Ciencias Políticas
IL CASO MORO E IL CILE DEI MILITARI*
EL CASO MORO Y EL CHILE MILITAR
Ciencia Nueva, revista de Historia y Política
Universidad Tecnológica de Pereira, Colombia
ISSN-e: 2539-2662
Periodicity: Semestral
vol. 3, no. 2, 2019
Received: 09 October 2019
Accepted: 14 November 2019
Resumen: Durante el secuestro Moro Italia y Chile una vez más entrelazaron sus caminos. Si anteriormente sobre todo la península había observado el proceso político chileno, en esta ocasión ocurrió lo contrario. El texto examina la lectura de ese acontecimiento realizada en el país sudamericano a través de la prensa, para mostrar cómo se analizó una grave crisis institucional en el contexto de la dictadura. Así, surge una interpretación principalmente para uso interno con el objetivo de subrayar las debilidades de los regímenes democráticos, el peligro marxista, releer los pasajes históricos y asimismo para encontrar la confirmación de las elecciones autoritarias.
Palabras clave: Aldo Moro, Italia, Chile, Terrorismo, Régimen militar.
Abstract: During the Moro kidnapping Italy and Chile entangled their ways again. If previously especially the peninsula had observed the Chilean political process, in this occasion occurred the opposite. The text examines the reading of that event made in the South-American country by the press to show how a serious institutional crisis was analyzed in the context of the dictatorship. Thus, emerges an interpretation mainly made for internal use with the aim of underlining the weaknesses of democratic regimes, the Marxist danger, re-reading the historical passages as well as finding confirmation of the authoritarian choices.
Keywords: Aldo Moro, Italy, Chile, Terrorism, Military regime.
1. Un “macigno” sulla storia italiana
Nella tarda mattinata del 9 maggio 1978 il corpo senza vita del leader della Democrazia Cristiana italiana (DC) Aldo Moro1 fu trovato nel portabagagli di una Renault 4 in via Caetani, nel centro di Roma, a pochissima distanza dall’allora sede del Partito Comunista Italiano (PCI). Alle 12.13 dello stesso giorno Valerio Morucci, membro delle Brigate Rosse (BR)2, aveva telefonato al professor Franco Tritto (amico e collaboratore di Moro) per comunicargli l’“esecuzione della sentenza”. Nella chiamata le BR avevano dato istruzioni sul luogo dove sarebbe stato possibile rinvenire il cadavere e intimato di avvisare la famiglia Moro3. Un paio di ore prima si era riunita la direzione della Democrazia Cristiana per ridiscutere la linea da adottare rispetto al sequestro. Si trattava di un incontro più volte rimandato, sebbene fosse stato sollecitato dai famigliari del sequestrato, da alcuni esponenti DC e dallo stesso statista nelle comunicazioni arrivate dall’interno della prigionia4. Le ragioni dei tentennamenti erano state diverse. Fra queste, soprattutto, il fatto che i vertici democristiani non volevano lasciar trasparire pubblicamente le divisioni interne al partito, schierato sulla cosiddetta linea della “fermezza”, cioè del netto rifiuto di qualsiasi trattativa o contatto da parte del governo con i terroristi. Tale fermezza, tuttavia, non aveva escluso la possibilità di giungere a un accordo per salvare la vita del prigioniero5.
Le scarne riprese televisive del ritrovamento del cadavere e, ancor più, la famosa immagine, scattata dal giovane fotografo Gianni Giansanti, del corpo nel portabagagli della Renault, avrebbero definitivamente fissato nella memoria il ricordo di quei momenti. L’epilogo drammatico metteva la parola fine al sequestro iniziato con l’agguato di via Fani, il 16 marzo 1978, che era costato la vita ai 5 agenti di scorta che accompagnavano quella mattina l’onorevole in direzione di Montecitorio, sede della Camera dei Deputati, dove si sarebbe tenuto il dibattito e il voto di fiducia al governo guidato da Giulio Andreotti6. La foto, scattata da Giansianti, avrebbe fatto il giro del mondo, raccontando drammaticamente molto dell’Italia di quegli anni, della sua classe politica, delle sue debolezze, della lucida ferocia della lotta armata di sinistra e del terrorismo di destra, ma anche del terrore di Stato e delle trame eversive che stavano segnando la stabilità del paese. Inoltre, l’immagine di Moro senza vita lasciava trasparire uno sgomento maggiore che in passato, pur non essendo mancati gli episodi di violenza negli anni precedenti (così come non sarebbero mancati, purtroppo, negli anni a venire)7. Il 9 maggio costituì un trauma a ogni livello nello sviluppo politico e civile dell’intera comunità nazionale. Non a caso gli è stato attribuito un enorme valore simbolico ed ermeneutico che ha portato a definirlo, ancora una decina di anni fa, «macigno nella storia della Repubblica»8. Anche perché di fatto da quell’evento si sarebbe fermato quel lento processo di rinnovamento politico istituzionale iniziato qualche anno prima9.
