Ciencias Políticas
Dallo Stato liberale allo Stato fascista: la progressiva trasformazione della rappresentanza politica tra antiparlamentarismo e corporativismo
DEL ESTADO LIBERAL AL ESTADO FASCISTA: LA PROGRESIVA TRANSFORMACIÓN DE LA REPRESENTACIÓN POLÍTICA ENTRE EL ANTIPARLAMENTARISMO Y EL CORPORATIVISMO
Ciencia Nueva, revista de Historia y Política
Universidad Tecnológica de Pereira, Colombia
ISSN-e: 2539-2662
Periodicity: Semestral
vol. 2, no. 2, 2018
Received: 07 April 2018
Revised: 02 June 2018
Accepted: 09 September 2018
Published: 23 November 2018
Resumen: En Italia, a finales de la primera guerra mundial, la Cámara electiva estuvo afectada por una profunda transformación debida a la reforma electoral de 1919 y a la consiguiente entrada de los partidos de masas en los equilibrios político-institucionales. La clase dirigente liberal, tradicionalmente acostumbrada a la circunscripción uninominal, quedó perjudicada y totalmente desplazada a la hora de constituir los gobiernos. En esos trances, gracias también a la fusión del movimiento de los Fasci di combattimento con el Partido nacionalista, Mussolini logró granjearse cierta confianza en el ámbito político de los liberales que llamaríamos “históricos” tanto de derecha como de izquierda, y sobre todo por parte del Soberano. La alimentada ambigüedad en algunas cuestiones constitucionales –sobre todo en la primera fase de su gobierno– le permitieron construir sin oposiciones un régimen político que, rápidamente, desembocó en el autoritarismo en particular tras la primera reforma electoral y el delito Matteotti. El Parlamento –sobre todo la Cámara electiva– fue el órgano más afectado por las reformas electorales fascistas (1924, 1928, 1939), que lo cambiaron completamente, introduciendo una nueva forma de representación política, el corporativismo, que reemplazaba la representación individual, alterando la naturaleza profunda del Estado liberal.
Palabras clave: Fascismo, Antiparlamentarismo, Leyes electorales, Estado liberal, Corporativismo.
Sommario: In Italia, alla fine del primo conflitto mondiale la Camera elettiva subì una profonda trasformazione dovuta alla riforma elettorale del 1919 e al conseguente avvento dei partiti di massa negli equilibri politico-istituzionali. La classe dirigente liberale, tradizionalmente abituata al collegio uninominale si trovò così ridimensionata e totalmente spiazzata nella costituzione dei governi. In questo contesto Mussolini, grazie anche alla fusione del Movimento dei fasci di combattimento con il Partito nazionalista, riuscì a conquistarsi una certa fiducia nell’ambiente politico dei liberali, per dir così, “storici” sia di destra che di sinistra e soprattutto presso il Sovrano. L’ambiguità coltivata su alcuni nodi costituzionali, soprattutto durante la prima fase del suo governo, poi gli consentirono di agire in maniera indisturbata nella costruzione di un regime politico che rapidamente scivolava verso l’autoritarismo soprattutto dopo la prima riforma elettorale e il delitto Matteotti. Il Parlamento e soprattutto la Camera elettiva, fu sicuramente l’organo più colpito dalle riforme elettorali fasciste (1924, 1928, 1939), che lo trasformarono radicalmente, introducendo una nuova forma di rappresentanza politica, il corporativismo che sostituiva la rappresentanza individuale, alterando così la natura profonda dello Stato liberale.
Parole: Fascismo, Antiparlamentarismo, Leggi elettorali, Stato liberale, Corporativismo.
1.) Le premesse
All’inizio degli anni Venti del secolo XX la vecchia classe politica liberale italiana e la maggior parte della giuspubblicistica avevano ravvisato nel fascismo un possibile strumento, sia pure transitorio, di restaurazione dell’autorità dello Stato liberale di diritto che era uscito particolarmente scosso e trasformato dagli eventi immediatamente successivi alla fine del primo conflitto mondiale2.
Il nuovo sistema elettorale - quello proporzionale introdotto nel 1919 - insieme al nuovo regolamento parlamentare che ne seguì -con l’eliminazione dei vecchi uffici composti da deputati estratti a sorte in favore della istituzione delle commissioni composte da membri designati dai gruppi parlamentari- avevano profondamente trasformato la natura e la funzione se non dell’intero Parlamento, almeno della Camera elettiva e del rapporto di questa con il Governo. I partiti politici caratterizzati da programmi e strutture rigide, si ponevano in un rapporto alternativo, antagonistico più che dialettico con lo Stato, spingendo appunto sia alcuni politici liberali che la maggior parte dei giuristi a puntare sul fascismo, percepito inizialmente come forza politica malleabile e poco strutturata e pertanto incline a rafforzare la governabilità della vecchia classe dirigente incapace di arginare il ruolo dei partiti e l’instabilità politica. Il terreno di intesa tra le due culture politiche, altrimenti incompatibili, era per un verso l’antipartitocrazia e per un altro l’antiparlamentarismo.
