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Dvořák e la tendenza nella conservazione dei monumenti

SANDRO SCARROCCHIA

Conversaciones…

Instituto Nacional de Antropología e Historia, México

ISSN: 2594-0813

ISSN-e: 2395-9479

Periodicity: Bianual

no. 5, 2018

conversaciones@inah.gob.mx



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Sommario: L’attualità del pensiero di Max Dvořák risiede nell’aver accentuato, rispetto alla lezione di Alois Riegl, l’estensione del valore spirituale, pedagogico e formativo di ciò che noi italiani intendiamo per beni culturali, da un lato; nell’aver stabilito l’imprescindibilità di un legame forte tra cultura di tutela e cultura dell’architettura e dell’urbanistica, conservazione e progetto dall’altro. Il primo ambito lo vide attivo e intelligente promotore della topografia artistica austriaca, accanto a studiosi memorabili come Hans Tietze e Erica Tietze-Conrat; il secondo tra i protagonisti della Tendenza, la corrente architettonica teorizzata da Aldo Rossi e assunta in questa sede nella sua potenzialità ermeneutica.

Parole: Contesto (del monumento), rapporto antico-nuovo, rapporto conservazione-architettura contemporanea, Tendenza.

Dvořák e la tendenza nella conservazione dei monumenti*

In memoria di Vittorio Savi

Il punto di vista

Furono Wilhelm Koehler e Dagobert Frey nei necrologi in onore di Max Dvořák a evidenziare che il tratto saliente della lezione del loro maestro consiste nell’avere identificato con chiarezza nell’arte contemporanea, nonostante i pochi interventi a essa specificamente dedicati, la potenza culturale che muove la valutazione e riconsiderazione critica dell’arte del passato e, pertanto, la sua tutela[1]. Tra i pochi storici dell’arte che hanno considerato unitariamente l’opera di Dvořák, Jeromir Nauman, nella ricostruzione del significato che essa ancora deteneva all’inizio degli anni Sessanta, nota che egli nella teoria della tutela si ricollegò a Riegl, ma al contempo ne corresse e ampliò la concezione in maniera significativa: secondo la sua opinione, ciò che ci induce e autorizza alla tutela non è soltanto il valore dell’antico, bensì il valore contemporaneo, che risiede nella capacità delle opere d’arte del passato di agire sulla contemporaneità in modo vivo e intenso (Neumann, 1962: 177-213).

Neumann si riferisce alla revisione dei valori operata da Dvořák nel saggio Culto dei monumenti e sviluppo dei valori, e così continua:

Proprio questa tesi, che non ha trovato adeguato approfondimento e considerazione, sembra contenere un notevole stimolo per la tutela contemporanea: Dvořák accentua in questo contesto il significato del valore artistico, e anche senza giungere a una qualche definitiva soluzione teorica dell’intera problematica, la sua concezione e la direzione del suo sviluppo scientifico indicano la via verso una nuova teoria della tutela. Dvořák ha indicato che i monumenti non debbono essere considerati dal solo lato formale, come fa Riegl, che apprezza particolarmente le tracce del tempo, bensì contemporaneamente e soprattutto dal lato del loro contenuto, della comprensione di tutti i momenti storici e della complessa portata ideale, con la quale giunge a espressione il messaggio dell’opera, il suo rapporto con l’ambiente e il suo significato per la contemporaneità (Neumann, 1962: 192).

Viene riconosciuto così a Dvořák di aver evidenziato l’importanza del valore artistico e il ruolo della ricezione contemporanea, non come acquisizione da parte di una sensibilità moderna di valori dogmaticamente consolidati, ma come possibilità ed esperienza di trasformazione dei dati medesimi, a partire dall’adeguata considerazione della loro moderna acquisizione. Tutto ciò, si badi, non costituisce una novità rispetto al quadro dei valori riegliani: nel valore contemporaneo di Riegl quest’orizzonte è già tutto prospettato e visto come la base conflittuale del restauro come potenza culturale (Scarrocchia, 2004: 19-28; Scarrocchia, 2006a). Sta di fatto che questo profilo evidenziato da Dvořák troverà riscontro nella teoria dei monumenti di Cesare Brandi, che negli anni in cui scrive Neumann giunge a pubblicazione (Scarrocchia, 2006b).

Il nuovo paradigma della conservazione e il confronto di Dvořák con Riegl

Non su quello generale della storia dell’arte, ma sul piano specifico della sua operatività, cioè all’interno della conservazione dei monumenti, è pensabile Dvořák senza Riegl? La risposta è no: senza l’opera di vera e propria fondazione disciplinare compiuta da Riegl con la sua teoria dei valori relativi del monumento e con la sua prassi di magistratura della cura, l’intero arco delle vaste riflessioni di Dvořák, nonché la rilevanza da lui attribuita alla dimensione spirituale, etica, pedagogica e formativa della tutela semplicemente non avrebbe potuto essere (Scarrocchia, 2011b). Bisognava riconoscere la conflittualità tra valore di novità e valore dell’antico, conflittualità che agisce anche all’interno del valore storico e del restauro come suo figlio legittimo, come ha fatto Alois Riegl, perché riportare il valore artistico al posto di comando nella tutela, come ha fatto Dvořák, acquisisse un senso positivo, di critica nei confronti della prassi del restauro di rifacimento e oltre il semplice ristabilimento dell’interrotta continuità storica. Bisognava estendere il valore monumentale anche alle opere non solo artistiche e non solo intenzionali, come ha fatto il fondatore, perché il prosecutore potesse estendere il riconoscimento di questo valore al contesto, all’intorno, alla superiore unità ambientale che il concetto di ensemble esprime[2].

Naturalmente, tra le due grandi figure di conservatori ci sono continuità e cesure, in egual misura importanti. Come abbiamo modo di apprendere dalle sue lezioni del 1906 e 1910, Dvořák critica la scala dei valori di Riegl, sostanzialmente al fine di riportare l’azione di tutela sotto l’egida della valutazione artistica[3]. Ma non si tratta di un giudizio di valore unico, tanto aristocratico quanto esoterico, bensì basato sul riconoscimento della relatività, cioè pluralità (dei punti di vista) e mutamento (non staticità della posizione del soggetto) dei giudizi, quindi su base riegliana. Respinge il valore dell’antico, come principio organicista e naturalistico della vita dei monumenti, per sostituirlo con un valore visivo (artistico, purovisibilista, di ordine estetico) che, di fatto, rispolvera il riegliano Kunstwollen, esaltandone il contenuto culturale e spirituale, nonché l’altrettanto riegliano concetto di Stimmung, ovvero la relazione sentimentale e il fatto emozionale della visione. Dà per acquisito il riconoscimento della necessità della tutela del patrimonio, definendolo uno stadio storico degli inizî della disciplina, e basa il valore contemporaneo, che deve spingerne l’azione, sul valore artistico. Da ciò dipende la funzione formativa, didattica e pedagogica della tutela, come pure la sua azione fiancheggiatrice dell’arte e dell’architettura contemporanea. E qui sta una differenza fondamentale rispetto alla lezione di Riegl, che riveste importanza per gli sviluppi disciplinari. Entrambi riconoscono nella contemporaneità il motore della tutela, secondo il principio di matrice hegeliana che un monumento di per sé non è ancora un monumento, ma per Riegl esso coincide con il valore dell’antico in quanto quintessenza del conflitto tra novità e storia nella contemporaneità; per Dvořák esso coincide invece con il valore artistico. Perché? Si può vedere la lezione di quest’ultimo come un passo indietro rispetto a Riegl. In questo senso si potrebbero interpretare le schematiche abiure dei restauri ottocenteschi che appaiono nel Catechismo, che oggi hanno guadagnato il riconoscimento di valore monumentale[4]. Ma anche come un passo avanti, in quanto lo sguardo di Dvořák è rivolto a interpretare l’altro polo del conflitto tra novità e storia nella contemporaneità, cioè a misurarsi con il ruolo dell’arte nella crisi della cultura e con le implicazioni di questo confronto per le sorti del patrimonio. Secondo questa interpretazione, la militanza di Dvořák nelle file della tutela ne registra il mutamento in un periodo cruciale e aiuta, altresì, a comprendere come l’arte vada caricandosi di un valore comunicativo superiore e/o potenziato. A questo si riferiscono altri autori e colleghi come Paul Clemen, con la sua definizione del valore simbolico; Hans Tietze e Julius von Schlosser con la teoria dei valori alti dell’opera del genio e dell’insularità dell’artista[5]. Senza questi concetti sarebbe difficile pensare l’ermeneutica della monumentalizzazione dell’arte e dell’architettura nei totalitarismi degli anni Trenta.