Ancora oggi, pesano sul ricordo e sulle analisi la densità e l’intensità della memoria e delle immagini, come quella dei funerali di Stato del 13 maggio a cui non partecipò la famiglia, sia per il dissenso nutrito nei confronti del governo e delle sue mancanze, ma anche per adempiere alla volontà espressa dalla vittima in quella lettera, pesante come un macigno, scritta al segretario della DC Benigno Zaccagnini10. In quei fotogrammi spicca la presenza degli uomini dello Stato e dei rappresentanti di tutti i partiti gli uni accanto agli altri, quasi a voler ribadire quella fermezza che lo Stato aveva dimostrato durante la prigionia, e a testimoniare, fisicamente, la volontà di ristabilire l’ordine e i rapporti di potere. Ma anche quella eccezionale del Pontefice Paolo VI, che appare affaticato e probabilmente provato da quel «liberate l’onorevole Aldo Moro semplicemente e senza condizioni» che aveva significato l’adesione, almeno pubblica, della Chiesa alla linea dello Stato11. Oltre ogni cosa, però, risalta l’assenza del corpo di Moro. Un’assenza pregna di interrogativi e in cui molti hanno «metaforicamente intravisto la fine di un modo di essere della Repubblica italiana e dei suoi rapporti con la Chiesa cattolica», ma che al contempo evocava, con un accostamento freudiano cui si è fatto (forse troppo) sovente ricorso, «il parricidio consumato»12.
2. Italia e Cile, destini che si uniscono
La crisi della democrazia italiana attirò l’attenzione internazionale, in particolare in Europa occidentale e, seppure per ragioni opposte, in America Latina, in special modo in quei paesi dove al governo c’erano regimi civico-militari. Del resto, gli uomini in divisa si erano impadroniti del potere autoassegnandosi una missione salvifica con il dichiarato intento di difendere i valori occidentali (e cristiani) e, soprattutto, di combattere la sovversione interna e il marxismo: un generico terrorismo (essenzialmente di sinistra), direttamente o indirettamente connesso con tutti gli altri fenomeni simili sviluppatisi a livello internazionale. In tal senso il caso Moro rappresentò uno dei punti nodali di una riflessione più ampia rispetto all’inadeguatezza dei regimi democratici e all’inefficacia degli strumenti utilizzati per sconfiggere il terrorismo.
Non può considerarsi, comunque, una novità il legame tra l’Italia, e l’America Latina, per svariati motivi (storici, economici, politici) che sarebbe superfluo rammentare. Peraltro, proprio la penisola conobbe dagli anni Sessanta un rinnovato interesse per il subcontinente, il quale acquisì rilevanza nel dibattito politico e culturale interno. L’attenzione, sospinta dalle veloci trasformazioni in atto, si nutrì specialmente dei fermenti suscitati dalla rivoluzione cubana, dalle propulsioni interne alla Chiesa latinoamericana e dalle novità introdotte dal processo politico cileno, nonché dal boom della letteratura latinoamericana. Ciò portò a guardare alla regione come a una sorta di «laboratorio ricco di sperimentazioni diverse», cui fecero riferimento a vario titolo tutte le diverse anime dello spettro politico-culturale italiano (moderata, riformista, marxista, di destra, ecc.) 13. In tale contesto, emerse per importanza di esperienze politiche – e poi culturali – il Cile, paese con il quale non si potevano riscontrare legami di lungo corso paragonabili a quelli esistenti con altri “giganti” della regione, come il Brasile o l’Argentina.
Il vincolo e il gioco di specchi tra l’Italia e la nazione andina, che portò specie nei Settanta a considerare le vicende politiche di entrambi come strettamente correlate, fu prodotto in prima battuta dal rapporto e dalle connessioni instauratesi tra i due partiti democristiani sin dalla fine degli anni ’50. Se per il Partido Demócrata Cristiano de Chile (PDC), e il suo leader Eduardo Frei Montalva, il partito italiano fu fonte di ispirazione teorica e realizzazioni pratiche (per i successi ottenuti durante il “miracolo economico”), per la DC il rafforzamento della formazione cilena avrebbe potuto favorire l’espansione della democrazia cristiana (e dell’Internazionale democristiana) in tutto il subcontinente14. Simile concordanza si tradusse prima in collaborazione (finanziaria e organizzativa) durante la lunga marcia elettorale che dal 1962 portò Frei alla presidenza nel ’64, e, da quel momento, anche in una positiva evoluzione delle relazioni istituzionali italo-cilene.
Al contempo, anche il mondo comunista e la sinistra italiana guardarono con grande interesse al paese andino. Oltre a uno scenario che sembrava replicare in parte quello nazionale, decisivi, per le sinistre, furono l’avanzata dell’internazionalismo cattolico e i progetti del centro-sinistra e della “revolución en la libertad”, che puntavano a conquistare spazi politici a discapito della sinistra marxista, chiamata, quindi, a ripensare le proprie strategie15.