L’antipartitocrazia, d’altra parte, rappresentava uno degli aspetti del vario e composito antiparlamentarismo che attraversava una consistente fetta della cultura politica e giuridica italiana e nel solco del quale si inseriva anche il fascismo della prima ora3. Ed è proprio dall’antiparlamentarismo che vale la pena iniziare per cercare di ricostruire il complesso, quanto farraginoso e caotico sviluppo politico-istituzionale e costituzionale del regime. E’ infatti lo storico Aquarone, autore di una non ancora superata storia istituzionale del fascismo, che afferma sin dalle prime pagine del suo lavoro, che uno dei punti programmatici del movimento fascista consisteva nel “ripudio del regime parlamentare liberale e [nell]’istituzione di un nuovo tipo di rappresentanza politica fondata sulle attività produttive e su di una più rigorosa selezione delle competenze”4.
In verità, come già detto, l’antiparlamentarismo era un fiume carsico che, già a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento -in linea, peraltro, con un’ampia pubblicistica che attraversava i confini nazionali- e dunque ancor prima della nascita delle ideologie nazionalistiche, si attestava su posizioni sostanzialmente liberali moderate, timorose dell’effetto che le masse abilitate al suffragio avrebbero prodotto sulla rappresentanza politica. Le critiche antiparlamentaristiche, infatti, tendevano, in estrema sintesi, a dimostrare la degenerazione dell’istituto parlamentare in seguito appunto all’irrompere delle masse sulla scena politica, ma non erano finalizzate alla critica radicale dello Stato liberale tout court e soprattutto non miravano a mettere in discussione la fondatezza del voto individuale ed uguale; non vi era, insomma, una deriva necessariamente organicistica e/o corporativa che invece inizierà a diventare dominante nel pensiero nazionalistico e poi fascista.
Basti pensare alla fortuna che ottennero le opere di Marco Minghetti (I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, 1881), di Pasquale Turiello (Governo e governati in Italia, 1882) e di Ruggero Bonghi (L’ufficio del Principe in uno Stato libero, 1893), le quali, pur non proponendo l’abbattimento del sistema parlamentare, nel denunciare i rischi della deriva parlamentaristica, di fatto appannavano gravemente l’immagine stessa del Parlamento. Così come, ben più articolata e complessa, apparve l’opera di Gaetano Mosca Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare (1884)5. Si trattava di “tutta una corrente di pensiero che, pensando di disvelare «realisticamente» i meccanismi del potere sfrondandoli delle rappresentazioni romantiche, minava alla base la rappresentanza”6. Non sembri inoltre superfluo ricordare anche il famoso Torniamo allo Statuto pubblicato nel 1897 da Sidney Sonnino il quale, sia pure nell’ottica tutta politica di recupero della interpretazione autentica a danno di quella consuetudinaria dello Statuto, che aveva trasformato la monarchia costituzionale in monarchia tendenzialmente parlamentare, di lì a qualche anno sarebbe diventato una sorta di manifesto dell’antiparlamentarismo stesso7.
All’alba del nuovo secolo, l’Italia giolittiana sembrò poi inverare tutte le storture politico-istituzionali del parlamentarismo, e di quella che era più o meno percepita dalla stampa di opposizione come la sua causa principale, il trasformismo clientelare8. Finché, nel primo dopoguerra, non si avviò un ampio dibattito teorico e politico sulla rappresentanza, stimolato proprio dall’affermazione dei partiti di massa e dalla introduzione del sistema elettorale proporzionale. Ed infatti, sino all’affermazione del fascismo, l’esigenza di “democratizzare” la forma di governo parlamentare produsse numerosi progetti, provenienti dalle diverse culture politiche presenti nel nostro paese. Il dibattito si radicalizzò tra “l’antica contesa ideologica e politica relativa ai potenziali sviluppi dell’«individualismo» e del suo contrario, cioè dell’ «organicismo»; contestualmente, vari giuristi avvertirono che pressoché tutte le ipotesi di trasformazione istituzionale agitate in quel periodo mettevano direttamente in questione le tradizionali concezioni della sovranità dello Stato e del suo esercizio”9.
