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Icentri storici fra politica, urbanistica e restauro
Conversaciones…, no. 11, pp. 113-122, 2021
Instituto Nacional de Antropología e Historia

Artículos

Conversaciones…
Instituto Nacional de Antropología e Historia, México
ISSN: 2594-0813
ISSN-e: 2395-9479
Periodicity: Bianual
no. 11, 2021

Queda estrictamente prohibida la reproducción total o parcial de los contenidos y las imágenes de la publicación, sin previa autorización del Instituto Nacional de Antropología e Historia.

This work is licensed under Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 4.0 International.

Sommario: Nella consapevolezza dell’inutilità d’impegnarsi nella conservazione dell’antico se non si cercano alternative al frenetico ‘consumo’ dei centri storici spagnoli, F. Chueca Goitia rivolge le sue attenzioni alle periferie ed alla loro vita sociale. S’interroga, quindi, sulla relazione fra centro storico, periferia e territorio, invocando una politica di riequilibrio regionale, sostenuta dalla mano pubblica con strumenti legislativi e finanziari adeguati. La posizione di C. Flores Marini è meno orientata alla denuncia ma ugualmente consapevole del valore profondo dei monumenti che, compresi quelli coloniali, hanno dato carattere alla fisionomia stessa del Messico. Egli si sofferma sul tema della moderna utilizzazione dei monumenti, denunciando i rischi, per il patrimonio, d’una spinta ‘modernizzazione’ e dello sviluppo economico. Allarga il suo ragionamento all’insieme urbano e nota come l’armonia delle vecchie città non dipenda dalla qualità eccezionale dei singoli manufatti ma abbia un carattere ‘corale’, legato alla natura del tessuto edificato. Riconosce l’importanza di un’opera, sicuramente gravosa, di convincimento politico e sensibilizzazione delle classi dirigenti. Entrambi gli autori rilevano l’importanza della partecipazione attiva dei cittadini, ai quali dalla buona tutela deve ritornare un beneficio sociale, e quella della formazione, per alzare il livello professionale degli architetti.

Parole: Città storiche, restauro, urbanistica, politica.

I centri storici fra politica, urbanistica e restauro

Pur risalendo agli scorsi anni sessanta e settanta, periodo di grande sviluppo economico e di rapido inurbamento, gli scritti di Fernando Chueca Goitia (1911-2004), relativi alle preoccupanti sorti delle città storiche (1965, Las ciudades históricas (Un drama de nuestro tiempo); 1973, El problema de las ciudades históricas) e, diversamente, quelli di Carlos Flores Marini (1937-2015), più propriamente relativi al restauro dei monumenti architettonici (1966, La restauración de monumentos coloniales en México; 1973, Algunos conceptos sobre la problemática de la restauración monumental en América Latina; 1976, El futuro del pasado), si presentano tuttora con caratteri di grande attualità e, si potrebbe ben dire, ‘profetici’ per come hanno saputo anticipare, con riferimento alla Spagna e all’Europa, ma pure all’America Latina ed anche oltre, temi che ancora oggi si presentano irrisolti e bisognosi di continua riflessione e di avanzamenti di pensiero.

Mentre l’architetto messicano Flores Marini si allarga, nei suoi diversi e successivi contributi, dal tema della tutela e del restauro degli edifici coloniali nel Messico (1966) a quello della problematica del restauro monumentale in America Latina (1973) ed al futuro di quel ricco e sovente misconosciuto ‘passato’ contenuto nelle città storiche (1976), l’architetto, professore e intellettuale spagnolo Chueca Goitia, nello stesso intorno di anni, si dedica a studiare le sorti delle città storiche, che costituiscono un “dramma” del nostro tempo (1965, 1973 ed oltre, fino al 2001). Su questo secondo autore va subito ricordato il magnifico lavoro recentemente pubblicato dalla professoressa Ascensión Hernández Martínez (2019).

Ella ricorda in apertura gli accuratissimi lavori di restauro compiuti da Chueca Goitia, il suo apporto al dibattito nazionale ed internazionale, la sua attività di teorico, storico dell’architettura, professionista e ‘umanista’, più precisamente di “attivista del patrimonio culturale” ma anche il suo essere stato giudicato da una critica superficiale e ideologica come un architetto poco moderno ed eccessivamente storicista. Il suo pensiero è, invece, espressione d’una profonda riflessione, che va alla ricerca delle cause prime della ‘rottura’ del mondo contemporaneo con la città storica e che non manca mai del necessario equilibrio e di un’apertura alle ragioni vitali del tempo presente.