Non solo. Riconoscendo il valore di ensemble come superiore unità monumentale, concetto tematizzato nel Catechismo e in molti altri scritti, Dvořák ha legato le sorti della tutela al destino della pianificazione e dell’urbanistica, cioè alle tecniche novecentesche di modificazione del territorio e gestione dell’ambiente[6].

Riegl ha posto il monumento oltre l’arte, predisponendo la conservazione all’Entsagung, cioè alla rinuncia stilistica, aprendo la tutela a un’antropologia della Mischkultur, della dissonanza temporale e culturale, nonché attrezzandola alla gestione dei conflitti tra gli interessi conflittuali che producono la crisi e dei valori inconciliabili che la crisi sprigiona. Dvořák ha riportato l’arte al centro della tutela ma in un’accezione, della prima, talmente dilatata da comprendere il quadro urbano, territoriale e ambientale e, della seconda, come fattore propulsivo della tendenza dell’arte e dell’architettura contemporanea.

Tutela, arte e architettura contemporanea: Dvořák, Kokoschka, Loos e il Clasico come tendenza



Ci si potrebbe domandare perché l’antica cultura dovette essere interrotta e la relazione con essa nuovamente trovata?

Source: Max Dvořák (1912)

Imposta dalla crescita del movimento per la tutela conseguente all’interpretazione estensiva e territorialmente definita dei valori monumentali, oppure dalle istanze del Moderno affermatesi con la rivoluzione industriale e coi nuovi materiali disponibili, la novità nel discorso disciplinare di Dvořák è quella di prendere partito nelle questioni artistiche e di riconoscere l’intreccio tra missione pedagogica della tutela e attività critica. Se un conservatore non potrà essere più “consigliere del gusto”, come aveva già proclamato Riegl una volta per tutte, tuttavia, per esercitare il suo magistero non potrà sottrarsi dall’intervenire criticamente sulla tendenza dell’arte e dell’architettura contemporanee.

Il tema che Dvořák pone al centro della riflessione e che guida il suo pensiero anche nell’attività pratica di tutela è quello della continuità del classico, ovvero della ricerca artistica che studia e conosce la tradizione, ma la rivive e interpreta soggettivamente; è in grado, cioè, di farla vivere nella contemporaneità[7]. È la tendenza artistica di Kokoschka e di Loos.

In uno dei suoi ultimi scritti Dvořák commenta la serie dei ritratti di Kamilla Swoboda, moglie di Karl Maria, suo assistente, eseguiti da Kokoschka. L’artista riesce a conferire un’oggettività classica e spirituale all’espressione di movenze e sensibilità fortemente soggettive. Dvořák vede in lui la personalità in grado di tradurre il neo-idealismo viennese nella pittura: un’arte nuova e classica, cioè dotata di una unità propria, pertanto innovativa, ma, al contempo, compiuta, dunque classica (Dvořák, 1921; Aurenhammer, 1998: 34-40).

Con Loos Dvořák condivide sia la presa di distanza dalla Heimatschutzbewegung che dal Werkbund. Nel 1911 pubblica un manifesto per la riforma delle scuole di architettura che risale al 1801. Dvořák fa suo l’orientamento che circolava all’interno dell’Accademia di Belle Arti di Vienna: «Quantomai errato è ritenere che ogni costruttore possa edificare a suo piacimento, soltanto l’interno gli pertiene, che può far allestire come meglio crede. Ma l’esterno appartiene alla sfera pubblica» (Dvořák, 2011k: 434). Anche Loos aveva difeso il ruolo civile che spetta all’architettura con lo stesso spirito e con parole simili: «La casa deve piacere a tutti, a differenza dell’opera d’arte, che non deve piacere a nessuno. L’opera d’arte è una questione privata dell’artista. La casa no» (Loos, 1962: 314)[8]. Entrambi, Dvořák e Loos, condividono il giudizio che l’ultimo Moderno è stato il classicismo del primo Ottocento e su questo credo basano la critica nei confronti dell’ultimo Modernismo d’inizio Novecento[9]. Il testo-manifesto di questa tendenza è la conferenza di Dvořák del 1912, intitolata Die letzte Renaissance, ovvero l’ultimo Rinascimento, che prende le distanze dal funzionalismo wagneriano, giudicato ancora storicista sul piano compositivo. I pionieri della nuova tendenza sono: Karl Friedrich Schinkel, Alfred Messel, Ludwig Hoffman (Figure 1-3). Sulla linea, altri comprimari, come Joseph Maria Olbrich, Hermann Billing, Martin Dülfer, e alcune discutibili presenze, come Bruno Schmitz, fortemente criticato da Marcello Piacentini in quanto portatore di un’idea grossolana del monumentale[10]. Ma Loos è l’esponente per eccellenza, come specificato da Hans Tietze, che considera la casa in Michaelerplatz nuovissima per temperamento e aderenza formale alla funzione, ma parimenti rispondente alle esigenze dell’architettura della città, alla sua tradizione e alle particolarità del sito, dunque con un’argomentazione incomprensibile senza il magistero dvořákiano e al di fuori del piano di giudizio da questo imposto (Tietze, 1910: 33-62)[11].

KARL FRIEDRICH SCHINKEL, ALTES MUSEUM,
1825-1830, Berlin, Bodestraße 10.
FIGURA 1.
KARL FRIEDRICH SCHINKEL, ALTES MUSEUM, 1825-1830, Berlin, Bodestraße 10.
Immagine: ©Wolfgang Bittner, Landesdenkmalamt Berlin.

LUDWIG HOFFMANN, PERGAMONMUSEUM, 1910-1930,
sviluppo del progetto di Alfred Messel, 1907-1909, Berlin, Am Kupfergraben.
FIGURA 2.
LUDWIG HOFFMANN, PERGAMONMUSEUM, 1910-1930, sviluppo del progetto di Alfred Messel, 1907-1909, Berlin, Am Kupfergraben.
Immagine: ©Wolfgang Bittner, Landesdenkmalamt Berlin.

LUDWIG HOFFMANN,  

NEUES
STADTHAUS, 1902-1911, Berlin.
FIGURA 3.
LUDWIG HOFFMANN, NEUES STADTHAUS, 1902-1911, Berlin.
Immagine: ©Wolfgang Bittner, Landesdenkmalamt Berlin.

Loos e Kokoschka rappresentano le lampade della teoria della conservazione di Dvořák. Una sintesi di tale potenza tra vicenda dell’arte, della pittura nello specifico, dell’architettura, in tutta la dimensione critica e civile di cui la carica il maestro costruttore viennese, e cultura di tutela non può non considerarsi straordinaria. Hans Aurenhammer ha ricostruito dal punto di vista storico-artistico la silloge dei rapporti tra le tre personalità in maniera impeccabile, evidenziando il legame che si viene a stabilire, non certo per la prima volta, ma qui in misura davvero rilevante, tra istanze del Moderno e cultura di tutela, impegno critico militante e indirizzo conservativo (Aurenhammer, 1998; Aurenhammer, 1996: 9-39, 289-294; Aurenhammer, 1997: 23-39). Non resta che cercare di svolgere l’originalità di quest’approccio dal punto di vista della tutela dei monumenti, al fine di delinearne l’importanza storicodisciplinare, ma anche per saggiarne l’attualità.

“Borromini come restauratore” e sul rapporto tra Manierismo e Moderno (e postmoderno)

Il manifesto della tutela di Max Dvořák non è, si badi, il Katechismus, bensì Francesco Borromini als Restaurator. Si tratta di un breve saggio, per nulla minore, comparso nello Jahrbuch della Commissione centrale nel 1907. Insolito, per la scarsa attenzione riservata dagli storici dell’arte alla materia del restauro fino a quel momento e per molto tempo ancora, risulta ancor più importante perché dotato di un marcato profilo teorico (Dvořák, 2011: 217222; Dvořák, 1996: 235-250)[12]. L’autore vi sostiene, sul piano storico-critico, l’applicabilità dei caratteri della composizione spaziale e del rapporto innovativo con l’antico, che egli più tardi individuerà come specifici del Manierismo, all’architettura di cui l’opera di Borromini, dopo Michelangelo, sarebbe somma espressione. Individua in essa, e in particolare nel rifacimento della Basilica di San Giovanni in Laterano voluto da papa Innocenzo X per l’Anno Santo del 1650, l’inizio di una concezione moderna del monumento e di un nuovo rapporto con il reperto monumentale. Il Manierismo è non solo chiave di volta per la critica d’arte, quindi, ma altrettanto fondamento della moderna cultura di tutela. Il Manierismo, per Dvořák, nei suoi studî sullo svolgimento della pittura da Tintoretto ed El Greco a Kokoschka, indica un orizzonte di ricerca artistica e linguistica post-classica, fortemente improntata al/dal Geistiges. Il Manierismo esprime qui una sintonia contemporanea con la Krisis del secondo decennio del Cinquecento. Il Manierismo è ponte tra due crisi: questa cinquecentesca e quella post-impressionista che investe la scena culturale e artistica viennese. Dvořák è riconosciuto, pertanto, unanimemente come pioniere della (ri)valutazione di questa epoca, ovvero di entrambe queste due epoche, di crisi[13].