Il tema della crisi dello Stato parlamentare, dunque, in una società che, proprio grazie all’esperienza della guerra, poteva definirsi oramai di massa, usciva così dalla ristretta cerchia dei costituzionalisti e degli studiosi di politica, per diventare un problema di politica militante, trovando posto nei programmi dei partiti, dei sindacati e dei movimenti politici. Tra questi, alcuni si inserivano nel solco della tradizione statutaria altri miravano ad una revisione radicale dello Statuto e del regime parlamentare10.
2.) Il fascismo delle origini e i primi anni di governo
Il Movimento dei Fasci di Combattimento, al momento della sua fondazione nel marzo del 1919, pur privo di una solida dottrina costituzionalistica e di un programma coerente, proponeva una generica riforma radicale della forma di Stato e di Governo ma sicuramente l’aspetto più esplicito del fascismo consisteva, nel presentarsi dichiaratamente come un movimento politico estremista ed antisistema. Tuttavia, in un contesto politico sostanzialmente bloccato dalla forte presenza di altri partiti antisistema (PSI e poi PCI) e del neonato partito cattolico (PPI) indisponibile ad un dialogo costruttivo con la vecchia classe dirigente liberale, nel giro di pochissimo tempo e soprattutto dopo la fusione con i nazionalisti nel 1921, il fascismo riuscì a conquistarsi un ruolo chiave nel panorama politico italiano che illuse anche Giolitti: inizialmente ancillare al blocco liberale, poi, dopo le elezioni del 1924 e con la svolta autoritaria del gennaio dell’anno successivo, assolutamente autonomo e incontrastato.
Tra il 1919 e il 1921, gli anni cioè che segnano la nascita prima del movimento fascista e poi la sua trasformazione in partito, analizzando i programmi, emergono alcune questioni interessanti in tema di rappresentanza politica e di riforma dello Stato. Il programma del ’19, infatti, fermo restando il suffragio universale (da estendersi anche alle donne) ed il sistema elettorale proporzionale, prevedeva l’abolizione del Senato e una completa riforma dello Stato elaborata da una eligenda Assemblea Nazionale, “il cui primo compito [doveva essere] quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato”11; veniva inoltre ribadita la necessità di creare i “Consigli Nazionali tecnici del lavoro, dell’industria, dei trasporti, dell’igiene sociale, delle comunicazioni ecc. eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e col diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di Ministro”12. I Consigli Nazionali, venivano proposti come istituti autonomi rispetto al Parlamento rappresentativo, dotati di un potere legislativo ad esso concorrente. Emergeva, insomma, con evidenza, l’immediata volontà di trasformare la natura della rappresentanza politica in chiave corporativistica e tecnocratica13.
La rapida metamorfosi del fascismo tra il 1920 e il 1921, che lo portò a trasformarsi da partito antisistema in partito con ambizioni di governo, coincide con una profonda rielaborazione in primo luogo strategica ma anche ideologica, dovuta non poco all’avvicinamento con i nazionalisti. Il tema dominante che accomuna le due culture politiche è proprio la critica radicale del regime parlamentare liberale, basato sulla rappresentanza politica di origine individuale, e la proposta di istituire un nuovo tipo di rappresentanza politica, che la superasse.
Infatti, nel primo Programma del PNF, quello del 1921, che sancì appunto la trasformazione del movimento in partito politico14, trova spazio la definizione degli ambiti di competenza del Parlamento, tentando una sintesi molto poco convincente tra le esigenze dell’individualismo liberale con quelle del corporativismo15. Partendo dall’assunto che lo Stato è “l’incarnazione giuridica della Nazione” -a sua volta definita come “sintesi suprema di tutti i valori materiali e immateriali della stirpe”- , leggiamo, infatti, che lo Stato deve conferire “anche alle corporazioni professionali ed economiche diritto di elettorato al corpo dei Consigli Tecnici Nazionali”, che in tal modo ricevono una legittimazione a decidere sui “problemi che si riferiscono alle varie forme di attività degli individui nella loro qualità di produttori”. Tutto ciò implicava una conseguente limitazione dei poteri e delle funzioni del Parlamento, la cui competenza specifica, risultava relativa genericamente ai “problemi che riguardano l’individuo come cittadino dello Stato e lo Stato come organo di realizzazione e di tutela dei supremi interessi nazionali”16.
