stessa lotta per la liberazione da questa situazione, hanno delle incidenze sul piano psicologico e personale che sarebbe grave trascurare in un processo per la costruzione di una società e di un uomo nuovi”98.
Sarà compito dei teologi del continente latinoamericano, coloro cioè che, in un certo qual senso, hanno vissuto sulla loro pelle la dialettica dominazione-dipendenza, far sì che “la figura del hombre latinoamericano […] que está actualmente todavía borrosa, manchada, deformada o, quizá, vuelta al revés como consecuencia de siglos de opresión”99 risulti inserita all’interno di questo nuovo tipo di teologia “la cual no se contenta con revisar alguna que otra cuestión, sino que, poniendo en cuestión la totalidad del planteamiento teológico precedente, inaugura un modo nuevo de reflexionar sobre el mensaje cristiano y de establecer sus conexiones con la historia real, aquélla en que los hombres se ven envueltos cada día”100. E non potrebbe essere diversamente dato che questi ultimi, siano essi nativi o trapiantati in terra sudamericana, vivendo la teologia “liberacionísticamente”, si trovano nella condizione più favorevole “para experimentar en la propia persona el alcance de la liberación que proponen para los demás”101.
In Sudamerica, dunque, il raggiungimento della meta della liberazione è stato agognato come presupposto “dello scarto tra l’esperienza della soggezione e la possibilità della libertà, tra le condizioni dell’essere e quelle del dover essere del continente”102, nonché marcato dalla decisa consapevolezza della dominazione e dello sfruttamento, da una parte, e da un chimerico anelito di libertà dall’altra, facendo della liberazione “una ideologia totale pervasiva e penetrante, potremmo dire quasi uno stato psicologico diffuso”103 e, insistendo sul fatto che, essendo “provocada desde su misma historia y desde sus mismos compromisos, es decir desde su misma praxis”104, si presenta meglio articolata come una teologia specificamente latinoamericana.
Proprio in considerazione di questo manifesto connotato, Gabriele Tomei ha individuato ben cinque differenti articolazioni sudamericane dell’idea di liberazione.
La prima è quella intesa come ‘resistenza’ all’invasione e al dominio: pensiamo all’approdo di spagnoli e portoghesi nelle terre sudamericane che, se da una parte, ha contribuito alla nascita ed alla diffusione della conoscenza di nuove culture, dall’altra ha significato l’imposizione di proprie leggi, usi e costumi, con la conseguente coatta rinuncia, da parte dei nativi, alla propria cultura e formazione pregresse, dunque alla propria identità etnica. La lotta e la fuga divennero, a quel punto, la valvola di sfogo unica per concretare, con un’azione congiunta e controllata, la libertà propria e quella degli altri, unitamente alla fondazione di una nuova società105.
La seconda articolazione, cioè quella della ‘denuncia’, insiste sull’accusa indirizzata ai conquistatori di aver agito in maniera spregiudicata, perpetrando ingiustizie che avrebbero avuto conseguenze nei secoli successivi. C’è da dire, però, che, in seguito alla delega fatta dalla Chiesa cattolica a colonizzatori e futuri regnanti di rendersi responsabili della vita spirituale delle genti sottomesse, molti ecclesiastici avrebbero preso le parti dei meno fortunati, ‘denunciando’ appunto l’uccisione indiscriminata di molti nativi direttamente alla Corona spagnola e ricevendo, per questa motivazione, scomuniche e censure106.
L’idea di liberazione come ‘indipendenza’, cioè come emancipazione dai legami di tipo coloniale dalla Spagna e dal Portogallo, invece, ha cominciato a farsi strada quando la nascita di un’America del Nord libera dal giogo inglese nel 1776, l’accendersi di una rivoluzione in Francia nel 1789 e l’eco dello scoppio dei moti in Spagna e nella penisola italiana degli anni 1820-1821 persuasero gli strati più alti della popolazione, rappresentati in modo particolare dai creoli ad ingaggiare rivolte contro gli spagnoli, perché erano ormai insofferenti dei vincoli che il legame con la madrepatria poneva ai loro commerci, esacerbando, inoltre, i rapporti con le altre classi sociali107.
Il concetto di liberazione intesa come ‘civilizzazione’ attiene “ad uno sforzo di emancipazione dal meticciato”108, cioè alla concretizzazione di legami di simpatia sociale con il progresso del vecchio continente, che avrebbero incoraggiato l’affinamento culturale della società e delle istituzioni indigene e “l’uscita definitiva dalla barbarie feudale”109.