Per Chueca Goitia tale rottura è stata introdotta dal ‘funzionalismo’, mentre la città precedente la Rivoluzione Industriale come anche quella borghese e liberale ottocentesca, sulla cui difesa egli s’impegna contro le facili tentazioni demolitorie, sono rimaste in naturale e positiva continuità col passato. Il peccato che egli riscontra nella città funzionalista del XX secolo consiste nel rifiuto della storia, proprio del Movimento Moderno; al contrario egli afferma che “la città è storia” e le città storiche sono, in effetti, palinsesti la cui “salvezza dipende da una capacità minima di trasformazione”[1] guidata dal principio che l’uso deve seguire il tipo edilizio, la preesistenza, e non viceversa (Hernández Martínez, 2019: 23, 28). Affermazioni, queste, nelle quali si riconosce quell’apertura alle vitali ragioni odierne di cui prima si diceva ed, al tempo stesso, uno dei principi del restauro architettonico, che lo distingue dalla pratica del mero ‘riuso’ o ‘recupero’ o, peggio, ‘riciclo’ delle testimonianze monumentali, vale a dire che l’elemento mobile, adattabile e flessibile dev’essere sempre costituito dalla funzione, la quale dovrà rispondere alle ‘vocazioni’ dell’edificio, riconosciute e indagate tramite un’attenta indagine storico-critica. Cioè dovrà porsi a servizio del bene architettonico e non viceversa. Tutto ciò nella piena consapevolezza che l’uso di un antico edificio rappresenta, senza dubbio, uno ‘strumento’ essenziale di conservazione, forse il più importante ed efficace, da non confondere, tuttavia, col fine del restauro che consiste nella conservazione e trasmissione al futuro del bene stesso.

Tutto ciò non ha niente a che fare con le polemiche, sovente pretestuose, relative ad un suo ‘conservatorismo’, come afferma Oriol Bohigas (1961), che mirerebbe, in effetti, non tanto a conservare quanto ad imporre una deriva ‘stilistica’ ai nuovi progetti, distorcendo la ricerca estetica e facendola recedere verso forme di neotradizionalismo, neopittoresco, ecc. Ma non è questo il pensiero di Chueca Goitia né quello della Carta di Venezia (1964), riferimento di base del moderno restauro architettonico, palesemente contraria ai rifacimenti in stile. Il nostro architetto non è ostile all’architettura contemporanea, anzi ha personale esperienza in materia essendo anche stato il direttore del Museo Nazionale Spagnolo di Arte Contemporanea. Egli ragiona sul concetto di ‘tradizione’, di patrimonio edilizio e di patrimonio urbano; si pone, in primo luogo, a difesa di tale patrimonio, anche di quello piuttosto recente ‘neomudéjar’, e del valore ‘corale’ del tessuto urbano impropriamente detto ‘minore’, compresi i suoi colori, sovente grossolanamente riproposti o malamente reinventati, mentre raccomanda toni “pallidi e discreti”.

Richiama l’attenzione sull’“intorno dei monumenti” e non solo sui monumenti conclamati, ricollegandosi così, come in altre occasioni, a formulazioni di pensiero italiane risalenti già ai primi del Novecento, con Gustavo Giovannoni e poi con i suoi allievi, come Giorgio Rosi che nel 1942 riprende il tema con nuove illuminanti parole, sottolineando il doveroso passaggio dalla considerazione dell’‘ambiente dei monumenti’ ai ‘monumenti d’ambiente’ in quanto tali.



PIAZZA DI SPAGNA, SIVIGLIA.
Immagine: Dominio pubblico.

In sostanza egli pone una questione di ‘tatto’ e di ‘misura’ senza alcuna opposizione preconcetta al nuovo, purché questo non sia asservito agli interessi economici di pochi a danno di un ‘bene comune’ qual è, per sua natura, la città: essa “non è un insieme d’interessi immobiliari. È una forma di vita, una cristallizzazione storica, un insieme monumentale”[2] (Chueca Goitia en Hernández Martínez, 2019: 44, 47). Teme invece un’architettura contemporanea omologata e senza qualità.

