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Sommario: Accogliendo l’idea avanzata da Giulio Carlo Argan, che identifica la trasparenza quale strumento compositivo e di lettura dei testi di Cesare Brandi, il saggio intende applicare, a partire dalla voce “Restauro” dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, tradotta in castigliano su questo numero di Conversaciones…, una lettura in trasparenza degli altri suoi testi sul restauro, cercando talvolta conforto anche negli scritti più propriamente di riflessione estetica. Attraverso tale metodologia, due coppie di temi sembrano emergere in modo evidente: la reintegrazione e, in trasparenza, l’unità potenziale dell’opera d’arte; il rapporto tra discipline umanistiche e discipline scientifiche e, in trasparenza, la possibilità di fondazione di una teoria del restauro. Il tema della trasparenza, infine, apre a una riflessione sullo spazio, o meglio, sugli spazi, e, ancora in trasparenza, sugli oggetti. Proprio questo ultimo approdo costituisce l’elemento per una possibile via di fuga, di uscita dal lavoro di Cesare Brandi, per continuare a praticare, però, la tradizione di Cesare Brandi.
Parole: Trasparenza, unità potenziale, teoria del restauro, spazio, Object Oriented Ontology.
La tradizione di Brandi
Attesa significa qui: tenere gli occhi
aperti cercando, in ciò che è già stato pensato, la via verso il non pensato
che ancora nel già pensato si nasconde.
Source: (Heidegger, 1991a: 93)
La teoria del restauro in trasparenza
Questo basta a spiegare la mancanza di un’appariscente sistematica della trattazione ed il suo fluido svilupparsi in un’incalzante continuità dialettica, espressa come meglio non si potrebbe nell’alternativa del dialogo, che sorprende l’idea nel suo prodursi, e continuamente assume e trascende, come in una sovrapposizione di strati trasparenti, le proposizioni precedenti nelle successive (Argan, 1981: 292).
Giulio Carlo Argan, riferendosi al Carmine, esprime una considerazione che è estendibile, come rilevato da moltissimi studiosi[1], alla produzione complessiva di Cesare Brandi, soprattutto per quanto attiene i testi d’estetica. Lo stesso Brandi, in fondo, ce ne offre una conferma nella presentazione alla seconda riedizione del Carmine:
In questo testo sta il nucleo del suo pensiero sull’arte, e a questo nucleo l’autore non ha dovuto mai contraddire in seguito, anche se crede di averne progressivamente ingrandito l’angolo di visuale. Nella fenomenologia della creazione artistica che intesi di elaborare, era inevitabile che ogni specifica trattazione presentasse dei problemi che squisitamente erano peculiari solo del campo volta a volta investigato (Brandi, 1962: 8).
Se da un lato, dunque, l’obiettivo è quello di non distinguere tra le varie arti –“non riusciremo mai a contare esattamente le Muse” (Brandi, 1992: 164)– e di “sorprendere la genesi dell’arte nel cammino della coscienza” (D’Angelo, 2006: 84), dall’altro l’impostazione di questa teoria, che di volta in volta amplia il proprio sguardo, procede per accostamenti di pensieri e di portati che derivano da uno studio interminabile, che ad ogni nuovo momento di coagulazione in un testo, mostra le precedenti acquisizioni come riposizionate all’interno di una diversa organizzazione.
Proprio per queste caratteristiche costruttive della formulazione teorica di Brandi, in questo mio scritto vorrei considerare la teoria del restauro –così come potrebbe farsi per la teoria più in generale– come un’architettura, o ancor meglio, come un’architettura sottoposta ad un progetto di restauro. Per fare questo, esaminerò la voce “Restauro” dell’Enciclopedia Universale dell’Arte (Brandi, 1963: 322-332), che qui viene tradotta in castigliano, attraverso il concetto di trasparenza, ossia leggendovi per sovrapposizione, alcuni dei temi presenti negli altri contributi teorici dell’autore sul restauro.
È interessante notare sin da subito, infatti, come il richiamo di Argan alla “sovrapposizione di strati trasparenti”, che consentirebbe a Brandi di assumere o tralasciare questioni precedenti nelle successive elaborazioni, richiami immediatamente alla mente il procedimento compositivo, attuato tra altri da Carlo Scarpa, di sovrapposizione di più livelli di rappresentazioni di una stessa architettura, così come di soluzioni alternative per uno stesso problema di progetto, al fine di costruire uno spazio per l’elaborazione del progetto non eminentemente bidimensionale e che non obblighi forzatamente alla fusione delle figure, bensì consenta la loro alternata presenza.
Quello della trasparenza è però anche il tema centrale del lavoro di Colin Rowe e Robert Slutzky, al quale intendo riferirmi, intitolato Transparency: literal and phenomenal. Il primo tipo di trasparenza, quello “literal” si ottiene attraverso il semplice utilizzo di materiali trasparenti, mentre il secondo, quello “phenomenal”, si ottiene attraverso una specifica “quality of organization” (Rowe, Slutzky, 1963: 46). Come nella definizione di Gyorgy Kepes, ciò cui ci troviamo di fronte in questo secondo caso è “una contraddizione di dimensioni spaziali. (…). La trasparenza (…) implica un ordine spaziale più ampio. Trasparenza significa una percezione simultanea di localizzazioni spaziali differenti. Lo spazio non solo recede, ma fluttua in un’attività continua”[2] (Kepes, 1969: 77). Gli spazi si presentano, pertanto, di volta in volta come il più vicino o il più lontano, senza distruggersi vicendevolmente. Proprio questo tipo di trasparenza è quello che mi sembra caratterizzi da un lato la composizione dei testi teorici e dall’altro la teoria del restauro di Brandi: da questa ipotesi deriva inevitabilmente che il tema centrale è quello dello spazio e delle relazioni spaziali, che pertanto affronterò nello specifico in chiusura e che mi consentirà di indicare una ulteriore trasparenza come una possibile linea di fuga.