Una volta giunto al Governo, Mussolini lasciava solo intravedere quali sarebbero potuti essere gli sviluppi di una effettiva applicazione del sistema e del metodo fascista. Il capo del fascismo, infatti nel cosiddetto “discorso del bivacco”17, per un verso rivendicava la potenziale natura eversiva del fascismo, ma al tempo stesso, lo presentava come uno strumento di normalizzazione del sistema politico, riuscendo in tal modo e grazie anche al governo di coalizione di cui era a capo, ad ottenere un’ampia maggioranza in quella Camera eletta nel ’21, che annoverava nelle sue fila solo 35 deputati fascisti. Inizialmente, insomma, Mussolini si muoveva con estrema cautela al fine di garantirsi l’appoggio della Corona e degli alleati di governo, interessati ad una sorta di tregua politico-istituzionale che ridimensionasse il ruolo di un Parlamento oramai fuori controllo, a vantaggio di un rafforzamento del ruolo e delle funzioni del Governo.
A riprova dell’ambiguità iniziale del fascismo sulla questione, basti leggere un breve pamphlet pubblicato nel 1924 dal giurista nazionalista Arrigo Solmi dal titolo La riforma Costituzionale, nel quale l’autore sosteneva che il riformismo fascista era diretto “a colpire l’organo, che, giunto al colmo della potenza e della degenerazione, pareva il nemico più insidioso di ogni energia di governo, la Camera dei Deputati”18. E, per raggiungere tale scopo, continuava Solmi, “fu adombrato il proposito di togliere alla Camera dei deputati il predominio fino allora tenuto sul potere esecutivo e di creare a quest’ultimo una posizione di sicurezza e di continuità”19. In sostanza, concludeva il giurista, si voleva “sostituire alla forma di governo parlamentare […] una forma meramente costituzionale, con un qualcosa di simile al Cancellierato germanico”20.
E’ su tale premessa che si inserisce il dibattito sulla riforma elettorale che approderà rapidamente all’approvazione della legge 18 novembre 1923, n. 2444. Nell’ottica sia dei liberali che dei popolari, la nuova legge elettorale avrebbe prodotto la stabilizzazione della maggioranza di governo, riducendo la deriva parlamentaristica derivata soprattutto dal sistema elettorale proporzionale. In realtà, le intenzioni fasciste erano quelle di spostare radicalmente il peso delle alleanze politiche in favore dei fascisti, liberandoli dall’obbligo di una coalizione di Governo per poi procedere senza ostacoli alla trasformazione dello Stato e della natura stessa della rappresentanza politica.
Mussolini non appena giunto al governo -dopo il fallito tentativo di far inserire le modifiche alla legge elettorale tra le materie delegate al Governo con i pieni poteri21- su delibera del neo costituito Gran Consiglio del fascismo, il 16 marzo 1923 incaricava una commissione di formulare un progetto di riforma elettorale22. Prevalse, all’interno della Commissione, la proposta Bianchi23, favorevole all’introduzione di un “premio” per la lista di maggioranza e una rappresentanza su base proporzionale per le altre liste, mentre fu scartata la proposta Farinacci orientata al ripristino del collegio uninominale24. Fu dunque la proposta Bianchi alla base del “suicidio della classe dirigente liberale”, per dirla con Sabbatucci25, ovvero della cosiddetta «legge Acerbo», dal nome del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo che ne fu l’estensore materiale. Tale legge, come è noto, attribuiva i due terzi dei seggi della Camera, alla lista che avesse ottenuto un quarto dei suffragi e distribuiva i rimanenti seggi in misura proporzionale alle altre liste26, con una evidente sproporzione tra il quorum richiesto per ottenere il premio ed il premio stesso, che falsava totalmente i risultati elettorali.
Nell’ottica fascista si trattava di una legge che, più che inscriversi nell’ambito di un quadro istituzionale definitivo e concluso, rappresentava un passaggio intermedio verso una forma di governo più autoritaria che avrebbe creato una definitiva frattura tra fascismo e Stato liberale.
Anche il dibattito sulla natura della rappresentanza politica e sulle sue conseguenti riforme, veniva ben presto superato dalle vicende fattuali della storia politica del fascismo dei primi anni al Governo. Nel senso che la velocità dei provvedimenti governativi ed il subentrare di nuovi organi non previsti nello Statuto, si ponevano in parallelo al dibattito teorico, vanificandone la fondatezza e rendendolo in qualche modo inattuale.
Lo scioglimento della Camera, le successive elezioni e la crisi Matteotti, infatti, dimostravano come la vera novità della tecnica politica del fascismo, ovvero l’utilizzo sistematico della violenza e della sopraffazione, allontanasse il sistema politico dal pluralismo faticosamente realizzatosi nello Stato liberale e dal garantismo giuridico rappresentato dallo Statuto, aprendo così la strada verso quello che Fraenkel avrebbe di lì a breve definito il “doppio Stato”27.