Nel 1970, poi, con la vittoria elettorale di Unidad Popular e la conquista della presidenza da parte del socialista Salvador Allende, il Cile uscì definitivamente dai confini nazionali16: l’obiettivo della coalizione di realizzare il socialismo per via parlamentare e nel rispetto della legalità fecero della “via cilena” un qualcosa di inedito che suscitò curiosità e opposizioni in Italia e nel mondo17. Quell’esperimento trovò terreno fertile nella sinistra italiana tutta e concretizzò, soprattutto, la realizzazione di una vera alternativa alla rivoluzione e alla presa violenta del potere, ragione per cui venne criticata dai settori più radicali del marxismo, ancor più importante in quanto si inseriva in un passaggio storico di crisi del comunismo internazionale e dell’esempio cubano, ormai quasi subordinato ai dettami di Mosca.
A tali fattori si sommarono similitudini, reali ma più spesso amplificate, tra i due sistemi politico-sociali che facevano leva sull’esistenza anche in Cile di tre grandi partiti di massa (democristiani, socialisti, comunisti) uniti da vari rapporti con i corrispettivi italiani, ma anche sulla presenza di istanze di riforma sociale sia moderate sia rivoluzionarie. A ciò si aggiungeva la progressiva radicalizzazione dello scontro sociale che in Italia, e in maniera non dissimile nel paese latinoamericano, attraversava la società fin dal ’68-’69 mettendo in discussione concretamente la questione del potere18. In tale contesto il triennio di UP costituì un momento ulteriore di avvicinamento tra le forze politiche dei due paesi, ancorché fu soprattutto dal versante italiano che si guardò a quello sudamericano per ricavarne esempi, che presto divennero “lezioni”, utili per analizzare lo sviluppo politico nazionale19. Se per un verso i democristiani mantennero altissima l’attenzione e solido il legame con gli amici latinoamericani, fu soprattutto la sinistra nelle sue varie anime a dedicare una centralità alla via cilena verso il socialismo che ebbero pochi altri avvenimenti, con una visione molto partecipata e non minore senso di aspettativa20.
Tuttavia, speranze e passioni riposte nell’esperienza allendista si tramutarono in doloroso risveglio l’11 settembre 1973. Le immagini della Moneda bombardata e del Estadio nacional de Chile trasformato in lager, smossero le coscienze risvegliando l’Italia antifascista in un moto che si trasformerà in solidarietà e accoglienza verso gli esuli cileni21. Quegli eventi fornirono, però, anche lo spunto per ragionare sulle contraddizioni di UP, sulle responsabilità del PDC e le connivenze con i militari, mentre sul piano interno furono essenziali per chiedersi se quel tipo di svolta sarebbe stata possibile anche nella penisola22.
Il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, rese esplicita sul settimanale Rinascita23, una tesi che già andava maturando nel partito e che si tradusse nella proposta del cosiddetto “compromesso storico”. Con quest’ultima, il PCI, consegnando l’esperienza di UP alla funzione di mito politico, ne traeva spunto per cambiare passo e rilanciare la sua azione. Dalla consapevolezza dell’impossibilità di andare al governo da soli, ma anche dell’impossibilità di sfidare in maniera diretta i poteri corporativi derivò la necessità di lanciare una politica di alleanze con tutte le forze democratiche, in primis con la DC, facendo leva sulla sua eterogeneità e dialogando con quanti al suo interno mostravano la medesima sensibilità24.
Dal canto suo la DC si trovò in una posizione scomoda. Il partito, infatti, non poteva esimersi dal censurare il golpe, ma allo stesso tempo doveva evitare quanto più possibile di rimarcare le responsabilità del PDC. Così, la maggioranza del partito espresse una netta condanna per la rottura dell’ordine democratico, senza tralasciare, però, di insistere sulle contraddizioni e le responsabilità politiche di UP. Al contempo la sinistra del partito non esitò a biasimare la condotta dei loro omologhi sudamericani per le posizioni pro-golpiste e, indirettamente, quella della dirigenza della stessa DC25.
Tutti questi elementi trovarono espressione nel dibattito alla Camera del 26 settembre. In quella stessa circostanza il ministro degli Esteri, Aldo Moro, manifestò una posizione ufficiale di netta condanna del golpe, seppure nell’analisi della complessa situazione cilena in cui non si nascondevano gli errori del governo Allende. La scelta dell’esecutivo italiano, dettata anche da complessi equilibri interni alla coalizione di governo (con i socialisti in prima linea nell’accusare i militari cileni), fu volta a far decantare la situazione e placare gli animi. Ma col passare del tempo la posizione rimase ferma e l’Italia divenne l’unico paese del mondo occidentale a non riconoscere la giunta e congelare le relazioni con il Cile sino alla fine della dittatura26.
Quegli eventi ebbero un effetto innegabile. Rispetto al dialogo tra i due partiti maggiori che si aprì esplicitamente dopo il golpe, Moro rivestì certamente un ruolo da protagonista. Egli, nonostante una successiva semplificazione del suo ragionamento, era stato tra i primi a parlare della “strategia dell’attenzione” già alla fine degli anni Sessanta, un tentativo di coinvolgere il PCI e altre forze in un allargamento delle responsabilità, rilanciandola poi nel ‘7127. Tuttavia, la maturazione di quel percorso che l’esponente democristiano aveva immaginato su tempi lunghi, dovette confrontarsi, dopo il 1973, proprio con le riflessioni del segretario comunista28, con le lacerazioni interne ai due partiti e con le spinte all’interno della stessa DC ad accelerare il dialogo in atto29. Moro, anche in quella fase, si contraddistinse per il suo costante ruolo di tessitore e di mediatore, ma guardando sempre all’unità del suo partito30, alle condizioni del paese e alla necessità di non compromettere i fragili equilibri internazionali. D’altronde, era stato per diversi anni ministro degli Esteri (1969-1974), operando per un maggiore protagonismo dell’Italia, specialmente nel Mediterraneo, ma anche promuovendone una certa indipendenza dagli Stati Uniti, come nel caso dell’apertura verso Mosca o della linea tenuta dopo il golpe di Pinochet, elementi che, insieme al dialogo con il PCI, gli provocarono la diffidenza di Washington. Moro, poi, aveva anche appoggiato la linea “internazionalista” della DC in America Latina e il relativo sostegno al PDC31.