A lui si accompagnano altri autori, come Juan José Martín González o anche Juan Antonio Gaya Nuño, il quale osserva rammaricato “la distruzione pacifica del patrimonio nazionale”[3] in atto (Gaya Nuño, 1961). Consapevole dell’inutilità di arroccarsi nella conservazione dell’antico se, contemporaneamente, non si cercano alternative al frenetico ‘consumo’ dei centri storici, Chueca Goitia rivolge le sue attenzioni alle periferie ed alla vita sociale che in esse è doveroso assicurare. S’interroga, quindi, sulla relazione fra centro storico, periferia e territorio, invocando una politica di riequilibrio, appunto, territoriale e regionale, sostenuta dalla mano pubblica, anche con strumenti legislativi e finanziari adeguati. Minore è la sua fiducia in una certa urbanistica vista come ‘tecnica’ al servizio d’interessi lontani dalla cultura e dalle autentiche esigenze di vita dei cittadini. Ma la sua critica va più a fondo e tocca temi filosofici e sociologici, come il concetto di ‘uomo-massa’, introdotto dal pensiero di José Ortega y Gasset, rispondente ad esigenze continue di consumo e abituato ad un ‘ambiente spersonalizzato’, che vede la città come un mero luogo di sfruttamento, non la ama né la vive realmente, solo la osserva, distratto, dal finestrino della propria automobile mentre si muove velocemente in essa; che si compiace di vederla segnata dai moderni grattacieli, odiati da Chueca Goitia, che li giudica ‘aggressivi’ per natura e incapaci di “convivenza civile” (Hernández Martínez, 2019: 50, 65, 73). Ma proprio essi, tuttavia, hanno rappresentato il sogno segreto di ogni sindaco spagnolo (ed anche italiano, quando si pensi al caso di Gallipoli in Puglia o di Santa Marinella nel Lazio) fra gli scorsi anni cinquanta e settanta.



PONTE DI ATOCHA, MADRID.
Immagine: Dominio pubblico.

Forti sono le sue critiche al sistema universitario spagnolo, che ha relegato le Facoltà di Architettura in un limbo tecnico, comprimendo e quasi annullando la formazione storica ed ogni essenziale riferimento umanistico. Egli non apprezza neanche, di conseguenza, l’attività degli uffici di tutela, che oscillano fra incapacità valutativa, propositiva e cedimento alle mode correnti, da una parte, chiusa e ottusa erudizione dall’altra. Nel suo saggio del 1965 constata che, nel campo della tutela, le azioni statali sono ‘rozze e grossolane’, che il rischio di devastazione delle città storiche è accentuato dall’afflusso incontrollato di troppi soldi (si pensi subito all’attuale situazione europea e soprattutto italiana, con i finanziamenti straordinari del cosiddetto Recovery Plan che già stanno mostrando i loro primi effetti negativi) ma sente soprattutto il bisogno di un lavoro di educazione dei cittadini. Dure sono le sue parole sulla figura dell’architetto, “nemico della conservazione”, per incultura, assenza di “formazione umanistica”, debolezza e compiacimento, per “mancanza di convinzioni”, verso le mode correnti che vedono come una “prova di scarsa energia creatrice” la “condiscendenza verso il vecchio” (Chueca Goitia, en Hernández Martínez, 2019: 135). Infine sulla ‘tecnolatria’ propria di politici, burocrati e, come detto, urbanisti. Tornano qui in mente la definizione di Victor Hugo sull’architetto naturalmente ‘vandalo’ ed una recente riflessione di Ivano Dionigi (2021) sulla necessità “di porci in relazione con il continuum della storia, che ci soccorre nel capire e nel cambiare e ci preserva dall’essere ‘gli uomini del momento’ (Chateaubriand) e ‘i servitori della moda’ (Nietzsche)” (Dionigi, 2021: 26).

Egli si è posto profeticamente controcorrente e, come scrive A. Hernández Martínez, “superò i limiti del suo tempo”[4] (Hernández Martínez, 2019: 95) anticipando questioni oggi all’ordine del giorno ed intravedendo già quel fenomeno di “disumanizzazione”, progressivamente trasformatosi anche in mera ‘turistizzazione’ di molte ‘città d’arte’, a partire da Venezia. Mosso da un profondo amore e rispetto per le città storiche spagnole ed europee, le cita più volte preoccupato: Segovia, “prova palpabile di un processo di lenta biografia sociale”[5] (Chueca Goitia en Hernández Martínez, 2019: 70), basata sulla continuità, Siviglia, “opera d’arte totale”[6] (Hernández Martínez, 2019: 77), così anche Granada, Toledo, Salamanca e la stessa Saragozza, con un grande rimpianto anche per le sorti di Madrid. Ma la lista potrebbe continuare a lungo e allargarsi all’Europa, che egli ben conosce.