Guardando ora alla voce “Restauro” dell’Enciclopedia Universale dell’Arte[3] e intersecandola con alcuni problemi esposti negli altri testi di Brandi dedicati al tema, si evidenziano immediatamente due questioni: nell’incipit, la breve introduzione che precede l’esplicazione del concetto, il restauro è descritto come una attività volta a “reintegrare la visione e il godimento” e, viene detto, si fonda su “basi tecnico-scientifiche” e su una “metodologia critico-estetica” (Brandi, 1963: 322).
Già in questa prima parte sono riscontrabili almeno due temi piuttosto importanti, dai quali intendo guardare in trasparenza non solo gli altri scritti di Brandi, ma anche altri nuclei tematici della sua riflessione utili alla mia costruzione, al mio restauro: il concetto di reintegrazione e il rapporto tra discipline scientifiche e discipline umanistiche nel restauro.
La reintegrazione (e l’unità potenziale dell’opera d’arte)
alla fine della ricognizione panoramica sulle arti, l’autore intende approfondire il secondo aspetto che compete all’arte non più come creazione artistica in atto, ma in quanto viene ricevuta come opera d’arte. E se, da questo punto di vista, l’autore ha dovuto già trattarne nella Teoria del restauro (che sta per uscire in volume) dove si presenta come l’elaborazione e lo svolgimento dei cenni già anticipati a questo riguardo nel Carmine, non ritiene affatto di aver esaurito l’argomento, che implica l’esame dell’opera d’arte, non più come creazione ma come comunicazione (Brandi, 1962: 9).
Nel restauro, infatti, come viene esplicitato nel testo “Il fondamento teorico del restauro”, la recezione dell’opera d’arte influisce sulla considerazione della stessa come “mero documento storico” oppure come spunto di ripresa del “processo interrotto o mutilo della creazione artistica” (Brandi, 1950a: 6). La reintegrazione dell’immagine[4], però, comportando senza possibilità di dubbio un intervento sull’opera e non, come potrebbe anche intendersi, per quanto attiene la reintegrazione della visione e del godimento, sull’intorno di essa[5], appare profondamente problematica: se il restauro è “il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte” (Brandi, 1963a: 17; Brandi, 1963b: 34; Brandi, 1977: 6) e dunque dell’ingresso dell’opera nella coscienza, è chiaro che quella creazione artistica che la reintegrazione dell’immagine tende ad usurpare, sembra collocarsi al di fuori del tempo e degli obiettivi del restauro. Ma nella voce “Restauro” dell’Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere e Arti, laddove si tratta del “problema del restauro come un problema di critica filologica” (Brandi, 1949: 698), ossia capace di contemperare tanto “l’esigenza di un rispetto storico assoluto” (Brandi, 1949: 698), quanto “l’esigenza di perdere quanto meno è possibile del senso della figuratività dell’immagine” (Brandi, 1949: 698), Brandi afferma che, inserendo questo tipo di restauro nell’ambito proprio dell’estetica, ne discende “la necessità di contenere qualsiasi integrazione nei limiti più ristretti e con attuazioni pratiche sempre per tutti riconoscibili, così da non fare usurpare, alla reintegrazione ipotetica, l’autenticità che solo spetta ai modi della creazione” (Brandi, 1949: 698). La reintegrazione, quindi, per quanto ipotetica, non è del tutto bandita, bensì limitata e riconoscibile, anche se viene detto chiaramente che “Il restauro non è creazione, e i restauratori non sono artisti: sono in primo luogo critici, e in secondo luogo tecnici” (Brandi, 1949: 698). Ne “Il fondamento teorico del restauro”, la questione si fa anche più precisa: riguardo all’esteticità dell’oggetto “la mutilazione eventuale di quel che rappresenta, deve potersi supplire” purché tale intervento non cerchi di rendersi “indipendente dalla storia” (Brandi, 1950a: 11). Anche in questo caso viene ribadita l’importanza della distinguibilità tra l’apporto nuovo e la preesistenza e l’obiettivo del restauro viene ad essere l’“unità rappresentativa dell’oggetto” (Brandi, 1950a: 12), ossia un altro modo di dire l’unità potenziale dell’opera d’arte: l’unità rappresentativa, però, non è da confondersi con l’unità fenomenica dell’oggetto, con la sua materialità.
Prima di proseguire, è necessario ricordare che Brandi, proprio nella voce che sto analizzando, laddove distingue “un restauro relativo a manufatti industriali e un restauro relativo all’opera d’arte” (Brandi, 1963a: 15) afferma che per il primo l’azione consisterà nel ristabilire “la funzionalità del prodotto”, mentre per il secondo, tolto il caso in cui si tratti di architetture, per le quali la funzionalità rientrerà tra gli “scopi secondari o concomitanti al restauro, il restauro primario è quello che riguarda l’opera d’arte in quanto tale” (Brandi, 1963a: 15). Per l’opera d’architettura, quindi, prefigurandosi un restauro primario sembra prefigurarsi anche un restauro secondario, concomitante al primo, volto al ristabilimento della funzionalità. L’architettura, dopotutto, non è nuova all’introduzione di problematicità nell’impianto teorico di Brandi e ha avuto l’importante compito di costringere, nell’Eliante, a una rinnovata riflessione rispetto al tema della costituzione d’oggetto, che ricordo è l’operazione che consente all’artista di sviluppare un’epochè, o usando i termini husserliani, una riduzione, mediante la quale si recidono i legami tra l’oggetto e la realtà. Questa operazione ha come risultato
l’oggetto costituito, ossia un’immagine che non è affatto un duplicato dell’oggetto, ma in cui l’oggetto è sostanza conoscitiva e figuratività, a seconda dell’uso stesso che dell’immagine farà la coscienza. Ma tale dialetticità della costituzione di oggetto non si estingue nell’immagine formulata, ne rimane la struttura, che sarà sempre reperibile e in cui potranno a volta a volta prevalere gli elementi negativi o quelli positivi (Brandi, 1992a: 97).