3. Dopo il rapimento
Per una beffarda “coincidenza” la drammatica vicenda che avrebbe segnato la fine della vita dello statista iniziò proprio quando giungeva a coronamento quel complesso avvicinamento tra comunisti e democristiani. Il 16 marzo, infatti, il giorno del sequestro di Moro, la Camera dei Deputati avrebbe dovuto votare la fiducia al nuovo esecutivo, che per la prima volta dal 1947 avrebbe visto entrare (seppur in maniera incerta) il PCI nella maggioranza di governo. Sull’onda della tragica notizia, deputati e senatori votarono nella notte la fiducia, attribuendo al nuovo governo pieni poteri per far fronte all’“attacco al cuore dello Stato” lanciato dalle BR. Venne istituito il Comitato tecnico operativo e i sindacati risposero proclamando uno sciopero generale. La pronta reazione dell’esecutivo e delle forze politiche mirò soprattutto a mostrare la tenuta delle istituzioni e ad arginare un possibile effetto domino, cioè l’emulazione e lo sfocio nella violenza diffusa su tutto il territorio nazionale, una paura ampiamente giustificata dal decennio di violenze estremiste32.
Questi drammatici fatti rappresentarono un nuovo crocevia nel complesso intreccio esistente tra Italia e Cile. I difficili rapporti tra i due paesi dopo il golpe non avevano impedito che si mantenesse l’attenzione verso i fatti cileni, e, anche per la presenza di molti esuli nella penisola, quella relazione aveva continuato a essere molto viva nell’opinione pubblica nazionale. In simile frangente, però, fu soprattutto dal Cile che si guardò verso il Mediterraneo. Del resto, enorme fu l’eco suscitata dal rapimento fuori dai confini nazionali. In senso più ampio non si trattò semplicemente di un avvenimento italiano, anche in virtù degli equilibri geopolitici e dell’importanza assunta dai media. Il sequestro (e poi l’uccisione di Moro), ebbe una copertura mediatica mondiale, concorrendo a innalzare l’attenzione verso il fenomeno del terrorismo. Mentre per un verso ci si preoccupò per la tenuta delle istituzioni italiane, al di fuori della penisola ad allarmare fu in special modo la diffusione globale della minaccia rappresentata dal terrorismo33.
Certamente non aveva sottovalutato quel fenomeno la giunta militare cilena, impegnata in una spietata opera di eliminazione del dissenso frequentemente e ambiguamente accomunato ad arte con quanto si sviluppava in altri contesti. In Europa le rappresentanze diplomatiche della nazione andina avevano osservato da vicino l’evolversi dei fronti più caldi, specie quelli in cui erano attivi gruppi di estrema sinistra che potevano avere connessioni tra loro e con un più generico movimento internazionale, prestando particolare attenzione ai provvedimenti presi dalle democrazie europee e segnalando l’inadeguatezza di mezzi e misure delle loro risposte34.
Il caso italiano non faceva eccezione. Anzi, la penisola era analizzata accuratamente anche per via del deterioramento delle relazioni bilaterali, delle azioni degli esuli sul suo territorio e per la volontà di migliorare l’immagine del regime tra l’opinione pubblica locale. Per questo, nel biennio precedente al sequestro Moro, l’Ambasciata a Roma rapportò continuamente sulle posizioni delle varie forze politiche e sulla rappresentazione del processo cileno fornita dai quotidiani di partito, soffermandosi, altresì, sugli sviluppi della crisi politico-economica in atto in Italia e sull’accelerazione del dialogo tra DC e PCI in vista di un possibile accordo di governo (per le possibili ricadute sui rapporti tra i due Stati e per i rischi che ciò avrebbe potuto implicare per l’intero mondo occidentale35).