Con il saggio su Borromini come restauratore il tentativo di trovare una categoria interpretativa idonea a comprendere la crisi artistica, la risposta a questa crisi e al tentativo di sganciarsi da essa, viene esteso alla conservazione. La crisi del linguaggio classico del pieno Rinascimento, che l’atteggiamento manierista esprime, rappresenta anche la ricerca di un nuovo rapporto col passato e con i monumenti ereditati. La tesi che egli sostiene è che, in assenza di questo (nuovo) rapporto, il concetto stesso di monumento, come definito da Ruskin e da Riegl, semplicemente non sarebbe (stato) possibile. Borromini e l’origine della cultura di tutela contemporanea: questo il sottotitolo implicito del saggio.

Saltando l’analisi tecnica dell’intervento di restauro lateranense[14], Dvořák ne sottolinea tre aspetti fondamentali: 1) il rispetto dell’impianto originale nella trasformazione dell’interno; 2) il nuovo allestimento per la presentazione di monumenti artistici; 3) l’unità compositiva spaziale.

Il primo aspetto aveva già colpito l’attenzione di Passeri, che nelle sue Vite de’ pittori, scultori ed architetti del 1772 aveva sottolineato come l’intervento fosse stato condotto «senz’alterare la pianta, senza muovere mura, e senza scomponimento del tutto»[15]: una novità storica, subito colta dai contemporanei.

Il secondo segnala un’assoluta novità rispetto alla risistemazione di opere antiche compiuta nelle chiese di Santa Croce a Firenze, dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia e a San Pietro a Roma, in cui il valore intenzionale in quanto memoria, aristocratica, patriottica e devozionale, si esprime nella forma del «Mausoleum der kommunalen Vergangenheit», cioè del “mausoleo del passato civico” e della storia della Chiesa. Borromini, invece, presenta formelle e sculture medievali in altari di nuova concezione, facendo del contrasto temporale il tema del progetto di riallestimento: «da un lato dunque la più ampia mancanza di riguardo nei confronti di ogni testimonianza pervenuta, dall’altra una straordinaria attenzione per quanto ci è stato tramandato – non si tratta di una difficoltà senza uguali?» (Dvořák, 2011a: 220)[16]. Questo specifico profilo di recupero, e non restauro, dei monumenti antichi ereditati è sottolineato anche da Arnoldo Bruschi come uno dei tratti caratterizzanti la nuova architettura borrominiana dispiegata in San Giovanni:

Più tardi, nella straordinaria serie di cenotafi commissionati da Alessandro VII, la programmatica volontà di recupero delle reliquie dei monumenti funebri dell’antica basilica, offre al Borromini l’occasione stimolante per inedite ed irripetibili invenzioni animate dall’accostamento di elementi esibiti come diversi e contrastanti[17].

La messa a fuoco critica da parte di Dvořák del manierismo spaziale borrominiano, secondo Bruschi, colloca la sua lettura sulla stessa lunghezza d’onda sulla quale anche architetti suoi contemporanei stavano muovendo le loro riflessioni di teoria e metodo del progetto. Infatti, l’accentuazione critica da parte di Dvořák della freie Behandlung der Räume, del libero trattamento degli spazî proprio del Borromini restauratore, cioè sostanzialmente della “composizione spaziale” come superamento della composizione delle masse e delle forme, è in sintonia con la riflessione sul Raumplan di Adolf Loos e sulla composizione costruttiva come Raumgestaltung di Fritz Schumacher[18].

La lettura che Dvořák ci offre delle innovazioni compositive e linguistiche borrominiane da un lato ne esalta il soggettivismo, individuando nel maestro di Lugano «der wahre Erbe Michelangelos», “il vero erede” e geniale prosecutore di Michelangelo, dall’altro le colloca in un orizzonte post-classico di straordinaria modernità:

poiché gli elementi tettonici hanno perduto il loro significato artistico, anche la loro forma è diventata irrilevante e pertanto vengono abbandonate norme millenarie, volte si piegano e avvolgono quasi fossero di pasta, colonne non sostengono alcunché, i muri vengono rigonfiati come tessuti elastici e la scultura considerata completamente indifferente, nient’altro che una componente nel complessivo effetto decorativo e perciò risulta del tutto trascurabile la sua realizzazione nel dettaglio (Dvořák, 2011a: 221).

Questa interpretazione rafforza ancora di più l’immagine di Bruschi che colloca Borromini oltre il Barocco, ed evoca il paesaggio post-moderno o, se si vuole, de-costruttivista delle architetture di Aldo Rossi, Robert Venturi, Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Peter Eisenman… Si può tentare di trarne per la tutela una duplice lezione. Innanzitutto Borromini riporta in auge una modalità della valorizzazione dell’antico, delle antiche sculture nel caso specifico dei cenotafî, proprio dell’arte tardo romana e bizantina[19].

Da ultimo ma non per ultimo, il modo con il quale Borromini ha tematizzato la contemporaneità e, dunque, la temporalità del suo rapporto con i monumenti del passato: un rapporto vivo, che Dvořák giudica diverso e antitetico a quello degli “antiquari nella scienza e nell’arte”, e che ci consente di «valutare l’effetto di un antico monumento in base alla relazione con un più alto principio architettonico» (Dvořák, 2011a: 222)[20]. Insomma, senza questo contributo artistico, secondo Dvořák, noi, a partire dai pionieri Ruskin e Riegl, non saremmo potuti giungere a concepire la specificazione determinante e inedita del valore monumentale nelle sue relazioni contestuali e ambientali, ovvero in un superiore quadro unitario, oltre il monumento inteso nella sua immutabilità fisica e staticità temporale. Ciò rende evidente il rapporto tra storia dell’arte e tutela, ribadisce la conservazione come operante storia dell’arte, pone la riflessione di Dvořák in un orizzonte post-riegliano.

L’ultimo Rinascimento e la tendenza del moderno Classico: il post-storicismo di Dvořák



Vecchi e nuovi edifici. Gli ultimi furono i più acerrimi nemici dei primi, per tutto il tempo che ne furono dipendenti.

Source: Max Dvořák (1910)

Il Manierismo sintetizza il rapporto che s’instaura tra classicismo e moderno nel pensiero di Dvořák. Il suo Borromini è post-classico, nel senso in cui Francesco Arcangeli ha chiarito lo spirito anticlassico manierista: «una geniale rivolta, ma interna allo spirito stesso del classicismo» (Briganti, 1946: 159).

Al tema della crisi e del caos dell’arte contemporanea si rivolge l’importante conferenza dal titolo programmatico Die letzte Renaissance, che Dvořák tenne il 22 febbraio 1912 nell’Österreichischen Museum für Kunst und Industrie, l’attuale MAK. La data ha qui la sua rilevanza, perché nella stessa serata Otto Wagner tenne nella sala delle feste del Niederösterreichisches Gewerbeverein la sua conferenza sul tema Die Qualität des Baukünstlers. E l’importanza della coincidenza è duplice: innanzitutto perché entrambi i grandi conferenzieri si confrontano con la tendenza dell’architettura contemporanea; inoltre perché Dvořák espone pubblicamente la sua posizione critica, che considera la lezione di Wagner superata da un punto di vista storico-artistico e la sua architettura niente più che un preludio della nuova tendenza moderna, peraltro diversamente orientata[21]. Parole dure, schiette, che si udranno ancora nel corso degli anni Venti e primi anni Trenta, fino a quando i totalitarismi non giungeranno ad azzerare il contributo della critica e a trasformare arte e architettura in politica fatta con altri mezzi, e poi, in stagioni meno cruente, solo raramente, fino a scomparire del tutto ai giorni nostri, in cui il critico è diventato press-agent dell’archistar, prolungamento del suo staff.