Ossia l’esito delle scelte operate.
Se questa è la fenomenologia della creazione artistica in generale, non esattamente lo stesso può dirsi per la creazione dell’architettura. L’architettura, infatti, “non ha oggetto” (Brandi, 1992b: 154), dirà Diodato. A questo nuovo problema, Eftimio-Brandi risponde:
L’arte è immagine, e se io risolutamente ho affermato che preliminarmente insormontabile per ogni opera d’arte è la costituzione di oggetto, non ho certo mai inteso dire che si trattava di un oggetto naturale, che si introduceva tal quale nella coscienza come un chiodo nello stomaco. È la coscienza che si plasma a se stessa nell’immagine e assume allora l’immagine a suo simbolo (Brandi, 1992b: 157).
Da questo momento inizia la formulazione dell’immagine. Quindi, se è vero che per l’architettura non c’è oggetto, ma si parte dalla necessità di risolvere un problema, come ad esempio il riparo, “in quel bisogno (…) hai né più né meno che uno schema, il quale non è ancora concetto e non è ancora immagine. È il nucleo della sostanza conoscitiva la quale cerca prima di tutto di convertirsi in figuratività” (Brandi, 1992b: 157). Prima che venisse costruita la capanna primitiva, continua Eftimio-Brandi, non esisteva né l’immagine né il concetto, ma solamente una “imprecisata intenzionalità” nella coscienza che “premeva dall’interno, senza parole” (Brandi, 1992b: 158).
Lo schema, o schema preconcettuale[6], si situa quindi al di fuori del processo della creazione artistica, pur partecipandone, e permette la generazione di conformazioni, ma anche di forme, differenti.
Le architetture che ci troviamo di fronte, quindi, generate dallo schema, prove provate della risposta ai bisogni, vengono a costruire quel mondo di oggetti che possono essere a loro volta costituiti[7], esattamente come avviene per le bottiglie di Morandi, e giungere, attraverso la formulazione d’immagine, sino all’astanza.
Torniamo ora al tema che ho lasciato in sospeso: l’intervento di “restauro deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte, purché sia possibile raggiungere ciò senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo” (Brandi, 1963a: 17; Brandi, 1963b: 36; Brandi, 1977: 8).
Questo, che è il secondo assioma della teoria brandiana (il primo afferma che “si restaura solo la materia dell’opera d’arte”), mette in gioco alcune questioni che stanno alla base del progetto di restauro inteso non come ricerca dell’origine, ma neppure come espressione di fantasia.
Unità è un termine che, viene detto immediatamente, “si pone solo «a posteriori», quando l’opera è nel mondo e ne avviene la ricezione in una coscienza” (Brandi, 1963a: 20): non sono in questione, quindi, la volontà dell’artista, né le vicissitudini che possono aver modificato o parzializzato in qualche modo l’opera. Quello che conta, è come avviene il riconoscimento, ovvero come si è recepita l’opera e la ricezione, dice Brandi, è unitaria. L’unità, però può ottenersi attraverso due vie: l’unità dell’intero o quella del totale e Brandi assegna all’opera d’arte la qualità dell’intero, ossia non derivata dalla sommatoria di parti indipendenti, bensì dovuta alla relazione simbolica tra le parti, alla “speciale attrazione” (Brandi, 1963a: 20) tra l’opera e i suoi frammenti[8]. In questo modo “anche se fisicamente frantumata” l’opera “dovrà continuare a sussistere potenzialmente come un tutto in ciascuno dei suoi frammenti e questa potenzialità sarà esigibile in proporzione diretta alla traccia formale superstite nel frammento” (Brandi, 1963a: 22); inoltre, dove l’opera “risulti divisa, si potrà cercare di sviluppare la potenziale unità originaria che ciascuno dei frammenti trattiene proporzionalmente alla sopravvivenza formale ancora recuperabile in essi” (Brandi, 1963a: 22). Una ulteriore specificità riguarda il fatto che l’opera d’arte non possiede un’unità organico-funzionale propria del mondo della natura, in quanto che, come astanza, viene a trovarsi staccata dal mondo, “chiusa in sé” (Brandi, 1963a: 21). Qui viene proposto l’esempio del gatto[9] (come in Teoria del restauro sarà proposto l’uomo con un solo braccio visibile nella rappresentazione) che, pur possedendo due occhi, di colore differente o dello stesso colore poco importa, se dipinto di profilo non ha alcun occhio poiché “nell’immagine dipinta sta come gatto solo per un valore semantico limitatamente a quanto l’immagine ha prelevato non nella sua unità organico-funzionale per cui il gatto ha due occhi” (Brandi, 1963a: 21). Come bene specificato nel testo “Il ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte”, (e ripreso identicamente in Brandi, 1963b: 43; Brandi, 1977: 15), “nell’immagine che l’opera d’arte formula, questo mondo dell’esperienza appare ridotto unicamente a funzione conoscitiva in seno alla figuratività dell’immagine, ogni postulato di integrità organica si dissolve. “L’immagine è veramente e solamente quello che appare” (Brandi, 1950b: 4). L’unità potenziale e l’unità non organico-funzionale dell’opera d’arte, detta “intuitiva”, costituiscono, quindi, la guida per il progetto di restauro, ossia per “regolare una prassi” (Brandi, 1950b: 5) che dovrà contemperare, nello svolgere i suggerimenti impliciti nei frammenti stessi, l’istanza storica e l’istanza estetica. “Ne discenderanno alcuni principi che per essere pratici non potranno ormai dirsi empirici” (Brandi, 1950b: 6) e che potremmo sintetizzare in: riconoscibilità ravvicinata, sostituibilità della materia in quanto supporto, facilitazione di interventi futuri.