In Cile, invece, nel quadro di una precisa strategia comunicativa del governo militare volta ad avvalorare la correttezza del proprio operato contro la sovversione, la stampa locale monitorava gli episodi terroristici e le azioni dei gruppi di estrema sinistra. Nei giorni precedenti al 16 marzo erano, così, apparsi diversi articoli sulle BR, in particolare sul ritardo nell’avviare il processo al nucleo storico di Torino36, aspetto, questo, che forniva ai quotidiani l’opportunità per criticare inefficienze e farraginosità del sistema giudiziario nelle democrazie liberali quando si era chiamati a contrastare il fenomeno del terrorismo. In tale contesto la notizia del sequestro di Moro giunse in Cile, dove ricevette ampia copertura da parte della stampa, e unanime e ferma condanna nei circoli politici e tra le file governative, nonché dalla nunziatura apostolica37. Fin da subito si fece strada un elemento che diverrà costante: il tentativo di mettere in parallelo le vicende italiane e quelle cilene, specie quelle del triennio di UP, i rischi che aveva corso il paese e quelli che correva ora la nazione europea. Si trattava di una lettura fatta a uso interno ma, questa volta, a parti invertite. Esemplari, in tal senso, furono le dichiarazioni a caldo del Consigliere di Stato ed ex ministro del governo Frei, Juan de Dios Carmona, il quale, paragonando la vicenda Moro all’assassinio dell’ex ministro Edmundo Pérez Zujovic nel 1971 da parte di un gruppo di estrema sinistra38, sostenne che era stato proprio tale episodio a provocare la pronta reazione del popolo cileno e la ferma e generalizzata condanna dei sequestri e dei delitti politici39.
Secondo El Mercurio, le radici degli atti terroristici erano da ricercare nella crisi sistemica che stava affrontando l’Italia, che coinvolgeva tutti i settori dall’economia alla politica, una crisi in cui lo Stato si era mostrato particolarmente debole e indeciso (come nella vicenda del processo di Torino), tanto da consentire indirettamente alle BR di sferrargli un colpo che poteva risultare quasi letale40. Il gruppo estremista aveva lanciato quella sfida potendo avvalersi di un’agilità di movimento che lo Stato moderno non aveva, data la necessità di mantenere in vita le garanzie giudiziarie e costituzionali. Questa netta differenza, nonostante la sproporzione di mezzi dei due contendenti, minava alla radice la fiducia dei cittadini, poiché la lentezza di risposte e l’imprevedibilità del pericolo ne minacciava costantemente la sicurezza. La conclusione cui si giungeva era scontata: la Repubblica italiana avrebbe potuto far fronte alla rapidità di azione dei gruppi di lotta armata solo se si fosse dotata celermente di adeguati strumenti legislativi41.
L’Italia, quindi, divenne il pretesto per sferrare un attacco mirato alla democrazia liberale. Augusto Pinochet fu tra i primi a pronunciarsi in questa direzione e a dettare in un certo senso la linea. Nel condannare gli eventi, ammonì come fatti del genere potessero verificarsi nelle «democrazie formali», poiché esse non disponevano di mezzi efficaci di contrasto al terrorismo e perché «quelle [stesse] democrazie senza alcuna protezione hanno permesso in passato finanche l’odio tra padri e figli e nel presente, fatti come quello […] accaduto in Italia»42. Ciò che, dunque, colpiva l’Italia e l’Europa risultava come una conferma del livello raggiunto dal terrorismo internazionale; il caso Moro era la dimostrazione di come quel «cancro» che corrodeva la società italiana fosse ormai «troppo radicato» per via della protezione di «legislazioni compiacenti»43. Emergeva in tal modo una censura verso i regimi occidentali che in alcuni accenti si faceva particolarmente dura, e che configurava anche un moto di rivalsa rispetto alle critiche mosse dalla penisola dopo il golpe, mentre al contempo stava lì a giustificare la via autoritaria come unica possibilità per risanare la società. In buona sostanza, i governi europei erano definiti, stando a quando sostenuto da El Cronista, «democrazie permissive» in crisi per l’incapacità dei loro dirigenti di far fronte alla minaccia terrorista e per colpa di stili di vita che, dietro la tolleranza, corrodevano la morale e i principi conducendo all’anarchia. Il sistema democratico era, quindi, esso stesso il principale complice dei propri nemici, poiché aveva lasciato proliferare «consumismo e materialismo egoista», accettando in definitiva con «patetica naturalezza» il proliferare del terrorismo. Ciò che accadeva in Italia, peraltro, rientrava in una strategia mondiale volta all’instaurazione di dittature totalitarie di stampo comunista44.
Mentre la stampa dibatteva sulla necessità di moralizzare la società, Carmona intervenne nuovamente per sottolineare come il terrorismo fosse da reprimere e condannare con azioni coordinate a livello internazionale. Ma, soprattutto, rilevò come Moro fosse stato rapito in quanto uomo progressista, esempio quindi di quei governi che erano presi di mira dai terroristi proprio per svilirne l’autorità e la proposta riformatrice. A suo avviso, il terrorismo era parte di una strategia complessa di cui si serviva il comunismo per fiaccare i popoli e far sì che cadessero nelle braccia della soluzione totalitaria45. Questa tesi fu ripresa e approfondita, a sua volta, da El Cronista. Secondo tale quotidiano, infatti, l’Italia era il luogo in cui il marxismo-leninismo stava attuando una delle sue tipiche strategie per assumere il potere: spingere verso l’instabilità totale, anche attraverso la violenza, per poi mostrarsi come l’unica ideologia politica in grado di pacificare il paese. Un facile gioco di specchi che riproponeva le accuse mosse a suo tempo ad Allende dalla destra golpista, riadattandole allo scenario italiano e accusando, indirettamente e senza nominarli, i comunisti italiani di far parte di quel piano, in ragione del quale si invocavano interventi fermi e diretti come quelli presi da Pinochet46.