Le elezioni politiche del maggio 1924 -che in teoria si svolsero in un quadro ancora costituzionale, ma che Mussolini, senza troppe perifrasi, definirà successivamente “ludi elettorali”- rappresentano il vero punto di svolta verso una via nuova rispetto al precedente sistema politico-istituzionale.
I risultati delle elezioni del 6 aprile 1924 andarono ben oltre le previsioni dei fascisti: infatti il “listone” fascista ottenne una vittoria schiacciante con il 60% dei voti, tanto da rendere apparentemente ininfluente, ai fini dell’attribuzione dei seggi, il meccanismo maggioritario previsto dalla legge. Inutile ricordare che parte di quel risultato elettorale era dovuto alle intimidazioni, alle violenze e alle irregolarità che avevano accompagnato la campagna elettorale e le operazioni di voto, attribuibile a quel clima di illegalità diffusa che il deputato Giacomo Matteotti avrebbe denunciato nel suo famoso ultimo discorso tenuto alla Camera il 30 maggio.
Le elezioni del 1924, dunque, rappresentano l’inizio di una frattura sempre più incolmabile con lo Stato liberale cui peraltro le opposizioni e soprattutto la Corona sembrarono non potere o non volere porre resistenza. Tuttavia il clima politico, in seguito al delitto Matteotti era incandescente e Mussolini tentò di gettare acqua sul fuoco con un “dono offerto ai liberali”28, presentando alla fine del 1924 il disegno di legge per il ritorno al sistema elettorale uninominale. Tale sistema notoriamente premiava il ceto politico dei notabili liberali ma che era invece avversato sia dai partiti antifascisti di opposizione -favorevoli al sistema proporzionale- ma anche da quegli stessi fascisti che erano stati beneficati dal meccanismo bloccato del listone.
Il disegno di legge fu approvato alla Camera il 17 gennaio 1925, pochi giorni dopo il discorso del 3 che, come è noto, aveva inaugurato ufficialmente la stagione autoritaria del regime.
La motivazione ufficiale della proposta di riforma elettorale consisteva nel ritenere che, mentre la “legge Acerbo” aveva assolto alla funzione “di far convergere i suffragi degli elettori, non sugli uomini, ma sopra un partito, un’idea e doveva costituire una specie di bill d’identità per quanto il Governo fascista e il fascismo in genere avevano fatto dall’ottobre del 1922 in poi”, il disegno di legge che reintroduceva il sistema uninominale, invece, considerando che la politica fascista era stata ampiamente premiata dall’enorme consenso ricevuto nelle elezioni del maggio precedente, partiva dal principio che bisognasse adesso offrire “la possibilità al popolo di votare non soltanto pro e contro la bandiera, ma anche pro e contro coloro che tale bandiera sventolano”29.
Si trattò in realtà di un espediente tattico, in attesa di riprendere il dibattito su una radicale revisione della rappresentanza. La nuova legge elettorale, infatti, rimase inapplicata per essere poi sostituita tre anni dopo da un sistema elettorale di tipo plebiscitario che meglio rispondeva alle nuove esigenze politiche.
3.) La trasformazione dello Stato
A sostegno della presunta volontà “normalizzatrice”, e forse consapevole della necessità di fornire un impianto coerente al riformismo caotico che iniziava a caratterizzare il fascismo30, Mussolini aveva raccolto con solerzia l’iniziativa del Consiglio Nazionale del PNF di istituire una commissione di studio sulle riforme istituzionali che avrebbe dovuto “rendere effettiva e duratura la conquista dello Stato da parte del fascismo”, sviluppando “la rivoluzione dell’ottobre 1922, […], attraverso l’immissione delle nuove forze espresse dal popolo italiano nel vecchio e ormai esaurito organismo dello Stato demo liberale”31. E’ chiaro che con tali premesse, e soprattutto considerando che la Commissione era emanazione di un partito e pertanto organismo prettamente politico, la stampa di opposizione la criticò ampiamente. La commissione, su designazione del Direttorio del partito, fu istituita il 4 settembre 1924 ed era costituita da quindici membri (cinque deputati, cinque senatori e cinque studiosi32). I nodi istituzionali sui quali la commissione dei quindici era chiamata a pronunciarsi erano relativi ad alcuni problemi particolari: rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo, Stato nazionale e stampa, Stato nazionale e istituti di credito, Stato nazionale e sette segrete, Stato nazionale e partiti politici e organizzazioni sindacali. L’importanza dei temi e l’esigenza di dare una legittimazione giuridica alla Commissione, soprattutto all’indomani della svolta del discorso del 3 gennaio che inaugurava la rivoluzione legale33, resero indispensabile il suo scioglimento e la nomina di una nuova Commissione, questa volta istituita ufficialmente con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 1925, presieduta da Gentile34 e “composta di fascisti e di vecchi liberali che al fascismo guarda[va]no con simpatia”35, presto detta la “Commissione dei Soloni”.