Esistono però casi rispetto ai quali “o per lo stato di frammentarietà estremo dell’opera, o per una prevalenza dell’interesse storico su quello estetico si preferisce non addivenire a completamento alcuno” (Brandi, 1963a: 23): si tratta delle lacune, per le quali l’intervento, anche “rinunciando a sviluppare la residua figuratività dell’immagine” (Brandi, 1963a: 23) dovrà comunque essere realizzato per salvare l’opera dallo “stato in cui la tradizione degli anni l’ha consegnata” (Brandi, 1963a: 23). Ciò che ritengo importante, e che non è riscontrabile con così estrema chiarezza negli altri testi sul restauro, è che qui Brandi affermi che il problema delle lacune “si pone così, al di fuori del ristabilimento dell’unità potenziale dell’immagine” (Brandi, 1963a: 23): verrebbe da dedurne che, essendo l’obiettivo del restauro il ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte e essendo il tema della lacuna al di fuori di esso, questo non costituisca una vera e propria azione di “restauro primario”.
Detto ciò, resta da capire come l’unità potenziale e l’unità intuitiva possano tradursi in operatività nel progetto di restauro.
In questo caso, credo possa essere d’aiuto cercare all’esterno del pensiero di Brandi un riferimento: nel 1914, Ortega y Gasset, che Brandi cita in Segno e Immagine a proposito del tema della disumanizzazione dell’arte (Brandi, 2009: 86), scrive un interessante testo introduttivo alla pubblicazione di una raccolta di poesie del poeta Moreno Villa, intitolata El Pasajero, nel quale discute, attraverso una metafora del poeta catalano López Picó, il funzionamento di questa figura retorica. L’opera d’arte è definita come “un objeto que reúne la condición dual de ser transparente y dejarse ver, y no algo diferente de uno mismo” (Ortega y Gasset, 2014: 167) e, viene affermato, “objeto estético y objeto metafórico son una misma cosa, o bien que la metáfora es el objeto elemental, la célula bella” (Ortega y Gasset, 2014: 164). Partendo dunque dalla metafora “il cipresso è come lo spettro di una fiamma morta”, Ortega y Gasset smonta immediatamente il dubbio che la metafora possa essere semplicemente una somiglianza: l’elemento metaforico, spiega, non è l’assimilazione del reale. Anzi, l’operazione della metafora è
l’annullamento delle cose in ciò che esse sono come immagini reali. Urtando l’una con l’altra, si rompono le loro rigide croste, e la materia interna, allo stato fondente, acquista la mollezza del plasma, adatto a ricevere forma e struttura nuove. La cosa cipresso e la cosa fiamma cominciano a fluire e si tramutano in tendenza ideale cipresso e tendenza ideale fiamma[10] (Ortega y Gasset, 2014: 167).
Nasce un oggetto nuovo, un “ciprés a quien, sin absurdo, podemos tratar como a una llama” (Ortega y Gasset, 2014: 168). Siccome Ortega aveva affermato poco prima che “no podemos hacer objeto de nuestra comprensión, no puede existir para nosotros nada si no se convierte en imagen, en concepto, en idea – es decir, si no deja de ser lo que es, para transformarse en una sombra o esquema de si mismo” (Ortega y Gasset, 2014: 160), ciò che si scontra nella metafora sono gli schemi, che pur mantenendo la reciproca identità riescono anche ad originare un nuovo schema e un nuovo oggetto.
L’opera d’arte, così come intesa da Brandi, ossia l’epifania dell’astanza, possiede un’unità che è sempre potenziale, perché si fonda sulla flagranza differenziandosene, perché, dunque, la potenzialità è inscritta nel “solco di nulla” (Brandi, 1998: 87) che la differenzia in senso derridiano, cioè nella presenza-assenza della sua origine[11]. “La differenza è inscritta nell’astanza, come presenza-assenza, per una traccia che è solo in quanto non è, ma divide, stacca, incide: come presenza, quindi che non rimanda all’ousia. Parousia senza ousia” (Brandi, 1998: 72).
Il ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera architettonica, quindi, non può avvenire a partire dalla forma che, come per qualsiasi opera d’arte è chiusa in sé e inconoscibile anche al suo autore: “l’opera si stacca dal suo creatore, chiusa e perfetta” (Brandi, 1992a: 51). Il progetto di restauro, quindi, potrebbe trovare un’operatività a partire dallo schema che sarà l’esito dell’analisi critica e dunque intenzionata, dell’opera. Se, come dice Brandi, il meccanismo per eccellenza che consente di risalire allo schema è la metafora: “Lo scatto che si produce in chi ascolta quando oda o legga una metafora, è il salto indietro che si fa tornando allo schema preconcettuale (…): si cambia di livello” (Brandi, 1998: 94), allora il carattere del progetto dovrebbe essere quello per cui, come direbbe Ortega y Gasset, le due figure –nel nostro caso l’opera e l’esito del progetto– restano l’una all’altro reciprocamente opachi, ma al contempo consentono di “vedere l’immagine di un cipresso attraverso l’immagine di una fiamma”[12] (Ortega y Gasset, 2014: 167). Sembra rivedersi qui, dopo un lungo percorso, il tema riconfigurato della trasparenza fenomenica.