La posizione espressa da Carlo Flores Marini nel suo saggio del 1966 è meno orientata alla denuncia ma ugualmente consapevole del valore profondo dei monumenti i quali, compresi quelli coloniali, hanno dato tradizioni e carattere alla fisionomia stessa del Messico. Egli si sofferma opportunamente sul tema fondamentale della moderna utilizzazione dei monumenti. Ma nel suo scritto del 1973 già denuncia i rischi, per il patrimonio, generati dalla spinta ‘modernizzazione’ e dallo sviluppo economico in atto, osservando che molto si è conservato per la povertà di mezzi. Allarga il suo ragionamento all’insieme urbano e nota come l’armonia delle vecchie città non dipenda, necessariamente, dalla qualità eccezionale di singoli manufatti ma abbia, come s’è visto in Chueca Goitia, un carattere ‘corale’ tanto che anche la scomparsa, nel tessuto edificato, d’un solo edificio ‘minore’ può compromettere in forma grave l’unità volumetrica del complesso e di conseguenza la sua qualità monumentale.



CATEDRALE, PUEBLA.
Immagine: Dominio pubblico.



SAN MIGUEL DE ALLENDE.
Immagine: Dominio pubblico.

Riconosce l’importanza di un’opera di convincimento politico, perché si tratta di questioni, in effetti, nativamente politiche, riconoscendo però nella sensibilizzazione delle classi dirigenti senza dubbio il maggiore e più difficile lavoro. All’attenzione per la realtà edificata va anche accostata quella per la realtà socio-economica, non potendo esistere vero restauro né conservazione senza una contemporanea rivitalizzazione ambientale ed umana; fondamentale è la partecipazione attiva dei cittadini, ai quali, dalla buona tutela, deve tornare un beneficio sociale. Anch’egli si esprime contro il restauro in stile e contro gli inserti modernisti, alcuni dei quali giocati su un grossolano eccesso di ‘differenziazione’, da cui discende un’evidente disarmonia urbana.

Nel saggio del 1976, Flores Marini torna sull’argomento mettendo in guardia contro il rischio di avere città-museo di tipo nord-americano: una “città vibra e vale quando vive”[7] (Flores Marini, 1976: 50), afferma con chiarezza. Rigetta il maquillage urbano e richiama in campo le ragioni sociali e funzionali; rammenta, come Chueca Goitia, l’importanza della formazione, per alzare il livello professionale degli architetti ed infine, grazie alla sua formazione specialistica a Roma presso l’Università “La Sapienza”, molti autori italiani, da Piero Sanpaolesi a Carlo Ceschi, da Roberto Pane ad Alfredo Barbacci e, naturalmente, Gustavo Giovannoni, più qualche autore francese e, per il mondo inglese, il solo John Ruskin.

Il riferimento all’Italia è presente nei due autori: in Flores Marini anche con l’espresso richiamo, per esempio, al criterio formulato da Ambrogio Annoni (1946) del ‘caso per caso’; in Chueca Goitia mediato dal suo maestro Leopoldo Torres Balbás (1888-1960) che in Gustavo Giovannoni (1873-1947) aveva riconosciuto un importante riferimento, ma anche riscontrabile nei suoi sviluppi di pensiero oltre che nel singolare apprezzamento espresso su come si siano invece conservate molte città italiane rispetto ad altre nazioni europee, fra cui, in tutta evidenza, la Spagna.