I lavori della Commissione rappresentano un momento importante di riflessione storico-istituzionale ispirata, come ebbe modo di sottolineare il suo Presidente nell’introduzione agli atti conclusivi, alla convinzione che assolutamente non “fosse […] da sovvertire lo Stato italiano sorto dalla rivoluzione del Risorgimento”, e che “lo Stato del Risorgimento e della gloriosa Monarchia nazionale” fossero “oramai per forza di tradizioni divenute sacre a ogni cuore italiano, una solida costruzione da rispettare, una solida base su cui edificare lo Stato della rivoluzione fascista”36.
La Commissione, dunque, aveva creduto opportuno muoversi nell’ottica di “liberare quell’antica e veneranda base costituzionale dello Stato italiano dalle soprastrutture che lentamente, nella corruzione del nostro sistema parlamentare, le si erano sovrapposte e che l’avevano a poco a poco fatta servire a fini lontani dal pensiero dei fondatori”37. L’intenzione era quella di sfrondare la costituzione formale dalla costituzione materiale e pertanto il Sovrano avrebbe dovuto recuperare tutto il prestigio istituzionale previsto dallo Statuto, riconsegnando al potere esecutivo la centralità sottrattagli da decenni di disfunzioni parlamentaristiche, insomma, l’eco di fondo era il vecchio Torniamo allo Statuto. Ma, la parte sicuramente più innovativa dei lavori dei Soloni è quella che emerge dalla relazione firmata da Gino Arias, redatta insieme ad Angelo Olivieri Olivetti, sul problema sindacale e sull’ordinamento corporativo, che veniva effettivamente proposto come l’alternativa al capitalismo e al socialismo, la famosa “terza via”38. Nella relazione veniva affrontato, in primo luogo, il nodo della capacità giuridica dei sindacati e della necessità che questi venissero riconosciuti, per poi passare ad illustrare i precedenti politici e legislativi dell’ordinamento corporativo, determinandone le funzioni amministrative e analizzando le modalità di collegamento tra l’azione sindacale e l’ordinamento corporativo stesso, nonché delle indispensabili riforme che questo avrebbe comportato nelle istituzioni rappresentative. Nell’ottica della costruzione dello stato corporativo, sosteneva Arias, “l’obiettivo della rivoluzione fascista doveva essere quello della restaurazione dello Stato attraverso un riformismo dichiaratamente antiparlamentare, antiliberale ed antidemocratico che sostituisse nel sistema politico il principio individualistico della democrazia parlamentare con il principio organico della rappresentanza corporativa della Nazione”39.
I lavori della Commissione, che con grande enfasi “Critica Fascista” aveva definito “un organismo nettamente rivoluzionario” che avrebbe rappresentato “o la salvezza o la decadenza del fascismo” 40, avevano alimentato già in corso d’opera un notevole dibattito culturale non solo, ovviamente, sui singoli temi affrontati dai diciotto, quanto piuttosto sulla necessità delle riforme costituzionali41. In realtà, a parte il dibattito e una frettolosa quanto inconcludente analisi dei lavori prodotti dalla Commissione ad opera del Gran Consiglio, il fascismo preferì abbandonare l’idea di un progetto organico di riforma costituzionale, imboccando una via incrementale e tattica del riformismo costituzionale ed istituzionale, con il risultato che il regime si sviluppò nel corso del ventennio, senza una struttura coerente, ma piuttosto per accumulo normativo42.
Tra la fine del 1925 e il 1926, il discorso sulla rappresentanza politica e sul corporativismo rimase sullo sfondo del dibattito istituzionale, messo in ombra dall’obiettivo immediato di trasformare il potere esecutivo in depositario e organo di tutte le funzioni pubbliche, rappresentando l’espressione più genuina dello Stato. A realizzare tale disegno fu un giurista fondamentale per la costruzione dello “Stato nuovo” fascista, Alfredo Rocco che occupò il Ministero di Giustizia e degli affari di culto dal 1925 al 1932, operando, in quell’arco di tempo, una vera e propria “trasformazione dello Stato”43.