Mentre il contributo di Wagner fu più volte pubblicato allora, riscuotendo subito attenzione, ed è stato ripubblicato di recente, il testo della conferenza di Dvořák è rimasto sconosciuto fino al 1995, allorché è stato edito per la prima volta e commentato da Aurenhammer (Dvořák, 1997). D’altra parte il testo della conferenza di Dvořák e, non di meno, il commento di Aurenhammer, risultano preziosi al fine di precisare ancora meglio l’importanza che il massimo responsabile della tutela austriaca riconosceva al rapporto tra cultura della conservazione e istanze dell’arte e, nella fattispecie, dell’architettura contemporanea.

Le considerazioni di Dvořák prendono le mosse dalla situazione artistica che il laico recepisce come caos e il critico come crisi. Essa inizia e coincide con la decadenza dell’eclettismo ottocentesco. La condanna senza appelli dell’eclettismo esprime la sensibilità aristocratica dello storico e la ripulsa del Protzentum, del cattivo gusto caratterizzante la Gründerzeit, l’epoca della rivoluzione industriale e dell’accumulazione repentina di grandi fortune economiche. Egli riconosce la relatività del giudizio storico, ovvero, sulla scia di Riegl e Tietze, che non tutto l’Ottocento e lo storicismo ottocentesco è spazzatura. Tuttavia al suo interno è cresciuta la mala pianta che ha portato alla sostituzione di preesistenze modeste ma dignitose e, cosa della massima importanza, dotate di una temporalità non presa in prestito con edifici pretenziosi e carichi di una storicità artefatta, com’era accaduto nel caso a lui particolarmente a cuore dello Haus zur goldenen Kugel, sorto in sostituzione del vecchio tessuto edilizio nella centralissima piazza viennese Am Hof, oppure nella costruzione di opere tanto grandiose quanto anacronistiche, come il Duomo berlinese (1894-1904) di Julius Carl Raschdorf. Questo storicismo rappresenta l’ultimo capitolo di una vicenda iniziata col tardo Michelangelo e che si può definire Barocco, come starebbe a dimostrare il progetto di Semper per il “Kaiser-Forum”, che prevedeva il collegamento della piazza dei musei all’Hofburg, sulla falsariga della sistemazione di Piazza del Campidoglio. Ma mentre l’esplosione compositiva barocca raggiunge una superiore unità, lo storicismo eclettico manca quest’obiettivo e la differenziazione dei caratteri compositivi diventa banalizzazione, fine a se stessa.

Non tutto l’Ottocento è banale. Dvořák pone l’accento sull’assoluta originalità rappresentata dalle costruzioni in ferro, riscontrando, forse tra i primi e sulla scia dell’estetica dei nuovi materiali di Cornelius Gurlitt, i tratti di «una nuova oggettività, sincerità tecnica, purezza» (Gurlitt, 1889), da considerare «un’aquisizione duratura» (Dvořák, 1997: 13)[22]. E soprattutto riconosce l’influenza esercitata dal Werkbund e dalla nuova cultura industriale, soprattutto nella versione critica che di essa dà Adolf Loos (1921)[23], sul concetto di monumento, non più visto come deposito di stili da restaurare, perfezionare, integrare, stravolgendone il significato e l’essenza. Dalla contemporanea Kunstindustrie e Industriekultur scaturisce la conservazione, il suo orizzonte oltre il restauro.

Certamente anche Wagner e la sua scuola hanno svolto una funzione innovativa in tal senso. Ma la nuova architettura non è più da lui rappresentata. Dvořák vede nella nuova Accademia di Wagner la traslazione del credo decorativo di Van de Velde: una critica loosiana del caposcuola viennese, straordinaria e strategica ai fini della tendenza dell’architettura contemporanea. Quest’ultima, infatti, può essere rintracciata nelle opere di Joseph Olbrich per la colonia artistica sulla Mathildenhöhe a Darmstadt, nel padiglione espositivo di Hermann Billing a Mannheim e nel progetto di teatro per Hagen in Westfalia di Martin Dülfer. Come inserimento del nuovo nel contesto storico Dvořák indica ancora due casi: il progetto per la nuova fronte occidentale del duomo di Freiberg in Sassonia di Bruno Schmitz e il progetto di Alfred Messel per il museo per le antichità tedesche e del vicino oriente nell’isola dei musei a Berlino. Si tratta di due esempî molto disparati: per quanto onesto, piuttosto banale il primo e assolutamente non dotato di qualità particolari, anzi di una modernità semplificata talmente generica da non distinguersi dalla facciata di un centro commerciale, come il Kaufhoff di Wilhelm Kreis a Colonia per esempio; importantissimo il secondo, in quanto capace di stabilire un rapporto strettissimo con i precedenti complessi museali, quali l’Alte Pinakotek di Schinkel (Figura 1) e il Neues Museum del suo allievo August Stüler in particolare (Figura 4), nonché un termine di paragone per tutta la vicenda successiva dell’isola dei musei, a partire dal gigantesco progetto di ampliamento di Wilhelm Kreis nell’ambito dei piani di Hitler-Speer per Berlino-“Germania” fino al concorso per la riparazione dei danni di guerra di anni recenti[24].

FRIEDRICH AUGUST STÜLER, NEUES MUSEUM,
1843-46, Berlin, Jüdenstraße 34-42, dopo il restauro di David Chipperfield,
1997-2009.
FIGURA 4.
FRIEDRICH AUGUST STÜLER, NEUES MUSEUM, 1843-46, Berlin, Jüdenstraße 34-42, dopo il restauro di David Chipperfield, 1997-2009.
Immagine: ©Wolfgang Bittner, Landesdenkmalamt Berlin.

Il ritorno al Classico si verifica ogni volta che si perde il fatto tettonico e si scade nel decorativo: così è stato per il Romanico all’inizio del IX secolo, così per il Rinascimento agli inizi del XV e così per il Moderno agli inizi del XX. Ma già nell’Ottocento si era verificata una reazione al Rococò[25], particolarmente forte con Karl Friedrich Schinkel, il (neo)classicismo del quale Dvořák interpreta come Manierismo (nel senso di Arcangeli sopra ricordato, ma anche del suo Borromini), scorgendovi una disposizione barocca che utilizza parole antiche. Segnala, inoltre, l’analogia di questa reazione con i ritorni classicisti dei secoli XII e XIII, nonché della funzione di ponte con le correnti classiciste sei e settecentesche esercitata nella pittura da pittori come Feuerbach e von Marées.

La tendenza individuata da Dvořák è quella della rinascita di un classicismo moderno o, se si vuole, di un moderno Classico, che all’interno di mutate coordinate culturali e storico-sociali sarà ripresa negli anni Venti dalla rivista «Wasmuths Monatshefte für Baukunst» di Werner Hegemann e Leo Adler; negli anni Trenta da Marcello Piacentini e dalla rivista «Architettura» da lui diretta[26]; in un orizzonte postmoderno, inclusivo della dimensione poetica e figurativa, da Aldo Rossi (Figura 5)[27]. Il piano di questo classicismo moderno è umanistico e scevro da implicazioni nazionalistiche, prova ne sia l’ammirazione di Dvořák per Plećnik, considerato un rappresentante della tendenza panslavista, ammirazione ancor più importante se si tiene conto della prediletta tendenza pantedesca dvořákiana[28]. La conferenza, infatti, si conclude con una perorazione in favore della cultura e della formazione umanistica, in quanto la più idonea a fare propri i valori spirituali della tendenza sopra schizzata, a completamento di quella tecnica e in antitesi a una specializzazione che porti alla separazione delle due culture. Facile riscontrare le implicazioni anticapitalistiche di questa posizione; più difficile considerarla semplicemente rivolta all’indietro, oppure, diversamente e più verosimilmente, classicomoderna.

ALDO ROSSI, MONUMENTO IN ONORE DI 

SANDRO
PERTINI, 1988, Via Croce Rossa, Milan.
FIGURA 5.
ALDO ROSSI, MONUMENTO IN ONORE DI SANDRO PERTINI, 1988, Via Croce Rossa, Milan.
Immagine: ©Irene Scarcella, Milano

Considerando le implicazioni per la tutela dei monumenti, si può constatare che con Die letzte Renaissance Dvořák descrive un orizzonte post-storicista, che trascina con sé la cura dei monumenti in una prassi giocoforza posta oltre il restauro. La sua critica allo storicismo è radicale, sommaria, senza appello, tanto da risultare se non addirittura incoerente (ammessa la relatività del giudizio di valore) almeno grossolana, se la si considera alternativa a quella di Tietze (e di Riegl) ma, invece, sostanzialmente a essa complementare. Tietze, infatti, partendo da un’analisi della situazione di crisi dell’arte contemporanea concordante con quella di Dvořák, propendeva per un giudizio più aperto e meno drastico sul pluralismo delle tendenze affioranti dall’esplosione stilistica fomentata dallo storicismo. Tietze ribalta il radicalismo dvořákiano, riscontrando addirittura in quel pluralismo caotico e ancor incomprensibile la fonte della moltiplicazione dei valori artistici moderni e contemporanei che consente alla cultura di conservazione di porsi in un orizzonte oltre il restauro, dunque post storicista[29].