In conclusione, si tratta di saggi di straordinario interesse che posseggono un alto valore in sé ma attestano anche una comunanza di pensiero e di sensibilità, se mi si consente il termine, ‘latina’ che rende reciprocamente compatibili le differenti affermazioni e posizioni, espresse su realtà, territori ed anche continenti diversi ma tutte confluenti in un unico, convinto e appassionato apprezzamento per il passato ed i suoi valori civili, sociali e di memoria. Ciò fa degli scritti dei due autori un valido contributo per una più generale dottrina e prassi della conservazione, spontaneamente condivisa in quel mondo, oggi proprio dell’Europa centro-meridionale ed anche dell’America Latina, che ha orientato il pensiero del restauro in maniera ‘occidentale’ fin dalla tarda antichità, a partire dal V-VI secolo, legandolo alla perpetuazione fisica della ‘materia’, intesa come portatrice e suscitatrice di valori spirituali. Ciò secondo una ‘nuova’ sensibilità, debitrice della concezione giudaico-cristiana, lineare e non ciclica del tempo e della memoria, innestata sulle radici filosofiche, giuridiche e di pensiero greco-romane. Da qui la radicale differenza ancora oggi rilevabile, per esempio, fra sensibilità europea ed asiatica.



ALCÁZAR DE COLÓN, SANTO DOMINGO.
Immagine: Pedro Rojas, 1977.

In quest’ottica risulta subito necessario sgombrare il campo dall’idea, quanto mai riduttiva, per non dire errata, della conservazione e della tutela come azioni motivate da ragioni ‘elitarie’ ed erudite, interessate al passato e non al mondo presente né futuro. È vero, invece, esattamente il contrario, che la conservazione ed il restauro del patrimonio culturale (e naturale) sono per il bene della nostra e, soprattutto, delle più giovani generazioni.

Di conseguenza e con piena coerenza alcuni documenti internazionali, come la Dichiarazione di Amsterdam e la Carta europea del patrimonio architettonico, entrambe risalenti al 1975, “Anno europeo del patrimonio architettonico”, sulla base della constatata “insufficienza del restauro delle sole pietre” (vale a dire della mancata attenzione all’immissione nei vecchi monumenti di una nuova ragione di vita), hanno sviluppato e sostenuto il concetto di ‘conservazione integrata’, dove tale integrazione va intesa, in primo luogo in senso urbanistico, contro l’artificioso isolamento del bene dal suo contesto cittadino, territoriale, paesaggistico e più generalmente storico-culturale; in secondo luogo in senso funzionale, come restituzione del bene, se possibile, alla sua utilizzazione primitiva o, in alternativa, come attribuzione di funzioni nuove ma ‘compatibili’, cioè coerenti con la natura architettonica e la sua stessa consistenza materiale, compreso lo stato d’invecchiamento e di degrado. Cioè come accorta ‘vitalizzazione’ o ‘valorizzazione culturale’, non meramente economica o speculativa, del bene stesso; se si preferisce, come uso senza abuso e, com’è stato giustamente detto, senza ‘consumo’ del bene che, per sua natura, costituisce una testimonianza unica e irripetibile, quindi una risorsa ‘non rinnovabile’.

Ciò nella giusta convinzione che i monumenti e gli stessi centri storici non abbiano speranza di conservazione se non siano utilizzati (certamente con cautela e rispetto, ma pur sempre utilizzati) e non godano, quindi, delle minime ma continue attenzioni manutentive che derivano loro propriamente dall’essere vissuti e frequentati. Attenzioni che agiscono in favore della conservazione più di molti restauri.

Se consideriamo l’argomento sotto il profilo della storia dell’architettura, sarà facile notare come, ad esempio, il Pantheon di Roma si sia conservato nei secoli in maniera assai più soddisfacente del grande Calidarium delle Terme di Caracalla, in origine solido e forte come il Pantheon, solo per il fatto di essere stato costantemente frequentato e utilizzato, avendo avuto la sorte di essere trasformato in chiesa, da tempio di tutti gli dei a chiesa di tutti i martiri, S. Maria ad Martyres, già in età tardoantica e precisamente nell’anno 608. Ma si può anche ricordare, sempre in Roma, il caso di S. Sabina, chiesa risalente agli inizi del V secolo che, per essere sempre rimasta in uso e aperta al culto, ha conservato intatta la sua struttura architettonica ed anche il portone ligneo scolpito originale, tuttora al suo posto.