Quasi contemporaneamente, mentre in Cile si ragionava su un’opzione autoritaria come unica soluzione, in Italia si ebbe uno dei pochi interventi che ricordarono il paese sudamericano, e il golpe, durante quei giorni. Il 18 marzo, infatti, giunse il primo comunicato delle BR con la celebre foto di Moro nel loro covo47, e subito dopo la DC si trovò ancor più al centro della scena, accusata dai brigatisti della gestione del potere borghese e di essere responsabile di un regime repressivo in collaborazione con i poteri internazionali, le multinazionali e il capitalismo48. La pressione sul partito era talmente grande che ci si preoccupò delle possibili ricadute sul paese. Rossana Rossanda49 si domandò, pertanto, fino a quando i democristiani sarebbero riusciti a resistere senza dividersi e liberare, quindi, le loro capacità di pressione attraverso i corpi intermedi per chiedere un prezzo altissimo ai propri alleati (di governo), o, peggio ancora, avrebbero dato libero sfogo alle tendenze eversive esistenti nel partito per provocare «un processo cileno accelerato»50.
Durante i lunghi giorni della prigionia, ampio spazio ricevettero in Cile le notizie provenienti dall’Italia relative agli sviluppi del caso, alle indagini, alla posizione ferma dell’esecutivo e delle forze politiche51. Queste furono le tendenze seguite dalla stampa cilena, salvo rare eccezioni in cui ci si interrogò sulle motivazioni reali del sequestro di un personaggio politico come Moro, sui risultati attesi dalle BR, dal momento che, anziché condurre al caos né, tantomeno, alla rivoluzione, tale “operazione militare” aveva ricompattato lo schieramento contrario alla lotta armata52. In sostanza con il passare dei giorni, anche al di là dell’Atlantico, si avvertì una sorta di impasse, scossa solo in parte dalla notizia della consegna di un falso comunicato brigatista in cui si annunciava la morte di Moro, che diede modo a quanti si affrettarono a pubblicare la notizia, di iniziare a richiamare il contesto italiano come punto più critico di un quadro europeo in cui proliferavano i gruppi guerriglieri, e tracciare un primo ritratto del politico pugliese53.
4. L’epilogo
In questa situazione di snervante attesa iniziarono a prendere corpo riflessioni di più ampio respiro che utilizzavano il caso Moro per condurre ancora oltre quei ragionamenti scaturiti all’indomani del sequestro. Il rapimento e il processo ai danni dello statista divennero così la «lezione suprema» che le BR volevano impartire allo Stato italiano e ai suoi cittadini. Ma, allargando lo sguardo, in questa escalation a livello europeo del terrorismo venivano rintracciate connessioni multiple tra il vecchio continente e l’America latina, che partendo dal maggio francese passavano per la guerriglia dei Tupamaros uruguaiani, dei miristi cileni e dei montoneros argentini, per ritornare come esperienze proprio al di qua dell’Atlantico. Ciò forniva lo spunto non solo per giustificare l’ascesa di regimi autoritari in grado di mantenere l’ordine, ma anzi, di elevare, implicitamente, questa soluzione “energica” a vera lezione per i paesi europei in una fase in cui i sistemi partitocratici mostravano tutti i loro limiti54.
Simili argomentazioni finirono per esser condotte alle estreme conseguenze dopo che anche in Cile, il 9 maggio, venne resa nota la tragica conclusione della vicenda. Alcuni dei massimi esponenti della giunta, in primis, non si fecero scappare l’occasione di ribadire in sostanza quanto corrette fossero le loro analisi e la loro crociata. Pinochet, «visibilmente colpito» e addolorato per quanto occorso alla famiglia e all’Italia, rilevò come il terrorismo fosse «il male più grande di cui soffre il mondo attuale». In linea, poi, con quanto affermato in occasione del sequestro, ribadì che la morte di Moro rappresentava la naturale conseguenza della debolezza delle democrazie tradizionali che permettevano ai gruppi marxisti di germogliare, mentre sarebbe stata necessaria maggiore inflessibilità: «l’uomo ha bisogno della sicurezza che deve garantire lo Stato per godere di una effettiva libertà»55. Sulla stessa lunghezza d’onda, l’ammiraglio José Torbio Merino condannò la barbarità propria del marxismo internazionale «essenzialmente perverso senza né Dio né legge», mentre il comandante dell’aviazione, Gustavo Leigh, parlò esplicitamente di una nuova lezione che ricevevano i popoli occidentali: il terrorismo di stampo sovietico era un male permanente della società, spesso sottovalutato. Quest’ultimo accusò, poi, i governi democratici di «negligenza criminale», poiché troppo permissivi con i gruppi armati, e sottolineò come la «disintegrazione dello schema democratico italiano» doveva essere tenuta ad esempio da parte di quei governanti che, come i militari cileni, desideravano la pace e la tranquillità per i propri cittadini56.