Sono infatti opera sua sia la legge 24 dicembre 1925 n. 2263 sulle attribuzioni e prerogative del Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato che la legge 31 gennaio 1926 n. 100 sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche. Tali leggi inauguravano quello che è stato definito il “costituzionalismo autoritario”44, stravolgendo letteralmente l’impostazione statutaria e, più in generale, il principio della separazione dei poteri45. Si avviava così, grazie a Rocco, quel “grandioso monumento di legislazione rivoluzionaria”46, per dirla con Panunzio, che (insieme alle leggi sul Podestà e sulle Consulte Municipali, sull’allargamento dei poteri dei Prefetti, sui Consigli Provinciali dell’economia e sul regolamento dei rapporti collettivi di lavoro e ai primi provvedimenti riguardanti l’ordinamento corporativo già varati o in via di esserlo) avrebbe gettato le basi di un regime tendenzialmente totalitario, caratterizzato da un profilo radicalmente antiparlamentare.
Fu il cosiddetto “discorso dell’Ascensione” tenuto da Mussolini alla Camera il 26 maggio 1927 a porre l’accento sulla necessità di una riforma del Parlamento. In quel famoso discorso, infatti, il Duce sosteneva che “l’opposizione non è necessaria al funzionamento di un sano regime […] totalitario come è il regime fascista”. D’altra parte, tra i vari “grandissimi compiti” del fascismo, continuava Mussolini, vi era quello di procedere finalmente ad una complessiva riforma costituzionale che affrontasse in primo luogo il “problema istituzionale del Parlamento”, nell’ottica di creare una “Camera corporativa dello Stato italiano”, una Camera, cioè che fosse espressione delle organizzazioni corporative, il cui sistema elettorale e le cui forme organizzative, garantiva il Primo Ministro, sarebbero state stabilite entro la fine di quell’anno o, al più tardi nell’anno successivo.
La chiarezza programmatica emersa da tale discorso, accelerò i tempi sulla questione della riforma della rappresentanza politica che ritornò ad occupare nuovamente l’agenda del dibattito politico e l’interesse del Gran Consiglio del Fascismo, ruotando intorno a due posizioni ben distinte.
La prima proponeva “una rappresentanza integralmente corporativa, sulla quale convergevano pur con notevoli sfumature gli ex sindacalisti rivoluzionari e i corporativisti puri”, la seconda, invece proponeva una rappresentanza “solo parzialmente corporativa”47, maggiormente caldeggiata da coloro che temevano l’eclissi del partito.
La verità, come sostiene anche De Felice48, è che, al di là delle discussioni politiche e giuridiche sulla rappresentanza corporativa, il fascismo, come tutti i sistemi totalitari, aveva bisogno di “un bagno di folla” elettorale. Era pertanto indispensabile che fosse approvata rapidamente una legge che legittimasse ulteriormente il regime e, nell’ottica di un forte coinvolgimento dei cittadini, la scelta di elezioni che fossero ancora in qualche modo politiche, piuttosto che per categorie di interessi, era più funzionale.
Fu il Gran Consiglio del Fascismo a dettare le linee direttrici della riforma elettorale dichiarando, in una riunione del 10 novembre 1927, che la premessa fondamentale per l’impostazione del problema doveva essere la constatazione che “ogni sistema di rappresentanza nazionale deve partire dalla situazione di fatto esistente in Italia e cioè: annullamento di tutti i partiti politici avversi al fascismo; esistenza di un solo partito politico in funzione di organo di regime; riconoscimento giuridico delle grandi organizzazioni produttive ed economiche della nazione, organizzazioni che sono la base sindacale-corporativa dello Stato”49. Malgrado, dunque, il supremo organo del fascismo, dichiarasse che oramai il corporativismo era una realtà effettivamente realizzatasi, precisava che i tempi non erano ancora maturi per una rappresentanza politica di tipo esclusivamente corporativo.
Nel pieno rispetto delle indicazioni impartite dal Gran Consiglio, andò il disegno di legge presentato alla Camera dal Guardasigilli Rocco, il 14 marzo 1928, che poi divenne la legge 17 maggio 1928, n. 1019, con la quale il numero dei deputati veniva ridotto da 560 a 400 e l’intero Regno veniva strutturato in un unico collegio nazionale. Veniva introdotto un sistema plebiscitario secondo il quale gli elettori erano chiamati ad approvare o meno una lista di candidati50 che suggerita dalle confederazioni dei sindacati e dalle associazioni, era di fatto designata dal Gran Consiglio, che poteva esercitare un’ampia discrezionalità di scelta sugli elenchi proposti dalle suddette categorie.