È stato giustamente rilevato da Cesare Brandi, grande storico dell’arte e direttore per molti anni dell’Istituto Centrale del Restauro in Roma, che il primo atto di restauro consiste già nel ‘riconoscimento’ del manufatto come ‘opera d’arte’ o come ‘testimonianza storica’, diremmo oggi come ‘bene culturale’. Circostanza che lo distingue dall’insieme delle cose che ci attorniano e che impone, di conseguenza, attenzioni particolari: quelle, ad esempio, che differenziano un vero atto di restauro da uno di recupero o di ristrutturazione edilizia, un atto seriamente conservativo da uno di frettoloso e utilitaristico ammodernamento (o peggio, nel caso delle facciate d’una vecchia casa, di ‘rinfrescamento’ con tinte nuove e sgargianti). Nello stesso tempo tale riconoscimento si è ampliato dall’oggetto prezioso, come il cammeo o la gemma, alle opere d’arte pittorica e scultoria, quindi all’architettura ed oltre, al paesaggio urbano e naturale.

Tale riconoscimento non costituisce, neanch’esso, un atto elitario o erudito. È, al contrario, la garanzia della conservazione di una memoria non solo individuale ma collettiva, di un’identità; ciò nella consapevolezza che il futuro si costruisce basandosi sul passato e sulla sua eredità non sul vuoto e sull’amnesia, la quale notoriamente è, sia in campo medico che culturale, un fenomeno patologico. Il restauro e la tutela riguardano tutte le testimonianze del passato, senza differenze fra quelle colte e letterarie, come un antico codice, e quelle di ‘cultura materiale’, come la semplice ma sapiente confezione d’un intonaco o d’un paramento murario in pietra a vista. Anzi, proprio a queste ultime, definibili come espressioni delle classi cosiddette subalterne, quelle che operavano non con lo strumento della scrittura, in latino o anche in volgare, ma con la loro intelligente manualità, si deve la definizione del panorama paesaggistico, agricolo e urbano, di molte nazioni, non solo europee.

Attenuatosi forse il rischio, tipico dei passati decenni, della rovina delle città antiche per assoluto disordine urbanistico, brutale speculazione, sovraccarico di funzioni improprie, attiva ignoranza, oggi la situazione si presenta in modo certamente diverso, tuttavia non scevro di pericoli d’altra natura. Si nota infatti un più subdolo e latente processo d’alterazione dei centri storici sostenuto da una serie incontrollata e fitta di modificazioni architettoniche (tipologiche, delle superfici, volumetriche, complici anche le accresciute necessità impiantistiche e tecnologiche, di sicurezza, d’igiene, d’accessibilità); dall’assenza di scelte urbanistiche forti, come la dislocazione d’attività, specialmente pubbliche, incompatibili; da un sostanziale disconoscimento sociale dei valori del centro antico (identificati dalla cultura di massa non nel tessuto urbano ma nei soli monumenti-simbolo) cui fa seguito una sua lenta destrutturazione, con perdita o snaturamento dei suoi significati.

Da questi fenomeni derivano, quali vistosi effetti, la confusione visiva dei medesimi centri (dalla cartellonistica pubblicitaria alle vetrine e insegne dei negozi, dalle reti impiantistiche d’illuminazione, televisive, di sicurezza, telefoniche, del gas all’arredo urbano, spesso sciatto o pretenzioso); il disordine della circolazione, pur in molti settori protetti (che rende quasi impossibile percepire la qualità specifica dei centri stessi); il proliferare d’esercizi commerciali squalificati anche nelle zone più pregiate; il costante inquinamento atmosferico, acustico e luminoso.

Naturalmente non tutti i centri antichi d’Italia o, a maggior ragione, d’Europa si presentano in queste condizioni: Ferrara, Padova o Vicenza non hanno i problemi di Roma, Napoli o Palermo; Lucca, Cortona, Urbino, Ascoli Piceno mantengono equilibrio e dignità, insieme ad una ragionevole vitalità, come anche Chantilly, in Francia, o la stessa Maastricht o tante cittadine della Germania o della Gran Bretagna, ricordate anche da Chueca Goitia. Eppure la maggior parte dei centri storici manifesta problemi gravi e non facilmente risolvibili.

Se si guarda al passato, risalendo indietro fino al Sei-Settecento, si può notare che la più decisa e forte spinta alla conservazione delle proprie ‘memorie’ (fra cui oggi sono da considerarsi, in primo luogo, i centri storici) viene dalla ‘base’, cioè dalle popolazioni locali (sovente guidate da esponenti della cultura borghese del tempo, prevalentemente letteraria: basso clero, insegnanti, notai ecc.) non certo dai tecnici (tanto meno dagli architetti) né dai detentori del potere politico-amministrativo o religioso. Oggi la situazione non è sostanzialmente cambiata, per quanto riguarda questi ultimi, mentre la voce della base è rappresentata dall’associazionismo volontario che normalmente esprime la vera e più vigile coscienza della conservazione.