La critica dello storicismo di Dvořák stigmatizza e respinge la stagione del restauro aggressivo, correlata a corruzione del gusto e decadimento artistico, architettonico e urbanistico[30]. Stabilisce un legame tra riproducibilità tecnica dell’opera d’arte e restauro, in una sorta di equiparazione di quest’ultimo al falso e alla copia[31]. Sostiene, radicalmente, che il restauro ottocentesco abbia rappresentato un gigantesco processo di falsificazione del patrimonio e, di fatto, con ciò stabilisce una sorta di legge di corrispondenza tra questo e la corruzione artistica della Gründerzeit. Limitato e anche errato che sia il giudizio di partenza, esso serve a Dvořák, insomma, per calcare la mano sulla difficoltà e necessità di risollevare la tutela da questa falsa partenza o, comunque, di dare a essa altra direzione, diverso orientamento. Rendendola a tutti gli effetti complementare alla tendenza.

Quali le strade? Non l’arte “nuova”, come pure invocato da Dehio, perché immediatamente essa si trasforma e corrompe in “nuovismo”. Da qui la scelta dell’aggettivo letzte per indicare la tendenza, al posto di “neue”: “ultimo” rinascimento del classico nell’età contemporanea. Né l’arte reclamata dalla Heimatschutzbewegung, in quanto basata su concetti e non su esperienze artistiche e comunque tendente a sostenere “alte Rezepte”, vecchie ricette dai sapori locali. Due le vie: innanzitutto lavorare con (e sul)l’opinione pubblica, cioè con la diffusione più ampia possibile delle conoscenze sul patrimonio in modo da estenderne la consapevolezza sociale; inoltre coltivare il pensiero critico e radicale a sostegno della cultura artistica.

Anche se apparentemente discordante dal giudizio di Tietze, più possibilista nel vedere un rapporto positivo tra Heimatschutzbewegung e Moderno (Tietze, 1909), di cui l’opera di un maestro quale Heinrich Tessenow dimostrerà ampiamente la plausibilità, i giudizî dei due grandi esponenti della tutela austriaca convergono nel riconoscere il rapporto tra arte, architettura contemporanea e tutela, con la specificazione che dove il primo, Tietze, vede un pluralismo, il secondo, Dvořák, una tendenza.[32] A dimostrare, dunque, una certa strumentalità delle stroncature di Dvořák e non un maggior radicalismo loosiano (rispetto alla posizione di Tietze), sta il fatto che uno dei suoi ultimi interventi è proclamato in un’assise congiunta di Denkmalpflege e Heimatschutz, cioè il terzo congresso unitario di Eisenach del settembre del 1920: perché prendervi parte se veramente vi si fossero coltivate soltanto alte Rezepte?

In quest’occasione Dvořák affronta il tema della conservazione e riutilizzo dei grandi complessi della monarchia, come castelli e giardini, nel nuovo contesto repubblicano; sottolinea la necessità di stabilire la compatibilità tra carattere e valori di questi monumenti e il nuovo utilizzo, perciò critica il falso spirito rivoluzionario dell’ipotesi di allocarvi scuole, ospedali e altre analoghe strutture sociali, in quanto incompatibili con quei valori e, perciò, diseconomiche (Dvořák, 2011l). Ribadisce che la missione della tutela consiste sostanzialmente in una scuola di resistenza[33], che privilegia i valori ideali su quelli materiali, difende i diversi partiti e interessi, nonché le diverse tendenze. Pertanto, una tutela affrancata dai difetti di origine ottocentesca, può aprirsi anche alla pluralità dei valori che stava a cuore a Tietze. E la conclusione di Dvořák è quanto di più utopistico si potesse allora pensare. I colleghi tedeschi si erano adoperati per offrirgli la cattedra di storia dell’arte all’Università di Colonia, che gli avrebbe assicurato un po’ d’agio, rispetto alle difficili condizioni economiche in cui versava l’Austria[34]. Egli decise di restare a Vienna e ai piedi delle rovine dell’impero ha una visione piena di speranza: nell’Ottocento la tutela ha riportato scarsi successi contro il materialismo, ma oggi è possibile scorgere un nuovo inizio, in cui i valori ideali avranno la meglio su quelli materiali. Il nuovo contenuto spirituale, oltre le grandi sintesi culturali del Rinascimento, della Riforma e del Cristianesimo, sosterrà una nuova pietà come principio ispiratore della tutela dei monumenti. Nulla potrebbe esprimere profondamente il rapporto tra istanze del Moderno e cultura della conservazione nel pensiero e nell’opera di Dvořák più di questa sua visione, espressionista come le utopie concrete[35] di Adolf Loos, impegnato con il suo Ufficio per l’arte e, ancor più, con le sue Siedlungen nella costruzione della “Vienna rossa”, e di Bruno Taut, alla testa del piano socialdemocratico per Magdeburgo. Affidare alla conservazione un mandato così ampio poteva accadere soltanto nella terra dell’universalismo culturale: l’Austria[36].

Sulla tomba di Dvořák

La sepoltura di Dvořák, addossata al muro di cinta del cimitero di Grußbach presso Znaim (Hrušovany), donata e scelta personalmente dal conte Franz Liechtenstein, è segnalata da una preziosa croce neobarocca in ferro battuto con il Cristo e l’occhio di Dio all’apice, finemente lavorata: un segno di riconoscenza per il grande interprete del Manierismo, espresso in una forma tradizionale aristocratica e, al contempo, familiare.

Di tutt’altra tempra il cenotafio progettato e non realizzato da Adolf Loos per ricordarne la memoria nel Zentralfriedhof di Vienna: un cubo con cuspide a ziggurat tutto di granito nudo, privo di qualsiasi ornamento, a eccezione degli affreschi che vi avrebbe dovuto eseguire Oskar Kokoschka: una sacralizzazione dei valori architettonici e artistici in omaggio a uno dei maggiori critici contemporanei.

Entrambi coevi, del 1921, rappresentano, come ha suggerito acutamente Eva Frodl-Kraft (1974: 144), due precisi momenti della Denkmalsgeschichte als Geistesgeschichte, della storia dei monumenti come storia dello spirito: il primo si rivolge direttamente alle emozioni dell’osservatore in senso evocativo, allusivo, facendo ricorso alle forme della tradizione barocca; il secondo cancella ogni allusione in una forma ridotta al minimo, ma che pure ricorre a parole antiche (lo ziggurat), per ricordare che il sepolcro è il luogo dell’architettura, arca dei suoi valori[37], e il moderno non è alternativo a tradizione, meglio, a classico[38].

La ricezione della lezione di Dvořák: Hans Sedlmayr, Bologna centro storico, Aldo Rossi e la tendenza oggi

Negli anni Venti, a partire da una valutazione dell’opera di Le Corbusier come architettura assoluta, diversa ma pur in sincronia con quella dell’altro allievo di Dvořák, Emil Kaufmann, che vi ravviserà l’esito di un’architettura autonoma che ha inizio con Ledoux e con gli architetti rivoluzionari francesi, Hans Sedlmayr si propone difensore del centro storico viennese sulla scia dell’iniziativa del maestro, propugnando di costruire all’esterno il nuovo centro moderno, sulla falsariga della proposta poi contenuta nella Carta di Atene. Il carattere architettonico del nuovo centro moderno perderà, però, nel corso dell’annessione nazista il suo tratto autonomo, per acquisire quello dell’architettura parlante, organica alla sintesi sociale totalitaria[39]. E questa è la vicenda, ricostruita con dovizia da Hans Aurenhammer, che getta ombra sulla figura dello storico dell’arte, auto-accreditatosi erede della Scuola viennese e della sua tradizione, ma disconosciuto a guerra finita dalla scuola stessa, nell’ambito della denazificazione. Dopo essere stato riabilitato e aver assunto la cattedra di Storia dell’arte all’Università di Salisburgo, Sedlmayr riprenderà il tema della tutela proprio in occasione di una perorazione-manifesto per la salvaguardia del centro storico della città. Si tratta di un testo importante perché getta, di fatto, un ponte tra la tradizione della Scuola di Vienna, tra la lezione di Dvořák nella fattispecie, e la problematica della conservazione dei centri storici, che allora si stava configurando e che trascinava con sé la grande questione del rapporto tra architettura nuova e tessuto storico. Di più: Sedlmayr fa proprie in quest’occasione alcune riflessioni che andava sviluppando su questi temi Roberto Pane e che confluiranno nella Carta di Venezia, stabilendo così per la prima volta un reale terreno di confronto tra cultura di tutela austriaca e italiana. Se, infatti, fino ad allora, nessuno studioso italiano si era veramente confrontato con la lezione della tradizione austriaca, ora uno studioso austriaco richiamava l’attenzione sull’attualità di questa tradizione e la poneva in continuità con una delle espressioni più avanzate del dibattito in corso in Italia.