L’ultima, ma non meno importante, articolazione che presenta Tomei è quella che compara l’idea di liberazione a quella di ‘rivoluzione’, una parola per niente sconosciuta al panorama sudamericano che ha permeato di sé, e in maniera piuttosto continuativa, la sua storia.
A partire dalla rivolta zapatista del 1917 a quella castrista degli anni Sessanta fino alle lotte di liberazione nazionale centroamericane degli anni Ottanta e Novanta, possiamo sostenere che negli ultimi decenni liberazione ha significato rivoluzione in gran parte dell’America Latina.
La Teologia della Liberazione è una vera e propria missione, che consiste nel seguire non una teología de moda, ma “una teología que se aplica a un fenómeno nuevo, como es la lucha revolucionaria de nuestros días”110, stando “insieme agli esclusi del continente, la cui povertà non è una situazione naturale ma il prodotto di un crudele sistema sociale; insieme a quegli strati sociali totalmente depauperati dal sistema; insieme alle culture disprezzate e agli indigeni autoctoni discriminati”111.
Secondo Küng e Regidor, per la realizzazione dei suoi obiettivi questa vocazione necessiterebbe del supporto di una teologia che, oltre al fatto di “pensare a come non tradire Dio e la sua bontà, rispondendo alle necessità di quanti vivono in situazioni disumane o subumane”112, deve anche e soprattutto evitare di essere “una vaga ‘teologia della liberazione’, ma una ‘Teologia della Liberazione’, con un programma di grande profondità spirituale e radicalmente evangelica”113.
Essi, inoltre, sostenendo che il percorso che occorre seguire è quello che segna il limes tra mistica e politica, auspicano che la Chiesa stessa opti per un cambiamento radicale, non ostacolando il fatto che “i cristiani –siano essi lavoratori, sacerdoti o vescovi– si inseriscano sempre più nel processo di liberazione”114, pur ammettendo che spesso questo crea confusione, tentennamenti ed errori.
Questo continuo rinviare a una duplice direzione, elogiare i concetti fondanti e, allo stesso tempo, accettarne la difficoltà di azione, non ha mai impedito ai proseliti più convinti di sostenere a gran voce che la teologia che essi hanno propugnato “ha sido siempre necesaria”115 e che continuerà a esserlo, per lo meno fino a quando soggetti con situazioni economiche, culturali, sociali e politiche differenti seguiteranno ad essere considerati, appunto, diversi e fino a quando alcune classi di uomini sperimenteranno la esclavitud e la irrealización personal.
4. Conclusioni.
Concludendo, sia la Dottrina Sociale della Chiesa, sia l’analisi del vocabolario testamentario e lo studio etimologico del concetto “Teologia della Liberazione” fanno scaturire il molteplice aspetto della tematica liberazionista latinoamericana, che non si può né ridurre a un comune denominatore né evitare che le sue sfumature si intersechino abbondantemente.
La Bibbia, in particolare, riveste un significato più ampio di quanto si possa facilmente supporre: infatti, essa “non verte su un settore non storico dell’uomo ma sul modo di entrare in rapporto con gli altri e con la natura: essa lo basa sul modo di fare la storia, tocca la responsabilità storica dell’uomo”116.
E proprio per questa non insignificante motivazione, Sean Freyne ha insistito sul fatto concreto dell’impossibilità di uniformare l’esegesi biblica, data la composita varietà delle interpretazioni possibili, derivante da una miriade di esperienze personali117.
Il ricettore di tale messaggio non è, però, solo il saggio o l’acculturato, quanto piuttosto l’uomo semplice che, unendosi ai suoi fratelli più fortunati o semplicemente più furbi, deve lottare per la creazione di una società libera, in cui i rapporti tra uomo e natura non sono più il campo chiuso di lotte fratricide e in cui gli uomini fabbricano le armi che permettono di dominare sul proprio simile118.
Sembra, a questo punto, molto difficile operare una scelta di campo, sostenendo che l’aspetto religioso supera quello socio-politico o viceversa e in che percentuale: sicuramente queste componenti sono presenti ed anche in maniera piuttosto evidente e sono richieste entrambe per auspicare il raggiungimento di “una liberación integral: de todo el Pueblo, del hombre total”119.
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Notas