In questo senso il progetto di restauro, mettendo in scena la metafora, dicendo “questo è come quello”, ma anche “questo non è quello”, permette all’opera e al suo fruitore di ri-conoscere gli schemi e lo schema. Per cercare di dare qualche indicazione in più a una possibile prassi progettuale, deve essere affermato che, se è vero che lo schema è generatore di infinite immagini, non lo è però di tutte. Questa riflessione è ben presente in Brandi quando afferma che “può esserci conflitto fra schemi preconcettuali incompatibili” (Brandi, 1998: 94) e porta ad esempio la metafora di Claudio Achillini (1574-1640) che nella poesia A Luigi XIII dopo la presa della Roccella e la liberazione di Casale esordisce con “Sudate, o fochi, a preparar metalli” (Achillini, 1910: 54): “nello schema preconcettuale del fuoco non c’è che possa sudare, anzi asciugare, seccare, ardere. Perciò l’incongruenza dell’Achillini deriva dalla incompatibilità dello schema del fuoco rispetto a quelli del sudore e della fatica: non si fa questione di inverosimiglianza ma di incompatibilità” (Brandi, 1998: 94).
Il rapporto tra discipline umanistiche e discipline scientifiche (e la possibilità di fondazione di una teoria del restauro)
Un científico es superado por otro que le
sigue:
un poeta es siempre literalmente
insuperable.
Source: (Ortega y Gasset, 2014: 179)
Apparentemente solo discosto dal precedente tema, è quello del rapporto tra discipline umanistiche e discipline scientifiche che trova, nel restauro, un interessante piano dialettico, a patto di voler accettare la critica e l’estetica come appartenenti al mondo delle discipline umanistiche. È chiaro come, affermando in modo assiomatico che “si restaura solo la materia dell’opera d’arte” (Brandi, 1963a: 17; Brandi, 1963b: 35; Brandi, 1977: 7), questa posizione apra ad un ruolo determinante delle scienze chimiche e fisiche (ma anche biologiche) il cui studio e le cui applicazioni sono infatti alla base della fondazione del Regio Istituto Centrale del Restauro. Proprio nella relazione di Brandi per l’inaugurazione dell’Istituto, però, viene sottolineato che “Le ricerche sussidiarie di chimica e di fisica, le ricognizioni radiografiche, non tolgono nulla alla perizia del restauratore e non diminuiscono l’acume del critico, ma costituiscono mezzi illuminanti all’attività dell’uno e dell’altro” (Brandi, 1941: 51). Questa posizione è presente con continuità negli scritti di Brandi, il cui obiettivo fondante di tutta la teoria è “giungere al concetto del restauro per rigorosa deduzione dal concetto stesso dell’arte” (Brandi, 1950a: 6):
E’ concetto erroneo, illusione collegata a vieto empirismo filosofico, che si possa strappare il restauro all’empirismo dei falsi taumaturghi unicamente col sussidio della fisica e della chimica, che sono ancelle e non padrone del restauro. Per il fatto di usare raggi ultravioletti e raggi X, macrofotografia etc. non si riuscirà a fare un restauro non empirico, se l’attività di restauro non sia guidata da una conoscenza critica e precisa. (Brandi, 1954: 95).
A sostegno di questo, afferma che
le oscillazioni pratiche, le differenze metodologiche rappresentano non già l’invalidazione del concetto di restauro, ma la elaborazione del concetto attraverso la concretezza storica, nel processo speculativo che è inarrestabile per ogni posizione assunta dal pensiero. (…). Noi sosteniamo che la pratica stessa del restauro deve rigorosamente dedursi dal principio che lo pone inscindibile dall’Estetica. E qui, se la deduzione non potrà essere per tutti e per tutto tassativa, dovrà tuttavia portare a un restringimento dell’angolo di apertura, ottenere una equipollenza se non un’eguaglianza, con la elaborazione di un metodo che non sarà solo il medievale ricettario, il figurato Taccuinum Sanitalis dell’opera d’arte malata (Brandi, 1950a: 9).
Un metodo, quindi, ma non un manuale di rimedi fisici da applicare all’opera malata; “se il restauro merita di essere chiamato restauro” infatti “e deve essere qualcosa di diverso da un intervento medico o chirurgico sull’opera d’arte, lo può e lo deve essere in quanto interpretazione, forma di critica” (Brandi, 1954: 90). La scienza, quindi, come sussidio importante, senza però smarrire il fatto che il restauro poggia la propria ragione di essere sull’interpretazione critica, che a sua volta trova momento fondante nel riconoscimento dell’opera d’arte. In qualità di annotazione, sottolineo come giustamente Brandi distrugga quella metafora tanto diffusa nel restauro architettonico dell’edificio come malato e del restauratore come medico: il restauro come medicalizzazione, diretta conseguenza di una analisi rivolta alle sole patologie fisiche dell’architettura, sminuisce grandemente il tema, facendoci perdere del tutto il rapporto con quella “cura” di cui parla Martin Heidegger, legata all’abitare e al costruire (Heidegger, 1991b; 2012).