Rileggendo a posteriori tutta la vicenda, la maggioranza della stampa cilena concordò nel valutare positivamente la linea della “fermezza”, poiché essa aveva almeno consentito che le istituzioni reggessero. Ma allo stesso tempo criticò duramente le debolezze dell’apparato di polizia e di quello inquirente, ritenuti ampiamente inadeguati, farraginosi e poco incisivi, malgrado il gran dispiegamento di uomini, tutti elementi ancor più evidenti se paragonati all’efficienza mostrata dalle BR durante il sequestro e il “processo” a Moro57. La requisitoria contro le inefficienze del sistema portò a discutere delle responsabilità della DC, che in quel sistema aveva mantenuto costantemente le redini del potere, il che in parallelo voleva significare fare una lettura degli eventi italiani che poteva tornare utile anche a fini interni. Al partito venne imputato di aver smarrito durante la sua lunga stagione di governo autorità e fermezza, portando il paese sull’orlo della crisi economica e dell’anarchia58. La tragedia italiana traeva le sue origini dalla progressiva perdita di quei valori spirituali che avevano animato i primi esecutivi del dopoguerra, nella demoralizzazione dei suoi dirigenti e nell’infiltrazione all’interno del partito di idee materialiste e socialiste59. Non a caso, El Cronista riportò strumentalmente un’intervista al sociologo Franco Ferrarotti60 che suonava come un’ulteriore accusa, dal momento che questi parlò esplicitamente del rischio della perpetuazione del potere democristiano (e dello Stato con esso identificato), corrotto e dilaniato da correnti interne, come di uno dei peggiori effetti che ci sarebbe potuti aspettare dall’omicidio di Moro61.
In questo contesto s’inserirono le opinioni di alcuni esponenti di spicco del PDC. Andrés Zaldívar, più che rispondere alle critiche, si soffermò sulla statura di Moro e sul suo costante interesse per le vicende cilene e lo sviluppo di quel paese durante e dopo il sessennio Frei. Lo stesso ex presidente volle esprimere la propria solidarietà al partito italiano, chiamato a una dolorosa prova in cui non erano apparse delle vie d’uscite all’interno della legalità, e che aveva per questo dovuto compiere un dovere tragico e doloroso62. Fu, però, Tomás Reyes Vicuña a ribattere in maniera netta agli interrogativi che soggiacevano a una lettura “cilena” dei fatti italiani. A suo avviso gli eventi accaduti in Italia non erano una lezione che serviva a giustificare governi autoritari che facevano uso del terrore per annichilire un altro tipo di violenza, quanto piuttosto un monito per i regimi democratici, per stimolarli a esser più efficienti e in grado di risolvere tutto attraverso il normale sistema giudiziario, che, comunque, doveva essere in grado di agire con rapidità. Alle domande capziose sull’ordine vigente in Cile e il caos italiano, lo stesso Reyes Vicuña ribatté non esitando a definire l’azione della giunta come un altro estremismo che si opponeva a quello terrorista, cosa che, sebbene avesse potuto portare a un’apparente tranquillità, sul medio periodo avrebbe avuto effetti negativi sullo sviluppo pacifico della nazione63.
Intravedendo un’ennesima lezione per il Cile, furono soprattutto le forze più a destra dello schieramento politico cileno a sostenere l’accusa verso il leader italiano di esser stato responsabile dell’apertura a sinistra e del dialogo con il marxismo, ritenendolo in sostanza quasi causa del suo drammatico destino64. Alla radice di un simile ragionamento vi era la considerazione, solo abbozzata in marzo, della essenziale contiguità del PCI con i gruppi di estrema sinistra e con il terrorismo internazionale. Una contiguità che sussisteva nella radice ideologica di entrambi, per dirla con El Mercurio: Luís Corvalán ed Enrico Berlinguer avevano la stessa «etica» leninista del leader BR Franceschini; e negli obiettivi finali, vale a dire realizzare il socialismo e la dittatura del proletariato65. La differenza consisteva nei metodi adottati: mentre gli uni, i terroristi, ricorrevano ai sistemi più violenti, gli altri, i comunisti “ufficiali”, mostravano di accettare le regole democratiche e servirsi del partito, ma mantenendo intatti i loro legami con i primi. In una lettura altamente strumentale e che non teneva conto del percorso dei partiti comunisti dei due paesi, Cile e Italia venivano nuovamente accomunati: in entrambe le nazioni, i comunisti, pur avendo partecipato alla vita democratica, non avevano esitato a foraggiare i gruppi terroristici. Ancor più grave e inspiegabile, in virtù di tali esperienze, era la constatazione di una sorte di effetto domino in altre democrazie pluraliste e «tolleranti»66.