Il diritto elettorale, poi, era riconosciuto a tutti i cittadini maschi lavoratori o pubblici dipendenti o ministri del culto e si trasformava da diritto in facoltà di scelta, di approvare o non approvare cioè la lista presentata nella sua integrità. L’obiettivo della nuova legge, sosteneva Rocco, era quello di creare “un regime di autorità”, con un governo forte “ma fondato sulle masse, vicino alle masse”51. Ma, era indispensabile sottrarre alle masse il principio astratto, il dogma dell’esercizio della sovranità popolare, che molto difficilmente produce “una buona scelta degli spiriti dirigenti”, anche quando si riconosce ai partiti “una funzione preminente, affidando ad essi la designazione dei candidati”. In tali casi, infatti, continuava il Ministro, il sistema era apparso nella pratica migliore, solo perché ne avevano approfittato “i partiti più privi di scrupoli, meno solleciti dell’interesse nazionale”. Insomma, in materia elettorale, la storia aveva dimostrato che la sovranità popolare in un sistema pluripartitico, finisce con il risolversi nel predominio della sovranità di piccole minoranze, “composte di intriganti e demagoghi”. In sostanza, alla sovranità popolare bisognava sostituire la sovranità dello Stato, “organizzazione giuridica della nazione”. In questa prospettiva, la Camera dei deputati, che “ha per primo suo compito quello di collaborare con il governo alla formazione delle leggi”52, doveva essere la sede della rappresentanza delle forze organizzate del Paese, al fine di tutelare gli interessi nazionali.
La legge passò alla Camera a stragrande maggioranza, senza alcuna discussione, ad eccezione della dichiarazione contraria del vecchio Giolitti il quale denunciava “il decisivo distacco del regime fascista dal regime retto dallo Statuto”53, mentre al Senato il dibattito fu più articolato. Si levarono, infatti, alcune voci di dissenso (quelle cioè di Ettore Ciccotti, Francesco Ruffini, Federico Ricci, Luigi Albertini e Roberto De Vito) che posero obiezioni di natura strettamente costituzionale, lasciando intendere, tra l’altro, notevoli perplessità sulla legittimità di liste di candidati compilate dal Gran Consiglio del fascismo, organo politico, in quanto organo di partito e non organo costituzionale54. Mussolini, nel suo discorso di risposta, sebbene non esitasse a definire “commoventi” quanto “inutili” i dissensi espressi, si affrettò a garantire che a breve il Gran Consiglio sarebbe entrato a far parte degli organi dello Stato.
Insomma, con quella legge, si può dire che lo Stato liberale era ufficialmente morto, sostituito da un “regime che -.come è stato scritto da Bottai dopo la caduta del fascismo– non volle essere rappresentativo [e] si fermò alla rappresentazione. Fu sempre meno un regime, per divenire sempre più una regia”55. Insomma, un regime non elettivo, ma alla perenne ricerca del consenso e connotato da una fortissima personalizzazione del potere.
Con la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo (legge 9 dicembre 1928, n. 2693) e con la fine della XXVII legislatura, iniziata con le tragiche elezioni del 1924 e la cui Camera era stata depurata dopo due anni di tutti i deputati dell’opposizione, si chiudeva una fase importante del fascismo. Quella legislatura, infatti era stata giustamente definita la “costituente fascista”, in quanto lo Statuto era stato pressoché “riscritto” in funzione del rafforzamento del potere esecutivo e della figura del Capo del Governo e, con le prime elezioni plebiscitarie che si sarebbero svolte nel 1929, risultò evidente quanto fosse cambiata la natura della Camera dei deputati, la cui funzione venne totalmente trasformata, in attesa di una nuova riforma che ne definisse meglio il ruolo.
Effettivamente, la successiva legge 19 gennaio 1939, n. 129 soppresse la Camera dei deputati ed istituì in sua vece la Camera dei Fasci e delle Corporazioni56 che, insieme al Senato del Regno aveva il compito di collaborare con il Governo per la formazione delle leggi. La nuova Camera era composta dai componenti del Consiglio nazionale del PNF e dai componenti del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Dunque, la rappresentanza di origine elettiva, insieme alle ultime vestigia dello Stato liberale, scompariva del tutto, cedendo il posto ad un modello inedito di rappresentanza istituzionale che esautorava del tutto i cittadini dall’esercizio del diritto elettorale57. Lo “Stato nuovo” fascista era pressoché completato, ma di lì a breve la tragedia bellica avrebbe ad esso inferto un colpo mortale.
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