Torniamo ora al rapporto tra restauro e idea dell’arte che viene accuratamente esaminato nel testo “Il fondamento teorico del restauro”. La domanda sottesa è se sia possibile una teoria del restauro, o se non sia piuttosto “che ogni restauro sia solo buono per l’epoca che lo giustifica e magari pessimo per la seguente che la pensi in modo diverso” (Brandi, 1950a: 8). Se il restauro infatti poggia la propria attività pratica sulla base di una teoria che è “transeunte come è fatale per ogni sistema filosofico” (Brandi, 1950a: 8) allora si verrebbe a verificare la “impossibilità teorica del restauro” (Brandi, 1950a: 8) che verrebbe così ricondotto a pura pratica. Come dimostrato però anche dalla lettura critica degli interventi che si sono succeduti nel tempo, l’intervento di restauro non è mai slegato dal modo di intendere l’opera d’arte:
anche nel semplice
cambiare le tegole ad un monumento o ricollocare una statua all’altezza per cui era stata modellata, noi non possiamo illuderci di contenere la nostra attività nel mero campo della pratica (…) anche il minimo intervento, rivelerà se vediamo nell’opera d’arte un mero monumento storico, o se invece è l’artisticità sola dell’opera che ci muove o se, pur prospettandocela nei due aspetti, intendiamo dare una prevalenza al primo o al secondo; se infine, in questa ultima ipotesi, la prevalenza venga decisa sulla base di un gusto personale o per deduzione del concetto stesso dell’arte o della storia (Brandi, 1950a: 5).
Dunque “proprio perché riconosciamo che il pensiero non si può fermare (…) noi abbiamo il dovere di continuare ad elaborare i nostri concetti senza pregiudizio del cambiamento che potranno subire nel futuro di una speculazione non ancora pensata” (Brandi, 1950a: 8): il fondamento della teoria del restauro di Brandi non poggia, dunque sulla contingente teoria estetica, che ha l’assoluto diritto di modificarsi, bensì sull’essere il restauro legato indissolubilmente all’estetica. Questo è il motivo per il quale può affermare che “solo la dissoluzione del concetto dell’arte può invalidare o annullare il problema del restauro” (Brandi, 1950a: 8) essendo il riconoscimento il primo restauro, quello che eccettua l’opera di cui vogliamo prenderci cura, dagli altri oggetti; e ancora, che “solo con la negazione del carattere estetico dell’opera d’arte si può dissolvere il concetto dell’arte” (Brandi, 1950a: 9). Che questo dibattito sia assolutamente aperto e complesso è noto –fine dell’estetica, morte dell’arte[13]– che, come espressione del nostro pensiero, debba essere ridefinito il significato dell’opera d’arte e l’estensione dello stesso[14], è indubbio; ma proprio in questo risiede l’importanza di leggere in trasparenza la teoria del restauro e la riflessione teorica più in generale di Brandi, che non possono essere sbrigativamente archiviate in favore di una presunta contemporaneità del pensiero[15] che vedrebbe quindi superati senza appello gli assunti precedenti, buoni tutt’al più di far bella mostra di sé, come libri, sui ripiani di una libreria.
A ben guardare, il pensiero produttivo che si è incentrato, sulla scorta anche dello sviluppo delle tecnologie digitali, sulle reti, sui flussi, sui processi, sul divenire, che ancora caratterizza gran parte del nostro dibattito e che ha in qualche modo sostenuto la più parte dei liquidatori della teoria brandiana, ci ha però fatto perdere di vista gli oggetti: abbiamo guadagnato in molteplicità, in complessità, che sono sguardi che non possiamo più perdere, ma è rimasto indeterminato il momento d’arresto della dialettica delle relazioni tra i vari attori, ad esempio, che concretizza un progetto, sia di restauro, sia di nuova costruzione. Dal mio angolo di visuale, dunque, l’architettura e soprattutto il restauro, senza una riflessione a partire dagli oggetti, non può darsi, o per lo meno non è sufficiente.
Aggiungo ancora che troppo spesso si è letta e in qualche modo accusata la teoria del restauro di Brandi, e soprattutto il testo Teoria del restauro di voler essere rigidamente assiomatica, precettistica. Se torniamo a riprendere la prima edizione del testo della Teoria del restauro notiamo subito che aveva, al fondo, un corredo di tavole, che nelle successive ristampe non è più presente. Ciò che ha sempre attratto la mia attenzione è la scelta di aprire questa sezione con “il dorso della cosa”, con il retro del dipinto di Antonello da Messina, Ecce Homo (Figura 1), dipinto che non ritorna tra le immagini successive, dal lato più noto. E in questa scelta, mi piace pensare, ci sia il senso della teoria di Brandi: “Il davanti è chiaro o rischiarato, ma nessun uomo sa ancora di che cosa è fatto il dorso delle cose, che noi ci limitiamo a vedere, né sa di che cosa è fatto il sotto delle cose, in cui tutto fluttua” (Bloch, 1989: 184).
Come una apertura: lo spazio (e gli oggetti)
Ho lasciato in sospeso, dall’inizio di questo scritto, un tema che ritengo centrale nel lavoro ampio e complesso di Cesare Brandi: lo spazio. Brandi declina e usa molti tipi di spazi: spazi diversi, infatti, pertengono alla scrittura critica e all’opera; l’epochè, la riduzione, significano, oltre che sospensione, messa tra parentesi, enucleazione di uno spazio altro; uno spazio, un “solco di nulla”, separa la flagranza dall’astanza; spazi diversi competono all’opera e alla lacuna e dunque anche al suo risarcimento; l’opera stessa comprende al suo interno spazi, quello della figura e quello dello sfondo, ad esempio; la metafora, abbiamo visto, produce uno spostamento continuo tra due spazi e l’elenco potrebbe continuare.
Ma lo spazio che più mi interessa indagare ora, è lo spazio speciale dell’opera d’arte e in particolare quello dell’architettura.