Il testo Die demolierte Schönheit. Ein Aufruf zur Rettung der Altstadt Salzburgs è del 1965 e si compone di otto paragrafi (Sedlmayr, 1965). Prende le mosse dal problema della conservazione del centro storico, sottoposto a pressioni edilizie in parte conseguenti alla ricostruzione postbellica, ma soprattutto esercitate dallo sviluppo economico e urbano neocapitalistico. «Das alte Lied», “vecchia solfa”, egli considera la ricostruzione e integrazione del tessuto storico nelle forme e strutture della cultura architettonica contemporanea: “Illusionen” sono tanto le manifestazioni del modernismo provinciale quanto i rifacimenti stilistici.

Per la denuncia della banalizzante falsificazione insita nei processi di rifacimento e modernizzazione della sostanza edilizia del tessuto storico egli richiama l’attenzione sull’attualità dell’intero impianto del celebre Catechismo di Dvořák, riportandone i brani completi che riguardano le minacce che incombono sul patrimonio storico (ignoranza, speculazione, false idee di progresso, decadenza artistica), nonché le azioni positive da intraprendere in difesa dell’interesse pubblico e nazionale a opera dello Stato, del valore spirituale a opera della Chiesa e in generale del valore artistico. In questo quadro ricorda la poderosa opera svolta dal maestro per dotare la tutela austriaca di un’organizzazione professionale e lamenta il ritardo accumulato dall’Austria in quest’ambito nei confronti di altri paesi, come la Francia, ad esempio, che con la legge del 1930 avevano ampliato la definizione di “sito”, risalente al 1913, e con la “Loi Malraux” del 1962 si apprestavano a procedere al risanamento dei quartieri storici con un’impostazione molto avanzata; oppure l’Olanda, che vantava una città come Maastricht, la quale aveva posto sotto tutela ben 1.400 abitazioni storiche.

A questo punto si pone la questione cruciale del rapporto del nuovo con l’antico: chi deve condurre l’intervento? Posseggono gli architetti moderni le competenze storiche, tecniche, estetiche che già Dvořák richiedeva? E qui il discorso di Sedlmayr vira in una direzione molto personale, da valutare attentamente. Egli sostiene che la continuità della tradizione del costruire è stata interrotta dal “Neues Bauen” degli anni 1910-1925 (Oechslin, 1989: 7-9; Scarrocchia, 1991). Bisogna riguadagnare questa continuità come invocato dal giovane Norberg-Schultz e dare corso alla nuova architettura, difesa dal giovane Frei Otto, altrove, cioè nelle nuove zone di espansione. L’alternativa che egli auspica consiste nel rispetto della tradizione edilizia salisburghese, nella “fedeltà” delle copie, secondo quanto già auspicato da Loos, e soprattutto nello spostamento dell’intervento nuovo nelle zone di espansione esterne al centro storico, da condurre con le forme radicali dell’architettura contemporanea. Insomma: neo-tradizionalismo nel centro storico, secondo quanto auspicato da uno Dvořák appiattito su Norberg-Schultz e architettura moderna secondo Frei Otto nella nuova città, esterna al centro storico (Norberg-Schulz, 1965; 1967; Otto, 1954).

Per la denuncia dei pericoli che corre la sostanza edilizia storica giunta fino a noi Sedlmayr fa proprie, nel paragrafo 5, e cioè nel cuore della sua argomentazione, le considerazioni che Roberto Pane aveva esposto in occasione del convegno della Triennale di Milano del 1957 su “Attualità urbanistica del monumento e dell’ambiente antico”, con le quali aveva inteso denunciare nel modo più risoluto tanto le pressioni speculative tendenti ad aumentare la densità del costruito, distruggendone la stratificazione storica e il valore di antico, quanto le insufficienze della cultura architettonica contemporanea a farsi carico della reale conservazione di questa stratificazione, con idonee operazioni di recupero, restauro e integrazione, dettate dalle esigenze funzionali (Pane, 1958: 7-18). In tal senso Pane aveva proposto in quell’occasione sia di delimitare l’area del centro storico da salvaguardare e su cui imporre un rispetto assoluto delle volumetrie e del tessuto storico, nonché l’istituzione di un albo di architetti specializzati e idonei a collaborare con le autorità di tutela.

Dell’intervento di Pane Sedlmayr riprende anche e soprattutto la denuncia dell’incapacità della cultura architettonica contemporanea di costruire lo sviluppo della città con valori e qualità analoghi a quelli del passato, nonché di contrastare le pressioni speculative gravitanti tanto sul tessuto storico che sulle nuove aree di espansione. Ma in Roberto Pane questa denuncia non coincide affatto con la condanna in blocco dell’architettura contemporanea, né della sua plausibilità nel tessuto storico: egli aveva sostenuto infatti insieme a Ernesto Nathan Rogers e Bruno Zevi il progetto di Frank Lloyd Wright per la Fondazione Masieri a Venezia! Di più, dal pieno riconoscimento della potenzialità per così dire incrementale dell’architettura contemporanea e dalla necessità di una sua integrazione con il patrimonio storico scaturirà il suo contributo alla definizione del “principio additivo” che prenderà forma nella Carta di Venezia del 1965 e che sancisce una duplice istanza del progetto di restauro: da un lato quella di nulla togliere alla stratificazione pervenuta sino a noi così come sino a noi è pervenuta; dall’altro della più assoluta riconoscibilità, per quanto non autoreferenziale, del carattere contemporaneo delle necessarie opere integrative[40].

Sedlmayr, invece, nel paragrafo 6, riconosce il “principio additivo”, ma lo disloca urbanisticamente nell’espansione della città; cioè egli riconosce con Frei Otto la necessità dell’architettura contemporanea e la potenzialità per essa di accrescere il valore urbano, ma essa deve dislocarsi fuori, lontano dal centro storico: «la considerazione che un’architettura moderna di qualità sempre e comunque possa affiancarsi all’antico è una leggenda» (Sedlmayr, 1965: 30). Partito da una denuncia dell’incapacità del “Neues Bauen” di rappresentare una nuova stratificazione storica, Sedlmayr finisce per riportare la sua critica dell’architettura moderna in ambito di tutela, delineando, di fatto, una teoria della conservazione antistorica. Come sappiamo, qualcosa di molto simile accade al suo maestro con la condanna in blocco dell’Historismus, ovvero di molti degli interventi di salvaguardia, di Schmidt ad esempio, che nel corso del secolo hanno poi acquisito valore monumentale. E ciò è il risultato della sospensione del postulato riegliano della relatività dei valori, che accomuna, pertanto, Dvořák e Sedlmayr. Non a caso quest’ultimo non dedica al Denkmalkultus nessuna attenzione nella sua introduzione alla raccolta degli scritti di Riegl del 1929 e tantomeno fa cenno della lezione del fondatore della tutela come disciplina autonoma nel suo manifesto salisburghese.

D’altra parte la condanna del “Neues Bauen” di Sedlmayr non può essere ricondotta alla lezione di Dvořák in alcun modo, perché essa fa tutt’uno con la condanna dell’architettura autonoma, di cui Emil Kaufmann svilupperà la ricerca a partire dalla rivalutazione dell’architettura dell’Illuminismo e della rivoluzione, sviluppando in tal modo le posizioni del comune maestro a favore della tendenza classica del moderno.