Guardando più a fondo, la prima causa sociale di rischio del patrimonio architettonico e paesaggistico è la condizione subalterna della cultura e delle sue ragioni, assoggettate al professionismo politico, tecnico e burocratico, quando non all’affarismo deteriore. Da qui la lenta erosione sociale, materiale, figurale e di senso dei centri storici cui prima s’accennava; una situazione di crisi non più palese e violenta come nei decenni scorsi, ma ugualmente allarmante.

Se tale è il quadro italiano, l’Europa centro-settentrionale, per maggiore capacità e, forse, probità amministrativa, potrebbe rappresentare un valido modello ma essa, in proposito, manifesta gravi carenze di cultura: prevalgono, su tutti, i criteri economico-finanziari, l’esigenza di tutela non è sentita come un valore prevalente per non dire assoluto, i suoi stessi contenuti rispecchiano incertezze di natura teoretica e concettuale. Il tasso di consunzione dei centri antichi è ugualmente elevato, pur se fornito di tutti i crismi della legalità, in ragione d’una normativa più tollerante e, soprattutto, più attenta alle immediate esigenze economiche dei privati: da qui operazioni di mantenimento delle sole facciate e d’integrale rinnovamento degli organismi architettonici, d’isolamento o di demolizione totale (spesso seguita dall’azione uguale e contraria del rifacimento à l’identique quando, dopo qualche tempo, ci si rende conto del danno arrecato), infine di stravolgimento dei percorsi e degli allineamenti antichi.

L’Italia pone tutt’altre questioni e la situazione sembra, sotto certi aspetti, meno drammatica: i suoi problemi sono legati all’incapacità di vivere uno stato di buona ordinaria amministrazione, anche dei beni più preziosi.

In conclusione, la cura dei centri storici è materia urbanistica o propriamente di restauro? È l’una e l’altra cosa insieme: in certo senso gli aspetti strategici e ‘immateriali’ sono urbanistici, quelli tattici e ‘materiali’ (o, meglio, d’intervento diretto sulla materia degli antichi edifici di cui sono composti i centri storici) sono restaurativi. L’urbanistica stabilisce le regole del gioco (pianificazione del territorio; ruolo del centro storico in relazione all’intera città; comparti, unità minime d’intervento; incentivi a costruire e a conservare; definizione delle funzioni compatibili o no; controllo dell’immagine urbana complessiva e del suo skyline; influenza, pur indiretta, sui meccanismi del mercato immobiliare ecc.) e si avvale di momenti ‘tecnici’ alternati a scelte ‘politiche’ e ‘gestionali’. Il restauro costituisce il momento operativo, a base scientifica, sul singolo manufatto o complesso di manufatti, sempre tenendo presenti l’estensione del concetto di bene culturale dall’oggetto singolo al paesaggio.

In questa prospettiva il centro antico merita d’essere considerato come un ‘bene’ culturale storico-artistico unitario; non necessariamente come opera d’arte totale in sé ma, parafrasando il noto concetto coniato dal filosofo Benedetto Croce (1866-1952), come “letteratura architettonica”, espressione di una bellezza corale e diffusa. L’unità del centro storico è simile a quella del mosaico, figura unitaria ma composta di più parti. Anche una semplice tessera musiva, nel nostro caso una sola casa, può influenzare l’insieme nel bene o nel male. Da qui la necessità del massimo impegno per un controllo serrato e per un’attenzione costante a tutte le scale d’intervento, dagli elementi minuti al territorio nel suo insieme, dalla tutela dell’antico al perseguimento della qualità delle nuove realizzazioni.

*

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Nota

1 Citazione originale: “salvación depende de una mínima capacidad de transformación”.
2 Citazione originale: “no es un conjunto de intereses inmobiliarios. Es una forma de vida, una cristalización histórica, un conjunto monumental”.
3 Citazione originale: “la destrucción pacífica del patrimonio nacional”.
4 Citazione originale: “desbordó los límites de su tiempo”.
5 Citazione originale: “prueba palpable de un proceso de lenta biografía social”.
6 Citazione originale: “obra de arte total”.
7 Citazione originale: “ciudad vibra y vale cuando vive”


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