La spazialità dell’opera d’arte, afferma Brandi, in quanto realtà pura o astanza, è dotata di autonomia: “Questa spazialità arriva allora a inserirsi nello spazio fisico che è il nostro stesso spazio in cui viviamo, e arriva a insistere in questo spazio, senza tuttavia parteciparne” (Brandi 1963b: 78; Brandi, 1977: 50).
In Teoria generale della critica, poi, Brandi separa la trattazione dell’architettura dalle altre manifestazioni di astanza ottiche e questo perché ritiene necessario porre un distinguo: lo spazio di cui si tratta in architettura non è “solo lo spazio in cui si accampa l’opera architettonica e quello che sviluppa, ma soprattutto l’opposizione tra questo ultimo spazio, che si è chiamato spazialità, e lo spazio fenomenico che ci circonda e in cui siamo, per così dire, immersi” (Brandi, 1998: 258) e in Struttura e architettura ribadisce:
La spazialità architettonica non esiste né fuori dell’architettura né prima dell’architettura. La prima nozione che si ricava da qualsiasi opera di architettura, è che la sua astanza si produce entro lo spazio esistenziale, ma che la spazialità che la astanza offre non coincide con lo spazio in cui è contenuta, e neppure con una qualsiasi concettualizzazione geometrica dello spazio, anche se su questa concettualizzazione si basi e la contenga (Brandi, 1975: 49).
Questa opposizione spazialità-spazio, così importante, richiama alcune riflessioni di Heidegger, soprattutto là dove, ne L’origine dell’opera d’arte, introduce il tema del tempio greco e del suo ruolo rivelante:
Un edificio, un tempio greco, non riproduce nulla. Si erge semplicemente, nel mezzo di una valle dirupata. (…). Eretto, l’edificio riposa sul suo basamento di roccia. Questo riposare dell’opera fa emergere dalla roccia l’oscurità del suo supporto, saldo e tuttavia non costruito. Stando lì, l’opera tien testa alla bufera che la investe, rivelandone la violenza. Lo splendore e la luminosità della pietra, che essa sembra ricevere in dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l’immensità del cielo, l’oscurità della notte. Il suo sicuro stagliarsi rende visibile l’invisibile regione dell’aria. La solidità dell’opera fa da contrasto al moto delle onde rivelandone l’impeto con la sua immutabile calma. L’albero e l’erba, l’aquila e il toro, il serpente e il grillo assumono così la loro figura evidente e si rivelano in ciò che sono. Questo venir fuori e questo sorgere, come tali e nel loro insieme, è ciò che i Greci chiamano originariamente Φνσις. Essa illumina ad un tempo ciò su cui e ciò in cui l’uomo fonda il suo abitare. Noi la chiamiamo Terra. (…). Eretto sulla roccia il tempio apre un mondo e lo riconduce, nello stesso tempo, alla Terra, che solo allora si rivela come suolo natale. (…). Stando lì eretto, il tempio conferisce alle cose il loro aspetto e agli uomini la visione di se stessi (Heidegger, 1968: 27-28).
Il tempio, quindi, per Heidegger rivela qualcosa di più, oltre al costruito e all’aprirsi di un Mondo, un’eccedenza, ciò su cui e in cui l’uomo fonda il proprio abitare: la Terra, qualcosa che si manifesta come il non costruito, ciò che nasconde-protegge, un ri-velato che mentre apre e illumina, fa essere presente l’oscurità e il nascondimento. Viene poi sottolineato, che la pesantezza della roccia, come la flessibilità del legno, ossia la materia di cui l’opera è formata, non si possono cogliere attraverso l’uso della bilancia o mediante i calcoli: ciò che cogliamo è la loro impenetrabilità, il loro ritrarsi rispetto a qualsiasi tentativo di determinazione scientifica. Questo, insieme alla traccia della Terra, è ciò che l’opera conserva, nascondendolo, e rivela. In Costruire abitare pensare (Heidegger, 1991b: 96-108), con alcune variazioni importanti, viene riproposto lo stesso tema: qui l’esempio è quello notissimo del ponte e costruire significa “edificare cose”, dove per “cosa” si intende la custodia dell’essere della Quadratura, cielo, terra, divini e mortali. In questo esempio, il ponte fa apparire –dunque continua la funzione ri-velante delle architetture– le sponde del fiume e con esse i territori retrostanti, mette in vicinanza il fiume, le rive, i territori; il ponte, come cosa, riunisce poi la Quadratura. Ciò che però il ponte determina è il luogo (Ort), che non esiste prima di esso: ci sono degli spazi (Stellen)[16], quindi, che in virtù del ponte diventano luoghi. Questa riflessione è nuova, rispetto all’esempio del tempio, e sposta l’attenzione non solo sul nascere del mondo storico e sul rivelarsi richiudentesi della Terra, ma sulla fondazione del luogo attraverso l’architettura che è rammemorazione.
In Brandi, però, l’opposizione spazialità-spazio, importante anche per la pittura e la scultura che ugualmente creano, come il tempio e il ponte di Heidegger, il proprio spazio più che non vi insistano semplicemente, assume per l’architettura un’importanza determinante in quanto essa possiede non solo un esterno, ma anche un interno, “non è un blocco impenetrabile” (Brandi, 1998: 259).