Ciò che tuttavia risulta significativo al fine di rintracciare lo sviluppo della cultura di tutela austriaca, è il fatto che, via Sedlmayr, il pensiero di Dvořák giunga a contatto con le elaborazioni italiane di Roberto Pane, le quali confluiranno nella Carta di Venezia. Per ciò che lo riguarda Sedlmayr rimarrà esterno alle indicazioni della Carta, le quali richiedono un confronto tra cultura del restauro e cultura architettonica in sede progettuale e all’interno del tessuto storico. Nel suo manifesto per la difesa di Salisburgo egli ribadisce che l’architettura contemporanea è “Verlust der Mitte”, perdita del centro e della continuità. Il centro resta legato alla “Entstehung der Kathedrale”, cioè alla formazione di un’architettura dai valori simbolici e morali unitarî e irriproducibili, ma soprattutto irraggiungibili (Sedlmayr, 1948a; 1948b; 1950)[41]. Quanto poco questo pessimismo, fatto proprio dalla tutela italiana negli anni Settanta in barba agli enunciati della Carta di Venezia e ignoto ai maestri Riegl e Dvořák, abbia giovato alla cultura della conservazione è dimostrato da una tutela dei centri e tessuti storici in molti casi ancora ferma alla pratica del rifacimento e da una attenzione per il moderno che non riesce a superare la fase “pionieristica”.

I criteri esposti da Sedlmayr vengono codificati dal Piano particolareggiato per il centro storico di Bologna dei primi anni Settanta, capostipite di una lunga serie di piani riguardanti i nuclei storici di molte città italiane, fino a quello di Palermo di fine anni Ottanta-inizio Novanta. Ma in questi piani non c’è il minimo riconoscimento del principio della conservazione integrale sostenuto da Dvořák, sulle orme di Ruskin e Riegl, che prevede la conservazione, questa sì integralissima, “di ciò che è a noi pervenuto nello stato in cui è a noi pervenuto” e lo “sganciamento” della necessaria integrazione dalla cultura del restauro come restitutio in integrum! Essi si basano su un recupero e restauro di rifacimento accompagnato da una totale sfiducia o, se si vuole, rinuncia nei confronti dell’architettura contemporanea, estromettendo, di fatto, quest’ultima dalla storia. Mentre, al contrario, l’architettura contemporanea è, secondo Dvořák, la sola componente che può costituire (non ri-costituire si badi!) la superiore unità della riparazione. Qui, in questo luogo, in questo passaggio, dove Riegl vede una missione di arbitraggio e di non diretta interferenza, Dvořák, per il mutato contesto culturale e per l’insorgere di varie correnti artistiche post-secessioniste, individua il terreno di una battaglia culturale: una tendenza, la necessità di una tendenza e di schierarsi secondo una tendenza. Per apprezzare la radicalità e attualità di questa posizione di Dvořák si debbono operare almeno due distinzioni.

In primo luogo: finora la sua proposta è stata sposata a forza con quelle posizioni di “conservazione integrale” che hanno sostenuto, sulla falsariga di Sedlmayr, l’estromissione dell’architettura moderna dal centro storico (Dezzi Bardeschi, 1995: 2-3; Cruciani Fabozzi, 1995: 28-42). Pippo Ciorra ha ben espresso l’ambivalenza di questo matrimonio non consensuale:

Bologna, per gli architetti della mia generazione, rappresenta da sempre un tabù e un’icona ambivalente. Da un lato l’intoccabile “correttezza urbanistica” di Cervellati e del recupero del centro storico, l’efficienza amministrativa, la pianificazione asservita al programma di ‘conservazione’ della misura e dei caratteri tradizionali della città. Dall’altro un certo insopprimibile senso di estraneità, le occasioni rarissime di apertura al dibattito architettonico internazionale, la sensazione di una città non particolarmente aperta ai contributi esterni e al rinnovamento architettonico (Ciorra, 2004: 8-11)[42].

In secondo luogo: la tendenza individuata da Dvořák della moderna classicità verrà ripresa in più occasioni nel corso del Novecento, come ricordato sopra in ambito urbanistico tedesco durante l’età weimariana, in quello architettonico del periodo fascista, pur con tutti i necessari distinguo, fino alla ripresa di Aldo Rossi, che dà corpo al magistero della “continuità” di Ernesto Nathan Rogers al quale si era formato (Figura 6) (Rogers, 1981; López Reus, 2002; 2009). Che quella tendenza, della continuità, non abbia prestato la benché minima attenzione alle lezioni dei Maestri viennesi della conservazione è da inquadrare, come suggerisce ancora Ciorra, in un’autonomia dell’architettura che si rinchiude in se stessa, poco disposta al confronto e alla contaminazione interdisciplinare. Ed è significativo che su questo terreno del dialogo dell’antico col contemporaneo la tendenza italiana della continuità, quella della linea RogersRossi-Grassi, ma anche quella Muratori-Caniggia (Figura 7), cui aggiungere, allargando le maglie interpretative, Cervellati, vengano superate da un’ulteriore tendenza, proveniente da altre coordinate: quella del minimalismo, la più confacente al rispetto di ciò che a noi è pervenuto così come è a noi pervenuto e di arricchirlo di un dialogo, appunto, contenuto, modesto, sapiente e sottotono. Una tendenza di tradizione ruskiniana, coltivata dalla migliore e radicale cultura di conservazione tedesca[43].

Quello che conta nell’attualità della posizione e del contributo del maestro viennese di origine boema non è quanto abbia scritto sulla tendenza, ma che abbia riconosciuto la sua necessità per la conservazione dei monumenti. Ovvero: l’integrazione della conservazione con il destino del progetto e l’impossibilità di espungere l’architettura contemporanea dalla tutela. Una nazione, una civiltà senza architettura non conosce la conservazione dei monumenti. Al massimo soltanto – con le parole di Dvořák – «alte Rezepte», vecchi rimedi.

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STUDIO BBPR (Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico
Peressutti, Ernesto Nathan Rogers), Torre Velasca, 1950-1957.
FIGURA 6.
STUDIO BBPR (Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers), Torre Velasca, 1950-1957.
Immagine: ©Irene Scarcella, Milano.

SAVERIO MURATORI, SEDE 

ENPAS (ORA
INPDAP), 1956-57, 

Bologna, Via
dei Mille, 9.
FIGURA 7.
SAVERIO MURATORI, SEDE ENPAS (ORA INPDAP), 1956-57, Bologna, Via dei Mille, 9.
Immagine: ©Fausto Savoretti, Bologna.

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Nota

* La traduzione inglese del presente contributo, a opera di Susan Jane Kingshott, è apparsa in Ars, rivista dell’Istituto di storia dell’arte dell’Accademia delle Scienze Slovacca, nel n. 44, fasc. 1, del 2011. Ringrazio Giuseppe Arcidiacono e Alberto Giorgio Cassani per la revisione, Bernhard Kohlenbach, Fausto Savoretti e Irene Scarcella per le illustrazioni del testo. Ad eccezione delle specifiche indicazioni in nota, mie sono le traduzioni dei passi citati.
1 Come ben sintetizzato da Bentmann (1976).

Come ricorda Tilmann Buddensieg in conclusione del suo Die Karolingischen Maler in Tours und die Bauhausmahler in Weimar.

Wilhelm Koehler und Paul Klee, manoscritto della conferenza tenuta nel dicembre 2006 al Zentralinstitut für Kunstgeschichte di

Monaco e nel novembre 2007 all’Institut für Kunstegeschichte dell’Università di Vienna, con riferimento a Koehler (1923: 314320). Buddensieg ricostruisce l’influsso di Klee e Kandinsky nella rivalutazione delle miniature di Tour effettuata da Koehler sulla base dell’insegnamento di Dvořák. Vedi anche Frey (1921-1922: 1-21).