Ciò portò a sostenere che «la tattica tradizionale dei partiti comunisti e la tattica insurrezionale dei gruppi terroristi si completano e si confondono in una strategia comune che conduce al medesimo punto partendo da direzioni apparentemente opposte». In simile quadro interpretativo, pertanto, l’apertura a sinistra, di cui Moro era stato tra i protagonisti («un errore che gli [era] costato la vita»), aveva permesso il proliferare degli estremismi, mentre i partiti marxisti, una volta colpito a morte lo Stato, avrebbero potuto goderne i frutti67. In sostanza, la stessa linea della “fermezza” seguita dal PCI in maniera anche più rigida della DC, secondo questa lettura, sarebbe stata meramente strumentale, con il segretario Berlinguer che attendeva sulla riva il momento giusto per poter conquistare il potere68. Per la Tercera un processo analogo si era vissuto in Cile durante il governo democristiano, allorquando erano proliferati il MIR e altri gruppi terroristici; e ciò era stato possibile poiché proprio i regimi indulgenti, tolleranti e riformisti erano quelli che offrivano le migliori opportunità per le tattiche di conquista del potere da parte delle forze marxiste. Per fortuna, era però sopraggiunta la “sollevazione” nazionale guidata dalle Forze Armate, opzione, tuttavia, non praticabile in Italia. Nondimeno, ciò che era accaduto nella penisola rappresentava un monito: quello a cui lì si stava assistendo sarebbe potuto nuovamente accadere in Cile qualora si fosse voluta ristabilire la democrazia liberale69.
5. Conclusioni
La lettura effettuata dalla destra politica cilena, seppure grossolana e smentita dall’evoluzione del quadro politico italiano70, rende bene l’idea di cosa significò e come si cercò di interpretare la vicenda di Moro durante il regime militare. I 55 giorni del rapimento contribuirono ad alimentare la narrazione sulla presunta analogia tra i due paesi e sulla loro vicinanza. D’altronde, lo stesso esponente democristiano in una delle sue lettere nelle quali affrontò il tema dello scambio di prigionieri, fece riferimento agli accordi tra Breznev e Pinochet per il rilascio di dirigenti comunisti detenuti nel paese sudamericano71.
Questa volta, però, fu dall’altro lato dell’Atlantico che si cercarono di leggere i fatti italiani per trarne “lezioni” di vario genere. In questo senso la stampa, anche nel riportare le voci dei rappresentanti della giunta, giocò un ruolo fondamentale teso a costruire un duplice livello interpretativo, funzionale a una rivisitazione a uso e consumo interno. Per un verso, s’insistette sul rapimento Moro come risultato più alto del disfacimento delle democrazie liberali incapaci di reagire alla minaccia del terrorismo sia per mancanza di mezzi sia per deficienze legislative. La maggiore colpa di quei sistemi era di esser stati tolleranti e aver permesso la proliferazione del virus marxista, che con le sue connessioni internazionali rappresentava la maggiore minaccia per la pace sociale. Questa premessa permetteva di rileggere le stesse vicende cilene che avevano portato al golpe, processo a cui il caso italiano sembrava prestarsi alla perfezione per la somiglianza tra i sistemi politici dei due paesi. Così, i responsabili divenivano direttamente e indirettamente i democristiani, nel caso italiano perché avevano mantenuto il potere ininterrottamente dal dopoguerra e in quello cileno perché ciò era avvenuto nella fase cruciale degli anni Sessanta, aprendo entrambi, con la loro “tolleranza”, le porte all’ascesa del socialismo.
Con simili premesse l’Italia divenne, pertanto, un esempio lampante di crisi del sistema politico e istituzionale cui guardare con interesse non solo per cercare di esaminare gli sviluppi dei regimi democratici, ma soprattutto per ribadire come essi fossero inevitabilmente destinati alla corruzione e al disfacimento e, in definitiva, riaffermare agli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale la correttezza del cammino intrapreso dopo l’11 settembre. Tale processo di analisi e revisione risultava, peraltro, non isolato, ma funzionale al progetto politico della giunta volto alla rieducazione e risocializzazione della popolazione, specialmente degli strati popolari, al fine di sconfiggere definitivamente il marxismo. Il giornalismo divenne, pertanto, di fondamentale importanza nella denuncia dei metodi della sovversione, nella censura e nella giustificazione del modo di agire del regime civico-militare, e nella creazione di una sua nuova immagine sul piano interno e su quello internazionale72, tutti elementi a cui la crisi sistemica italiana aderiva perfettamente.
Il caso Moro fu, dunque, uno snodo fondamentale nel lungo parallelo italo-cileno, ma anche nel più generale interesse che la penisola mostrò verso il subcontinente, due aspetti strettamente connessi. Per quanto riguarda il quadro generale, proprio dall’omicidio del politico democristiano cominciò a declinare l’interesse italiano per le vicende latinoamericane, se si eccettuano la stagione guerrigliera in America centrale e il successivo faticoso ritorno alla democrazia dopo gli anni bui della guerra civile in molte realtà; e l’ultima fase della dittatura e poi della transizione democratica sempre in Cile73. Gli anni Ottanta non testimoniarono, tuttavia, una partecipazione dell’opinione pubblica italiana come nel decennio precedente, mentre intatto, se non ancor più elevato, fu il coinvolgimento dei partiti politici, specie democristiani e socialisti, nonché dei sindacati, attori in prima fila nella costruzione dell’intesa programmatica tra le forze di opposizione cilene. Nella nazione andina, invece, la stampa asservita al regime autoritario continuò a seguire spasmodicamente l’evoluzione della lotta armata in Italia, alla ricerca di continue conferme delle tesi elaborate durante i tragici e convulsi mesi del sequestro e dell’assassinio dello statista democristiano.
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Nota