La differenza tra una caverna e San Pietro, ci spiega, non sta tanto nel fatto che entrambe abbiano un interno e un esterno, quanto nel fatto che la caverna possiede un interno e un esterno semplicemente fenomenici. L’ipotesi di Brandi è che, per l’architettura, interno e esterno “si configurino indissolubili pur se analizzabili” (Brandi, 1998: 259). Nel mondo fenomenico, l’indissolubilità tra interno e esterno non è obbligata, ma per l’architettura invece “di una indissolubilità di interno-esterno, non si dà alternativa che possa o non possa esserci un interno: se non vi sia l’interno non si produrrà l’opposizione di spazialità-spazio fenomenico” (Brandi, 1998: 260). Questa posizione nasce, ci dice, dal processo della percezione, rifiutando l’ipocrisia scientifica di un metodo assiomatico. Per l’architettura “il primo rilievo che si pone è di qualcosa che trasforma lo spazio naturale costituentesi all’osservazione come contenuta in quello spazio, ma non allo stesso modo di una pianta o di una montagna” (Brandi, 1998: 260): si avverte subito, infatti, una differenza dovuta al suo essere opera umana, sebbene questo non sia sufficiente, perché lo stesso potrebbe dirsi di un aerostato.
La spazialità dell’architettura, invece, “che si realizza in una data figuratività, non viene all’opera dall’esterno ma è funzione della sua stessa struttura” (Brandi, 1963b: 105; Brandi, 1977: 77): ma la struttura dell’architettura non è data solamente dall’inscindibile rapporto tra interno e esterno ma dalla necessità che “in ogni suo momento la forma dell’architettura sia al tempo stesso esterna e interna a se stessa e non che si possa penetrare nella forma, ma proprio la forma si ponga come forma-che-si-penetra, né possa darsi in altro modo che così” (Brandi, 1992b: 263). L’internità di un esterno non è l’interno fenomenico: “nell’esterno e nell’interno, si deve realizzare, per la forma, una spazialità indenne dallo spazio naturale, e dunque, interno ed esterno, non sono altro che le proprie dimensioni della spazialità dell’architettura, di contro alle dimensioni reali dello spazio esistenziale, e a quelle mentali o supposite dello spazio della fisica” (Brandi, 1992b: 272-273).
L’internità dell’esterno e l’esternità dell’interno definiscono interno e esterno come oggetti, pur nella relazione interno-esterno indivisibile, e assumono una indipendenza operativa: è interessante il riferimento alla cupola di S. Pietro, al doppio guscio di cui è costituita, ciascuno dotato di intradosso e estradosso perché non è vero, e Brandi non può non saperlo, che dal punto di vista costruttivo per darsi una cupola necessita obbligatoriamente di essere a doppia struttura: sembra piuttosto un tentativo di rendere in immagine il complesso concetto di internità dell’esterno e esternità dell’interno. Ancora una volta, un riferimento potrebbe essere Heidegger quando afferma che “A rigore, di un «toccare» non si può mai parlare (… ) perché la sedia non può in linea di principio toccare la parete, anche se lo spazio intermedio fosse uguale a zero” (Heidegger, 2012: 86): è il tema dell’“«internità» dell’uno all’altro di enti sottomano” (Heidegger, 2012: 87), è la “co-presenza indissolubile” di interno e esterno cui Brandi parla in Eliante.
Perciò, seguendo l’analisi dell’architettura svolta da Brandi, quale è veramente l’”oggetto” dell’intervento di restauro? Quanti “oggetti” compongono l’opera, separandosi tra loro mediante i loro interni e esterni? E ancora, sempre in compagnia di Brandi, di quanti “spazi” abbiamo bisogno per riconoscere questi oggetti e operare su di essi?
Questi problemi richiamano riflessioni che si stanno svolgendo, presso la Southern California Institute of Architecture di Los Angeles[17], dove insegna e fa ricerca il filosofo Graham Harman, che è uno dei principali esponenti del movimento del realismo speculativo, nella particolare accezione dell’Object Oriented Ontology (OOO) da lui proposta. Non è mia intenzione addentrarmi qui nei problemi sollevati da Harman, ma solamente rilevare che molti di questi, per la radice anche dei riferimenti alle filosofie di Husserl e di Heidegger, costituiscono interessanti vie di fuga potenziali anche per il pensiero di Cesare Brandi. Lascerei dunque, alle parole di Harman, quella che ritendo una proficua possibile apertura:
Come sempre accade in un’antica disciplina come la filosofia, non tutte le idee di OOO sono nuove, sebbene siano utilizzate in nuove combinazioni e applicate a soggetti che i filosofi hanno spesso trascurato. Alcuni dei principi base di OOO, da esaminare nel dettaglio nei prossimi capitoli, sono i seguenti: (1) Tutti gli oggetti devono ricevere uguale attenzione, siano essi umani, non umani, naturali, culturali, reali o finzionali. (2) Gli oggetti non sono identici alle loro proprietà, ma hanno una relazione tensionale con quelle proprietà, e questa stessa tensione è responsabile di tutti i cambiamenti che avvengono nel mondo. (3) Gli oggetti si presentano secondo due soli tipi: gli oggetti reali esistono indipendentemente dal fatto che influenzino al momento qualsiasi altra cosa, mentre gli oggetti sensuali esistono solo in relazione a qualche oggetto reale. (4) Gli oggetti reali non si possono relazionare l’un l’altro direttamente, ma solo indirettamente, per mezzo di un oggetto sensuale. (5) Anche le proprietà degli oggetti sono di due tipi: di nuovo, reali e sensuali. (6) Questi due tipi di oggetti e due tipi di qualità portano a quattro permutazioni di base, che OOO considera come la radice del tempo e dello spazio, così come i due termini strettamente correlati conosciuti come essenza ed eidos. (7) Infine, OOO sostiene che la filosofia in genere ha una relazione più stretta con l’estetica che con la matematica o le scienze naturali [18] (Harman, 2017: 9).
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Nota