2 Come ben sintetizzato da Bentmann (1976).
3 Vedi Denkmalpflege Vorlesungensmanuskript (1906) e Denkmalpflege Vorlesungensmanuskript (1910) (Scarrocchia, 2011a: 747776). Vedi anche Scarrocchia (2004: 359-368).
4 Abiure che contrastano con la pionieristica valutazione riegliana del contributo di Friedrich von Schmidt, ad esempio. Cfr. Riegl (2004: 223-224) e i commenti miei e di Margaret Olin (Riegl, 2004: 70, 100 e 477-479).
5 Vedi Clemen (1933; 2003: 373-384). Su Schlosser, Tietze e il neo-idealismo viennese vedi Scarrocchia (2006a: 97-121; 2009: 23-27).
6 Vedi Dvořák (2011a; 2011c; 2011d; 2011e; 2011f; 2011g; 2011h; 2011i; 2011j; 2011p); Scarrocchia (2009: 69-138 e 48-68). Sulle liaisons dangereuses tra urbanistica e conservazione vedi Traeger (1996) e Fischer (1996).
7 Su questo tema in generale, ma anche con alcuni riferimenti, per quanto generici, alla lezione dei maestri viennesi, offre spunti e suggestioni Settis (2004).
8 Rossi riprenderà il credo di Dvořák e di Loos nei suoi scritti, nella sua opera e nel film Ornamento e Delitto (con Gianni Braghieri e Franco Raggi, regia di Luigi Durissi, Contemporafilm, 1973).
9 Sulla falsarifa di Dvořák, Loos adotta i caratteri di una scuola di tipografia viennese di fine Settecento per la pubblicazione della sua rivista Das Andere: «Allora gli uomini del 1783 volevano produrre caratteri, i nostri artisti di oggi vogliono creare caratteri moderni!» (Loos, 1903: 4; 1981: 83), ma anche la gran parte dei suoi interventi raccolti in Ins Leere gesprochen e in Trotzdem (Loos, 1972; 1982).
10 Piacentini considerava un’espressione dell’architettura monumentale “vacua e indigesta” il Monumento della Battaglia di Lipsia del 1913 opera di Bruno Schmitz (Piacentini, 1914: 9-20; Piacentini, 1996: 84-89)
11 Oltre che sulla nuova costruzione di Loos in Michaelreplatz, Tietze richiama l’attenzione anche su una villa di Josef Hoffmann in Steinfeldgasse sull’Hohe Warte.
12 Alcuni importanti spunti su Borromini li aveva offerti Riegl nelle sue lezioni sul Barocco. Cfr. Riegl (1908; 1977). Vedi ora il molto circostanziato Renzulli (1998-1999: 203-220). Sul Cathechismo vedi Scarrocchia (2009: 48-68) e Brückler (2009), Blower (2010: 433-444).
13 Come nella puntuale ricostruzione di Weise (1962) e in quella incontenibile di Raimondi (1962). E quindi non è un caso che saranno proprio gli allievi riconosciuti di Dvořák come Dagobert Frey, Fredrich Antal, Hans Sedlmayer e Arnold Hauser, a fornire alcuni tra i maggiori approfondimenti critici al proposito. In particolare Frey (1924: 5 e sgg.; 1928), Antal (1928-1929: 207-256), Sedlmayr (1930; 1939) e l’edizione italiana a cura di Marco Pogačnik, con un’appendice storico stilistica (Sedlmayr, 1996); Hauser (1964, 1965). Cfr. sul tema Oechslin (2000: 107-115).
14 Per il quale Dvořák rimanda allo studio di Eggers (1903: 154-162). Vedi ora Roca De Amicis (1995; 1996: 51-74).
15 (1772: 386).
16 Lo stesso passo è riportato nel manoscritto delle lezioni universitarie (Dvořák, 1911o: 774).
17 Arnaldo Bruschi (1978), commento alle figure 79-80 (quasi immutato nella nuova edizione (1999: 68).
18 Sul Raumplan di Loos vedi Frampton (1980) e Frampton (1982), al cap. 21, con accenni al rapporto con De Stijl; Kruft (1985, 1991: 422) che, invece, propende per accentuarne il carattere logico sulla scia delle riflessioni architettoniche di Ludwig Wittgenstein; per Fritz Schumacher si rimanda al suo Das bauliche Gestalten (1926; 1991).
19 Cfr. Dvořák (2011a). Sulla conservazione in età bizantina è fondamentale Mango (1991), ora anche in Gregotti et al. (1997: 71-83).
20 Anche se questo principio architettonico superiore è da considerare, secondo Arata Isozaki, antisistematico. Cfr. Portoghesi (2000), con richiamo specifico all’importanza del saggio dvořákiano.
21 Come ricostruito magistralmente da Aurenhammer (1997).
22 Sulle costruzioni in ferro si era soffermato in quegli anni, con grande intelligenza e in un orizzonte post-semperiano, Alfred Gotthold Meyer (1907). Walter Benjamin lo considera profeta della Neue Sachlichkeit (Benjamin, 1980: 170).
23 Cfr. Loos (1921; 1962; 1972, contenente anche scritti successivi raccolti in Loos (1982).
24 Cfr. Zentralinstitut für Kunstgeschichte München (1994). Per le riserve di Piacentini su Schmitz vedi qui alla nota 17.
25 Per la definizione vedi Hans Sedlmayer (1962).
26 Per l’architettura di Piacentini che conserva un tratto umanistico anche nei primi terribili anni dell’Asse, nonché per i riferimenti al classicismo weimariano rimando a Scarrocchia (2013a). Curioso e sintomatico il fatto che proprio un allievo di Dvořák, Franz Stelè, visitando in occasione del Giubileo del 1950 via della Conciliazione, cioè un intervento piacentiniano tra i più discussi, ne scriva al suo amico e stimato architetto Jože Plečnik, con l’attenzione rivolta all’inserto moderno nel contesto monumentale e alla (in)capacità del moderno di rapportarsi al tessuto storico, in questi termini: «l’impressione generale è molto buona». Cartolina di Stelè a Plečnik del 25.?.1950, Archivio del Museo di architettura di Lubiana, cortese informazione di Tomáš Valena.
27 Per l’alto valore umanistico del monumentale in Aldo Rossi restano illuminanti le considerazioni di Savi (1975). Su storia e critica della tendenza tradizionalista sono importanti gli studî di Pigafetta e Abbondandolo (1997), Pigafetta (1993; 1996), Blomfield (1934). Sull’infondatezza della tradizione resta valido Hobsbawm and Ranger (1983; 1987). Ignoro se Vittorio Savi abbia mai pubblicato il saggio La tendenza, che stava scrivendo a metà anni Settanta.
28 Vedi Scarrocchia (2009: 133-138) (anche per i rimandi alle ricerche di Cimprichová (2010).
29 Oltre alla convergenza sulla tendenza del moderno Classico, qui richiamata nel paragrafo II, è fondamentale Tietze (1909).
30 In particolare Dvořák (2011m).
31 Diversamente da Riegl che nel Denkmalkults aveva espresso un’apertura nei confronti della riproducibilità.
32 Per un inquadramento di storicismo e uscita dallo storicismo viennese sono fondamentali: Wagner-Rieger (1970), Haiko (1985:

297-304; 1980: 40-49) e il commento di Aurenhammer (1997: 33 e sgg.). In generale vedi anche Scharabi (1993).

33 Di scuola di resistenza parla Canetti (1972; 1974), per descrivere lo svincolamento dal fascino esercitato su di lui da Karl Kraus. Scuola di resistenza è sinonimo di liberazione.
34 Eva Frodl-Kraft ricostruisce il debito della tutela austriaca nei confronti di quella tedesca nel suo Gefährdetes Erbe. Österrichis Denkamlschutz und Denkamlpflege 1918-1945 im Prisma der Zeitgeschichte (1997).
35 Il termine, secondo l’accezione di Italo Calvino, cioè di adesione a concreti progetti sociali, e, pertanto, diversamente dalla tradizione espressionista visionaria della Glassarchitektur scheerbartiana. Cfr. Kuon (2003: 24-41).
36 Robert Musil ridicolizza questo universalismo nel suo romanzo L’Uomo senza qualità, in particolare con l’“Azione parallela”, e anche Wittgenstein giudicherà l’infatuazione di Loos per un “Ufficio per l’arte” altrettanto bizzarra. Cfr. Amanshauser (1985: 129).
37 Secondo Cacciari in Loos (1981b) soprattutto il paragrafo Sulla tomba di Loos.
38 Secondo Aldo Rossi, nel suo saggio introduttivo a Loos (1981b: 7-16).
39 Per l’inquadramento della posizione di Hans Sedlmayr nella vicenda della Scuola di Vienna durante il periodo nazista si rinvia al recente illuminante Aurenhammer (2004: 11-54).
40 Cfr. Scarrocchia (2008); la rassegna monografica Viaggio nell’Italia dei restauri. Dalla didattica ai cantieri: 1964-2006 (Anon, 2007) e Dezzi Bardeschi (2010: 106-114).
41 Entrambi i testi furono concepiti nella metà degli anni trenta.
42 Bologna rossa cfr. Scarrocchia (2013b) e, più estesamente, Scarrocchia (2015).
43 Il manifesto di questa tendenza è il restauro come repair del Nuovo Museo Egizio di Berlino di David Chipperfield e Julian Harrap e la matrice il restauro dell’Alte Pinakothek di Monaco di Hans Döllgast. Cfr. Arrap (2009), Will (2010).
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